NOI IN LUI E LUI IN NOI
Dalla “Terza Lettera di Santa Chiara d’Assisi a Sant’Agnese di Praga” (3LAg FF 2890-2893)
«Stringiti alla sua dolcissima Madre, che nel piccolo chiostro del suo sacro seno raccolse e nel suo grembo verginale portò Colui che i cieli non potevano contenere… A qual modo, dunque, che la gloriosa Vergine delle vergini portò Cristo materialmente nel suo grembo, tu pure, seguendo le sue vestigia, specialmente dell’umiltà e povertà di Lui, puoi sempre, senza alcun dubbio, portarlo spiritualmente nel corpo casto e verginale. E conterrai in te Colui dal quale tu e tutte le creature sono contenute, e possederai ciò che è bene più duraturo e definitivo anche a paragone di tutti gli altri possessi transeunti di questo mondo»
Ho voluto sottolineare ed evidenziare in neretto le due frasi fondamentali di questa missiva che santa Chiara d’Assisi scrisse alla sua contemporanea sant’Agnese, quindi ad una vergine consacrata come lei. In quei passaggi, che riguardano tutti noi e non solo i consacrati, è espresso tutto il Mirabile Mistero e la Causa ontologica del nostro esistere.
Alcuni secoli prima di Chiara, san Paolo, come attestano gli Atti degli Apostoli 17,28, citando i versi di un pagano, Arato di Soli (315-240 a. C.), “filosofo cosmico e poeta omerico”, nel suo discorso all’Areopago di Atene, di fronte ad un uditorio di filosofi neoplatonici, per spiegare quel Mistero, affermava «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”».
All’Areopago, nonostante l’incomprensione da parte degli uditori platonici sulla questione della “resurrezione della carne”, si suggellò l’ulteriore e definitivo passo della dinamica, in atto già da epoca mosaica ed alessandrina, dell’incontro tra la Rivelazione abramitica e l’ellenismo antico, tra Gerusalemme e Atene all’insegna di Roma. Un incontro che adempì la promessa profetica dell’universalizzazione del Vero Ebraismo, celato nel Vecchio Testamento e svelato da Cristo nel Nuovo Testamento.
Arato di Soli fu anche autore degli “inni a Pan”, portatore quindi dell’approccio panteista al mondo inteso come auto-divino, più che come manifestazione del Divino. Oggi parleremmo di olismo nel senso della “teoria del Tutto”. Questo tipo di approccio può avere due forme, quella “idealista” e quella “materialista” ossia un assoluto apofatismo o un assoluto catafatismo. Per semplificare, in modo molto approssimativo ma utile a comprendere il nocciolo del problema, possiamo indicare, per l’antichità, in Platone ed Aristotile e, per la modernità, in Cartesio e Gassendi o in Hegel e Marx, i maggiori rappresentanti dell’una e dall’altra forma di panteismo. La prima riduce tutto all’unità ideale indifferenziata, la seconda riduce tutto alla sostanza materiale.
Nel paganesimo antico, anche quello più colto, nonostante le molteplici intuizioni che verso di Essa portavano, mancava, perché perduta per la caduta ab origine, la corretta verità primordiale della “Trascendenza immanente” o, meglio, “in-formatrice” del creato. In altri termini, non era colta in modo chiaro e senza equivoci la Trascendenza Divina che si svela nascosta nella fitta rete della creazione ma che resta ad essa superiore, la Trascendenza che si svela nella trama del reale quale Fonte e Principio del “Tutto” ma che è oltre la stessa “Totalità”. Colui che tutte le creature contiene, sicché nessuna è al di fuori di Lui, resta tuttavia Altro dalle creature in Lui contenute. Queste ne riflettono, nella loro bontà ontologica, il Bene e la Bellezza, ne sono immagini che nella pluralità portano impresse il sigillo dell’Unità Trascendente, ma restano ontologicamente distinte da Lui.
Sostenuta dall’apporto sovrarazionale della Mistica, l’intera riflessione teologica cristiana di matrice apostolica, dai Padri della Chiesa fino alla Scolastica medioevale passando anche per le correnti spirituali del cristianesimo orientale, si è sviluppata intorno al problema della conciliazione dell’Onnipresenza omnicomprensiva di Dio con la esistenza in Lui della realtà creaturale altra da Lui, senza da un lato cadere nel panteismo, e quindi nella tentazione di auto-deificazione da parte della creatura ossia del ritenersi dell’uomo “dio a sé stesso” o “dio per natura o in potenza”, e senza cadere dall’altro lato nell’impossibile affermazione che possa esserci qualcosa o qualcuno al di fuori di Dio, estraneo o opposto a Lui. Il problema fu risolto mediante la ricezione della categoria ontologica della “partecipazione” per la quale le creature sussistono in Dio perché partecipano ontologicamente, in una qualche misura, di Lui. Una categoria di matrice ellenistica ma, alla luce del dato rivelato, già rintracciabile nei libri veterotestamentari come quello della Sapienza, un libro non a caso espressione dell’incontro con l’ellenismo e non a caso accolto come ispirato dal Cattolicesimo e dall’Ortodossia ma non dal testo ebraico, postbiblico, masoretico e dal protestantesimo.
Come dicevamo, e qui ribadiamo, non si è trattato soltanto di una dinamica di acculturazione filosofica perché la riflessione teologica è stata, lungo i secoli, costantemente confermata, in aderenza al dogma di fede, dall’esperienza mistica che, nei suoi grandi protagonisti (si pensi, solo per fare un esempio, a Teresa d’Avìla ed al suo “Castello interiore”), ha illuminato di Luce Vera le verità teologiche, spesso, per la natura della loro formulazione concettuale, alquanto didattiche e sempre a rischio di involuzione razionalista o di chiusura reificante.
Quando san Paolo, che per sua stessa ammissione fece l’esperienza del Terzo Cielo (2Corinzi 12,2), afferma «Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me» (Gal. 2,20) si sta riferendo esattamente a questa conferma per via mistica delle verità razionali della teologia. In particolare della Verità della quale abbiamo trattato sin qui: noi siamo in Lui, perché nessuno può essere fuori di Lui che è Onnipresente ed Onnicomprensivo, ma ciononostante siamo altri da Lui e tuttavia da Lui, nel Suo Amore, partecipati affinché potessimo essere.
C’è, però, anche un altro aspetto cruciale nell’espressione usata da santa Chiara «conterrai in te Colui dal quale tu e tutte le creature sono contenute». Si tratta del Mistero più inaudito della Rivelazione abramitica che è quello della Kénosi di Dio, del suo farsi piccolo, del suo “rimpicciolirsi”, fino a farsi creatura pur restando assolutamente Creatore. Nell’Incarnazione del Verbo di Dio – un fatto che, insieme alla annunciata resurrezione della carne, non era per niente comprensibile di primo acchito (ci vollero tre secoli perché si affermasse in un più vasto ambito) all’uditorio platonico di Paolo di Tarso nell’Areopago di Atene – l’Infinito entra nel finito, l’Incommensurabile si costringe nel commensurabile, l’Invisibile si fa visibile e l’Inaccessibile si fa accessibile addirittura fino a rendersi toccabile da mani umane e percepibile sensibilmente da occhi ed orecchi creaturali. Un fatto dirompente per come, fino ad allora, il Divino si era rapportato con l’umano e per come Esso continua a rapportarsi con l’uomo nel panorama religioso non abramitico. Questa è la grande, fondamentale, ineguagliabile eccezione abramitica massimamente adempiuta nel Cristianesimo (laddove ebraismo ed islamismo non ancora hanno raggiunto tale vertice benché condividano con il Cristianesimo la realtà dell’irruzione di Dio nella storia umana, e quindi nella realtà propria dell’unica creatura auto-cosciente del cosmo, che le mitologie extrabibliche, nella loro ricerca e spinta al Divino, hanno soltanto, confusamente, adombrato).
Come abbiamo avuto modo di scrivere altrove, è cruciale sottolineare «… la necessità di ben intendere, onde evitare di farne un elemento di eterodossia che si presterebbe alle facili strumentalizzazioni degli esoteristi della domenica o anche della moda new age, la distinzione tra cristico e cristiano con la sua “asimmetria” tra Logos e Gesù. Il problema, qui, è nel fatto che mentre è giusto dire che Gesù Cristo è il Logos deve essere verificato se è possibile affermare che il Logos non è solo Gesù o se in quest’ultima affermazione non vi sia un abbaglio ereticale. Perché è innegabile che in essa, presa tout court, vi è un rischio di relativismo irenistico. La deriva ereticale diventa inevitabile se non si considera con forza la “follia di Dio” il Quale sceglie di far entrare Sé Stesso ossia l’Infinito nel finito. Lui è l’Onnipotente e quindi può farlo, può stabilire che Gesù è il Logos ed il Logos è solo Gesù. Anche se noi uomini non riusciamo a capirlo fino in fondo e ci può sembrare una pretesa apodittica, intollerante verso le altre forme religiose, pretenziosamente assolutistica. Il Dio cristiano, ad un tempo nascosto e rivelato come afferma l’Esodo nell’“Io sono Colui che Sono”, non è riducibile a nessuno degli esseri – qui il fondamento della teologia apofatica o negativa – e nondimeno è il Vivente ossia ha un Volto, un Nome. Egli è Infinito, perché Uno nella Sostanza, ma anche, nella co-eterna essenza, Trino nelle Persone le quali, in quanto relazioni ad intra, non inficiano in Sé stesse l’Infinita Unità ed Unicità della Natura che è la loro stessa Natura. Ecco perché il Dio biblico non “emana” la manifestazione, non è l’Uno che si frammenta nel molteplice. La creazione non è manifestazione e quindi “caduta” nell’oscurità della materia. La creazione partecipa di Dio, è partecipazione all’Essere Infinito irriducibile alle creature. E’ dono che l’Amore Infinito fa alle creature partecipandole del suo Essere personale e tuttavia infinito per natura, nascosto, misterioso. Dio, abbiamo detto, ha un Nome ma è impronunciabile dall’uomo senza che Lui lo riveli. Il tetragramma ebraico, YHWE, sta ad indicare per l’appunto questa impossibilità per l’uomo a pronunciare, ossia a comprendere, raggiungere, Dio se Lui non si svela nella misura all’uomo consentita» (Cfr. Recensione a Marco Toti “Un Atomo di Fuoco”, Il Cerchio, in www.domus_europa.eu).
Per chi ha orecchie per intendere e cuore per capire è del tutto evidente che in Gesù Cristo torna a convergere in Unità tutta la Verità di Dio e sul mondo che il peccato adamitico aveva sparso in mille rivoli e disperso in molteplici ma parziali verità religiose e filosofiche miste, tuttavia, a mere costruzioni umane secondo l’immagine evangelica della perla gettata ai porci. Sicché «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (Atti 4,12).
Luigi Copertino