“…leggere gli articoli economici di Fubini produce la stessa sensazione di inadeguatezza che SI prova di fronte all’arte moderna, alla musica classica o alla rima baciata. Si ha la sensazione, spesso, di leggere qualcosa di imparaticcio, superficiale, limitato, acquisito in modo mnemonico, non elaborato e non “rimasticato” quando non addirittura copiato da altri testi di persone che ne sanno di più”
Di Average Joe
Classe 1966, due anni meno del blogger, Federico Fubini era, all’inizio degli anni ’80, come il blogger, un giovane figgicciotto fiorentino. Frequentando il Liceo Michelangiolo, antistante il mio ITC Duca D’Aosta nella centrale Via della Colonna, era usale incontrare il futuro vicedirettore del Corriere in strada, a volantinare, a manifestare o ad appiccicare tazebao autoprodotti. Fisico minuto, occhialini tondi, basco spesso calcato sui capelli ricci, Federico amava atteggiarsi a novello Gramsci forte anche di una ascendenza intellettuale (il nonno era uno scrittore) rara a quei tempi fiorentini. Onusto di studi condotti, suppongo, nella sua stanza semibuia, non si peritava di rendercene parte trasformando le riunioni pomeridiane in Via Alamanni in lunghe (e un po’ tediose) sessioni di analisi politico-ideologica. Di ritorno dalla vacanze, sarà stato il 1982, i compagni mi dissero che Fubini aveva smesso improvvisamente di fare politica in quanto “voleva studiare e fare carriera”. La decisione non turbò più di tanto la vita del blogger anche perché di lì a qualche mese avrei mollato anch’io. Mi era però rimasta sempre la curiosità di quel “fare carriera” così decisamente declinato da un ragazzetto 16nne, ritenuto evidentemente incompatibile con una militanza politica che sembrava invece appassionarlo.
Dimentico della vicenda, preso da 3 decenni di vita, ho reincontrato virtualmente Federico qualche anno fa allorchè si immortalò intervistatore di Mario Monti in un, penso, dimenticabile libro. Fatte le debite verifiche sul web, realizzai che il predetto Federico Fubini era proprio lui e che aveva davvero fatto carriera, scrivendo libri, passando da una testata prestigiosa all’altra, diventando sodale di Soros ed interpretando sempre l’aedo dell’europeismo più acritico e sfegatato. Realizzato che il sospetto che nutrivo, che cioè esistesse un qualche canale nascosto di reclutamento precoce di giovani promesse della classe dirigente da avviare chi al ruolo politico, chi a quello finanziario, chi a quello giornalistico e culturale, era reale e compreso anche che, nel 1982, la cooptazione nell’elite globalizzata non poteva effettivamente non passare dall’abiura di un partito allora ancora fortemente marxista, mi sono messo a seguire con maggiore attenzione la carriera del compagno che ce l’aveva fatta.
Ricca di titoli e parca di dettagli, internet restituisce che “Federico Fubini è passato da Firenze, dove è nato nel 1966, a Bruxelles, dove ha vissuto per quasi dieci anni a partire dal 1994. È passato anche dal greco antico, che ha studiato all’università, all’economia e alla finanza di cui si occupa ogni giorno da più di vent’anni”. Aulico agit prop dell’europeismo, suppongo che abbia passato i primi 15-20 anni di carriera a scrivere articoli, che francamente ignoro, sulle virtù dell’Unione Europea e sui benefici che abbiamo tratto dalla sua esistenza: pace, democrazia, libertà, diritti, benessere, tolleranza. In un’epoca priva di assilli numerici ed intrisa di europeismo svagato e sentimentale, suppongo bastasse intingere l’elegante prosa nel banale luogo comune per sfangarsela con poco e vivere di rendita. E suppongo anche che i problemi per Federico siano iniziati quando, a partire dal 2008, i numeri sono diventati l’essenza ossessiva dell’europeismo. Avendo fatto il percorso inverso e ponendo spesso mano alla pistola (virtuale) quando sento parlare di sonetti, odi e madrigali, suppongo che la stessa sofferenza insorse nel compaesano quando dovette passare dalla letteratura alla scienza delle finanze. Anche perché, nonostante l’apparente disinvoltura dell’incipit del Corriere, il passaggio “dal greco antico all’economia e alla finanza” non è affatto banale. E non essendo stato fatto quando era logico farlo, cioè a 18 anni, lascia inevitabilmente come strascico una necessaria superficialità e banalità di approccio ai temi che si vorrebbero affrontare.
In effetti, leggere gli articoli economici di Fubini produce la stessa sensazione di inadeguatezza che il blogger prova di fronte all’arte moderna, alla musica classica o alla rima baciata. Si ha la sensazione, spesso, di leggere qualcosa di imparaticcio, superficiale, limitato, acquisito in modo mnemonico, non elaborato e non “rimasticato” quando non addirittura copiato da altri testi di persone che ne sanno di più. E altrettanto spesso l’impressione è che l’originale sia semplicemente una velina che qualche ufficio di propaganda si premura di passare, a lui come a molti altri giornalisti, per semplificargli l’arduo ma retribuito compito di scrivere qualcosa. Anno dopo anno, passando da Monti a Letta, a Renzi e Gentiloni, ora ai pentaleghisti, la morale è sempre quella: aumentare le tasse (tutte, sulla casa, sulla successione, sui consumi) e tagliare le pensioni rinviandole sino alla morte naturale. Ovviamente rimanere sempre fedeli sudditi della tecno-burocrazia di Bruxelles e rifuggire dalle tentazioni dei populismi. E se proprio ci caschiamo, nel peccato populista, dobbiamo espiarlo tramite mortificazione economica, esplosione dello spread ed arrivo della Trojka. Amen.
È per questo che ad agosto sono rimasto piacevolmente stupito dalla lettura di un lungo fondo che di fubiniano aveva ben poco. Il compagno degli ingenui sogni rivoluzionari giovanili osava ammettere che, forse, le aspettative di rapido passaggio della nottata populista in Italia ed in Europa erano azzardate. Che anche nel 1791 e nel 1919 molti non si aspettavano che le rivoluzioni, rispettivamente borghese e proletaria, sarebbero durate nel tempo. Nelle more dell’imminente censura tutela del copyright stabilita dal Soviet Supremo Parlamento Europeo due settimane fa, mi permetto di riportare ampi stralci dell’articolo:
- Tutto può essere. Può essere anche che le ammende si accumulino ma l’infatuazione degli italiani per il governo populista si trasformi in rapporto stabile
- queste forze europeiste e liberali hanno il rifiuto di chiedersi perché i connazionali gli abbiano voltato le spalle per affidarsi a leader ai loro occhi tanto smargiassi, poco istruiti e invisi ai grandi media esteri che quegli esponenti del vecchio establishment leggono ogni mattino. Credevano di guidare il proprio Paese verso un futuro migliore e non capiscono come sia possibile che il Paese non li voglia più.
- le élite europeiste nelle loro certezze non hanno mai perso tempo a valutare il retroterra su cui innestavano questa continua pressione psicologica sui loro connazionali.
- La più evidente è che la promessa di prosperità o almeno di normalità offerta dall’euro non è stata mantenuta. Poco importa che ciò sia accaduto, in buona parte, perché i politici e il sistema produttivo non hanno avuto il coraggio e la lungimiranza di prepararsi davvero all’unione monetaria, in modo da sfruttarne meglio i vantaggi e contenerne gli svantaggi.
- Gli italiani hanno capito soprattutto la sostanza, cioè che quella promessa europea è stata disattesa. Come Nino Manfredi in «Pane e cioccolata», hanno scoperto che non bastava camuffarsi da nordici per diventare davvero tali. Negli ultimi anni hanno anche visto che alcune delle richieste di sacrifici più dolorose arrivate dal Nord Europa non erano nel loro vero interesse o nell’interesse dell’equilibrio generale europeo. Piuttosto, riflettevano una percezione tedesca dell’interesse europeo o magari solo una sete di consenso interno del governo di Berlino.
- Questa pressione per somigliare alla Germania ha finito così per produrre reazioni ambivalenti. Rivelava nella nazione leader un fastidioso innamoramento di se stessa e finiva per aggravare il complesso di inferiorità nei seguaci italiani, dato che le distanze aumentavano anziché ridursi. Un modello distante e irraggiungibile crea solo frustrazione. Peggio, gli italiani vedono che i membri delle élite europeiste che spingevano in quel senso, per qualche ragione, cascano sempre in piedi; non condividono mai il destino di penuria e insicurezza del loro popolo.
- Matteo Salvini e Luigi Di Maio entrano in scena a questo punto. Non hanno studiato molto, non pretendono di sapere, si vantano del loro passato di lavoretti o della «panzetta» perché, dice Salvini, «non vado in palestra e se vedo un cornetto alla crema me lo magno». Hanno risposte sbagliate, ma domande giuste (disoccupazione, disuguaglianza…).
Comprenderete anche voi che l’articolazione di pensiero, il tono dubitativo, la prosa dialogante che per la prima volta si degna di prendere in considerazione, e non semplicemente di disprezzare, le argomentazioni dell’avversario, il riconoscimento di errori, limiti, promesse non rispettate dall’Euro, la comprensione per i bifolchi che questi errori hanno subito, comprenderete dicevo che questi elementi rappresentano uno iato, una frattura, un cambio di passo nella produzione fubiniana. Diceva Pertini che l’ora più terribile sono le quattro del mattino quando, nel silenzio totale, ti trovi solo con te stesso: questo deve essere accaduto a Federico che, tutto insieme, all’improvviso, ha ritrovato un barlume del se stesso giovane ed acuto critico della realtà. Ma l’alba fuga le nubi della notte e anche Fubini deve avere avuto un sussulto perché, chiudendo l’articolo con il classico argomento classista, stabilisce che la colpa è dell’elettore sollevato “dal senso di inferiorità di doversi adattare a un modello superiore. I nuovi potenti hanno convinto gli italiani che sono liberi; vanno bene così, nei loro limiti, e più niente è atteso da loro”: insomma, italiani assimilati sprezzantemente ed in massa ai Brexiters vecchi ed ignoranti ed ai Deplorables trumpiani.
Ne consegue che questo pezzo – uno dei migliori dell’anno, non solo suo ma di tutta la “stampa di qualità” – è rimasto purtroppo un unicum del Fubini pensiero che oggi, con lo spread a 280, prevedibile come la vecchiaia, tedioso come in gioventù e fastidioso come la diarrea, conferma che una manovra in deficit del 2,4% non è ammissibile in Italia e che non è pensabile di fare paragoni con la Francia che ha sì un deficit del 2,8% ma solo transitoriamente e con un debito del 97%.
Ed allora, concludendo queste reminescenze giovanili e senili insieme, vale la pena rispondere un po’ al vecchio compagno di lotte.
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