Danilo Quinto
E’ il 1415. Francesi e inglesi combattono la Guerra dei Cent’anni. Ad Azincourt, le forze francesi sovrastano quelle inglesi. William Shakespeare racconta che Enrico V, Re d’Inghilterra, dice ai suoi:
«Se è destino che si muoia, siamo già in numero più che sufficiente; e se viviamo, meno siamo e più grande sarà la nostra parte di gloria. In nome di Dio, ti prego, non desiderare un solo uomo di più. Anzi, fai pure proclamare a tutto l’esercito che chi non si sente l’animo di battersi oggi, se ne vada a casa: gli daremo il lasciapassare e gli metteremo anche in borsa i denari per il viaggio. Non vorremmo morire in compagnia di alcuno che temesse di esserci compagno nella morte. Oggi è la festa dei Santi Crispino e Crispiano; colui che sopravvivrà quest’oggi e tornerà a casa, si leverà sulle punte sentendo nominare questo giorno, e si farà più alto, al nome di Crispiano. Chi vivrà questa giornata e arriverà alla vecchiaia, ogni anno alla vigilia festeggerà dicendo: “Domani è San Crispino”; poi farà vedere a tutti le sue cicatrici, e dirà: “Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino”. Da vecchi si dimentica, e come gli altri, egli dimenticherà tutto il resto, ma ricorderà con grande fierezza le gesta di quel giorno. Allora i nostri nomi, a lui familiari come parole domestiche – Enrico il re, Bedford ed Exeter, Warwick e Talbot, Salisbury e Gloucester – saranno nei suoi brindisi rammentati e rivivranno questa storia. Ogni brav’uomo racconterà al figlio, e il giorno di Crispino e Crispiano non passerà mai, da quest’oggi, fino alla fine del mondo, senza che noi in esso non saremo menzionati; noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi questo giorno di San Crispino!».
Parole che, a distanza di sei secoli, costituiscono profondi insegnamenti per l’oggi. Perché siamo al mondo? Per conservare la nostra vita nella dimensione che ci è data dalle nostre certezze materiali o per coltivare una vita degna di essere vissuta, che guardi il Cielo, che vada oltre la prospettiva terrena? Quale valore ha questa nostra vita se non comprende anche una dimensione trascendente, che quando si scontra con la realtà, ci impone di scoprire in noi stessi la capacità di divenire eroi? Qualcuno desidera la nostra morte spirituale, oltre che quella fisica? Bene, significa che noi valiamo qualcosa. Che cosa fecero i primi cristiani? Barattarono la loro sopravvivenza con i loro carnefici? Furono tiepidi? No, testimoniarono la Verità e scoprirono la bellezza del sacrificio. Cantavano la Gloria di Gesù Cristo mentre i loro corpi venivano dati in pasto alle belve. Erano pochi? Certo, ma non si lamentavano. Sapevano che Dio sottopone i Suoi amici a delle prove, per fortificarli nella fede, per invocare il Suo nome. Non è necessario essere in tanti per battere il nemico. Chi è in grazia di Dio è già maggioranza. Pochi saranno gli eletti e pochi parteciperanno al banchetto dell’Agnello. Gli altri? Sono già morti per l’eternità, se non si pentiranno. Potranno toglierci tutto quello che riguarda la nostra vita, il lavoro, gli affetti, le amicizie, perfino isolarci in luoghi ameni e rinchiuderci in dei container, ma non possiederanno mai quello che bramano di possedere: la nostra anima. Siamo soli? No. E’ la Provvidenza che infonde in noi la forza – come dice san Paolo ai Filippesi – che «Io tutto posso in Colui che mi dà la forza».
Quando eravamo cristiani, coloro i quali, per volontà di Dio, avevano lo scettro del comando, si sottoponevano di buon grado alla Sua volontà e così insegnavano a fare al loro popolo. Avevano come fine dare, con le proprie gesta, onore non al proprio nome, ma a quello di Dio, Uno e Trino. Così diventavano migliori: “nobili”. In questo giorno, attraverso la memoria dei defunti, voglia il Signore concederci la grazia di questa consapevolezza.
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