NUOVO DOCUMENTO VATICANO SULLA FINANZA

(Andrea Cavalleri)

 

La Congregazione per la Dottrina della Fede e il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, il 17.05.2018 hanno pubblicato un documento intitolato  “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones”.

L’approccio al problema viene condotto sotto forma di “Considerazioni per un discernimento etico”, cioè una forma ibrida, che non è un chiaro pronunciamento ma solo una vaga esortazione (ma allora c’era il bisogno di scomodare la Congregazione per la Dottrina della Fede?) in linea con lo stile ondivago di tutti gli ultimi scritti provenienti dal Vaticano.

 

Il tema dell’impatto della finanza sul mondo di oggi era doveroso e va reso atto agli autori dello scritto di avere correttamente sollevato le questioni attuali e reali.

Il documento ha un taglio discorsivo e non segue uno schema rigoroso per cui risulta difficile da analizzare.

Io ho scelto di suddividere le considerazioni degli autori in tre grandi categorie: dichiarazioni di principio, indicazione di problemi, suggerimento di rimedi.

 

Il testo è abbastanza breve, una quindicina di pagine, ma un commento del documento, con le citazioni dei passi che sollevano molteplici questioni, porterebbe almeno a raddoppiarne la dimensione.

A chi interessasse l’argomento, consiglio dunque di leggere il testo per esteso qui: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2018/05/17/0360/00773.html#ita

io invece ho scelto di richiamare i concetti del testo con una sintesi estrema e dedicare uno spazio di maggiore agio all’analisi e alla discussione dei temi più sensibili e controversi.

 

Anticipo subito che gli argomenti di principio sono in maggioranza condivisibili, ma espressi in una forma debole e con qualche passo claudicante; i problemi sono elencati in modo pertinente e soddisfacente; i rimedi proposti fanno cadere le braccia.

Una certa discontinuità del discorso suggerisce la presenza in commissione di qualche prelato animato da buone intenzioni e qualche esperto laico che ne abbia smussato gli ardori, ingabbiandone i pensieri entro un recinto di “competenze specifiche”.

 

I problemi della finanza di oggi.

 

Comincio dall’elenco dei problemi, su cui concordo e non discuto nulla.

 

Il dato di partenza è quello che, ad onta di un grande progresso in tutti i campi, permangono nel mondo grandi sacche di povertà estrema e diseguaglianze drammatiche, sia tra Paesi che all’interno di essi. Le politiche economiche sembrano spesso condizionate da miopi obiettivi a breve termine e scarsamente determinate a risolvere i grandi problemi.

 

Mentre alcune minoranze posseggono e accaparrano enormi ricchezze, un numero crescente di persone subisce l’esperienza dell’esclusione: intere masse private di un lavoro degno e di prospettive o vie di uscita non rientrano nemmeno tra gli “sfruttati” ma appaiono quali rifiuti, “avanzi”.

La situazione procede da un’inversione di ordine fra mezzi e fini, per cui il lavoro da bene diviene “strumento” e il denaro da mezzo diviene “fine”; il lavoro quindi, da bene in sé, si trasforma in un mezzo di scambio entro relazioni sociali asimmetriche.

La rendita da capitale insidia ormai da vicino, e rischia di soppiantare, il reddito da lavoro, spesso confinato ai margini dei principali interessi del sistema economico

 

 

La libertà di cui godono gli attori economici, intesa in modo assoluto, ha generato centri di supremazia retti da forme di oligarchia, a cui si sottomettono anche i politici, disorientati e resi impotenti dalla sovranazionalità di quegli agenti e dalla volatilità dei capitali da essi gestiti.

L’industria finanziaria, a causa della sua pervasività e della sua inevitabile capacità di condizionare e – in un certo senso – di dominare l’economia reale, è un luogo dove gli egoismi e le sopraffazioni hanno un potenziale di dannosità della collettività che ha pochi eguali.

 

La ricchezza virtuale, concentrandosi soprattutto in transazioni caratterizzate dal mero intento speculativo, attira a sé eccessive quantità di capitali, sottraendoli in tal modo ai circuiti virtuosi dell’economia reale.

Inoltre, l’estrema volatilità e mobilità dei capitali permette a chi li gestisce di aggirare, violare impunemente o modificare tramite ricatto ogni norma che limiti il loro profitto.

 

La cultura del profitto ad ogni costo (umano ed etico) viene insegnata nelle scuole e applicata nelle carriere aziendali: la dirigenza persegue politiche volte solo a tutelare gli interessi degli azionisti danneggiando gli altri attori coinvolti.

Non si esita a commettere un reato se i benefici superano le penalità attese.

 

La deregulation è terreno fertile per la malversazione e l’azzardo, ma anche per l’insorgere di irrazionalità nei mercati, che producono bolle e crisi.

Senza regole si sviluppano comportamenti  “moralmente criticabili”, come quelli attuati dai gestori del risparmio, attenti al tornaconto proprio o della propria società più che quello dei clienti.

Così pure da parte delle agenzie di rating del credito, inclini ad azioni distorte, fondate su assetti di pericoloso oligopolio.

 

Oltre agli orientamenti e agli atteggiamenti, il documento elenca gli strumenti che si utilizzano quasi solo per compiere atti finanziari eticamente illeciti: la cartolarizzazione di titoli rischiosi,

i derivati, particolarmente i CDS e ancor più quelli stipulati sui mercati over the counter, il trading ad alta frequenza, e lo Shadow banking system, tripudio dell’azzardo speculativo.

 

Infine si indicano come “associazioni a delinquere” quelle che hanno manipolato il LIBOR e il circuito della finanza offshore, che, allo scopo primario dell’elusione ed evasione fiscale, sommano la vocazione ad essere ricettacolo e lavanderia di denaro sporco.

Il fenomeno è così vasto che la ricchezza privata accumulata nei paradisi fiscali da alcune élite ha quasi eguagliato il debito pubblico dei rispettivi Paesi.

E a proposito del debito pubblico, il documento menziona con preoccupazione la speculazione su tale debito, che carica sulle spalle dei cittadini, vale a dire di milioni di famiglie, degli oneri che di fatto risultano insostenibili.

 

Principi.

 

Come ho anticipato, le affermazioni di principio sono sparse nel testo e non vengono esposte né con una consequenzialità organica, né con un linguaggio definitorio.

Pertanto, pur essendo per la più parte condivisibili, necessitano di un riordino.

A riguardo di alcune espressioni o di alcune omissioni formulerò anche delle critiche.

 

Le idee si potrebbero far partire da qui:

“La promozione integrale di ciascuna persona, di ogni comunità umana e di tutti gli uomini, è l’orizzonte ultimo di quel bene comune che la Chiesa si propone di realizzare quale sacramento universale di salvezza”.

Politica ed economia, se orientate al bene comune, sono una forma di carità che si esprime in macro-relazioni collettive.

Per dire quali criteri garantiscano la dignità della persona e permettano quindi di discernere il bene comune, il testo usa una perifrasi di sei righe che può essere riassunta in due parole: legge naturale.

Tutto giusto, ma non capisco perché la Chiesa debba evitare di usare i suoi termini e i suoi concetti.

 

Tale retto orientamento della ragione non può mancare in ogni settore dell’agire umano, quindi nessuno spazio in cui l’uomo agisce può legittimamente reclamare di essere estraneo, o di rimanere impermeabile, ad un’etica fondata sulla libertà, sulla verità, sulla giustizia e sulla solidarietà.

Questo periodo da una parte sottolinea giustamente che “nessuno spazio” dell’agire è immune dal giudizio morale, nemmeno le peculiari leggi scientifiche dell’economia e della finanza  (espressione mia NdA), dall’altra sbaglia l’ordine dei criteri su cui è fondata l’etica, poiché la libertà deve traslare al terzo posto, dietro verità e giustizia.

 

Ne segue che “nessun profitto è legittimo quando vengono meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri”.

Il testo rimarca che ogni azione umana, anche economica, implica  e segue una comprensione dell’uomo e del mondo, e che la visione attuale prevalente è quella individualista,  di un uomo consumatore, motivato essenzialmente dai guadagni pecuniari.

Ciò contrasta con la natura socievole, relazionale, dell’uomo, che lo spinge a ricercare un benessere integrale, fatto non solo di cose o diritti, ma di interazioni positive e amichevoli col prossimo.

“É sempre più chiaro che l’egoismo alla fine non paga e fa pagare a tutti un prezzo troppo alto; perciò, se vogliamo il bene reale per gli uomini, il denaro deve servire e non governare!”

 

Da questo punto in poi la commissione comincia a esaminare i meccanismi di mercato e finanza alla luce degli enunciati generali, sollecitata in ciò dagli abusi, ingiustizie e crisi sistemiche avvenuti nei tempi recenti.

I mercati esistono non tanto per meccanismi anonimi basati sulla tecnologia, ma per accordi e relazioni umane che li precedono; pertanto se queste relazioni non hanno adeguati fondamenti antropologici e morali le conseguenze di mercato saranno negative.

 

Parlando delle relazioni economiche, il testo si riaggancia al tema del dono, fortemente presente nella Caritas in veritate: “la logica del dono senza contropartita non è alternativa ma inseparabile e complementare a quella dello scambio di equivalenti”.

A tal proposito si afferma la “circolarità feconda fra guadagno e dono” che dovrebbe produrre un circolo virtuoso fra profitto e solidarietà, capace di sprigionare tutte le potenzialità positive dei mercati

 

Mi sento di dover contestare con forza questa narrativa, quanto meno se applicata ai mercati.

Poiché nessuno ha mai spiegato come si contabilizza un dono in un bilancio aziendale (anzi, i doni ai dipendenti, ad esempio, sono vietati) l’azione gratuita risulta possibile solo ai singoli privati e non può dunque rientrare in una logica di mercato.

Ne risulta addirittura il paradosso che coloro che lavorano per profitto, per necessità fiscali, di bilancio e per osservanza verso i diritti dei colleghi, devono necessariamente perseguire il profitto, mentre i disoccupati (cioè coloro che meno hanno e che si trovano maggiormente nel bisogno) sarebbero i soggetti più atti a donare lavoro gratuito. E in effetti è invalso l’uso per i confessori di consigliare ai disoccupati pratiche di volontariato.

Quanto possa essere giusta questa situazione, lascio al lettore giudicarlo.

 

Comunque, a latere della logica del dono, il documento afferma giustamente che il profitto non è un parametro decisivo per giudicare il funzionamento di un sistema economico, mentre lo è il benessere che diffonde, un benessere che non si può limitare solo ai suoi aspetti materiali, in quanto ogni scambio non coinvolge solo beni fisici ma anche beni spirituali, come fiducia ed equità.

Quindi “ogni sistema economico legittima la sua esistenza  mediante  la sua capacità di produrre sviluppo per tutto l’uomo e per ciascun uomo”.

Da qui il superamento della logica della concorrenza per entrare in quella della cooperazione.

 

Caratteristica dei mercati, sottolineata con reiterate ripetizioni, è quella di non potersi regolare da sé, soprattutto sotto il profilo antropologico ed etico.

Pertanto occorrono solidi orientamenti generalmente rispettati e regole in continuo aggiornamento per imbrigliare nel giusto alveo la creatività dei mercati, in modo da garantire “ affidabilità  e qualità di tutti i prodotti economico-finanziari”.

 

Pienamente d’accordo sulla regolazione esterna ai mercati, dissento però sull’ultimo punto.

“Affidabilità e qualità” significano infatti che i prodotti finanziari debbono garantire il tornaconto per il possessore, quando invece il punto principale, già evidenziato nell’esposizione dei problemi, è la garanzia che tali prodotti concorrano all’utilità economica generale e non causino danni.

 

Il documento, a proposito delle transazioni finanziarie introduce il nuovo concetto di “immoralità prossima”, che nasce nei contesti di asimmetrie informative o debolezza contrattuale di una delle parti, e che richiede di superare il principio di caveat emptor (stia attento chi compra).

Più specificamente afferma che “non è legittimo, dal punto di vista etico, esporre a indebito rischio il credito derivante dalla società civile utilizzandolo per scopi prevalentemente speculativi”.

 

Sul secondo punto  concordo con la condanna, ma non con il motivo: la speculazione non è dannosa perché sottopone a rischio il credito proveniente dalla società civile, ma perché si appropria  di una fetta del potere d’acquisto della società civile senza aver prodotto niente. E’ furto.

Tra l’altro, in un documento nella cui stesura è coinvolta la Congregazione per la Dottrina della Fede, non capisco perché si parli di “illegittimità dal punto di vista etico” (frase che mi aspetto di sentir pronunciare da un qualunque barbagianni a una conferenza del Rotary club) e non di “peccato mortale contro il settimo comandamento”, non rubare!

 

Il testo stabilisce un paragone tra il mercato e un organismo, la cui salute si realizza solo coniugando il profitto con la responsabilità sociale, quando crescita e diffusione della ricchezza vanno di pari passo.

In questo organismo la funzione della finanza sarebbe quella della “linfa vitale che scorre nelle vene”; subito dopo questa affermazione però compare un’altra frase: “ l’attività finanziaria rivela la sua primaria vocazione di servizio all’economia reale, chiamata com’è a creare valore…” e più oltre

“la creazione di valore aggiunto, che è scopo primario del sistema economico-finanziario, deve mostrare fino in fondo la sua praticabilità all’interno di un sistema etico solido”

 

Personalmente trovo molto diversi i due punti di vista “linfa dell’organismo” e “creazione di valore”.

Scopo del sistema economico-finanziario è di provvedere con abbondanza ai bisogni delle persone, da qui bisogna partire.

Mentre a tal proposito la metafora del sangue spiega che il denaro è funzionale alla creazione e diffusione della ricchezza, il discorso sul valore ne prescinde totalmente.

Infatti il valore aggiunto è una finalità soggettiva che orienta gli operatori negli scambi e può essere presente tanto nella prosperità, quanto nella miseria; anzi più che finalità il discorso sul valore ha senso solo come condizione di fattibilità degli scambi ed è ben lungi dal rappresentarne una meta.

 

L’equivoco continua con “ad ogni titolo di credito deve corrispondere un valore tendenzialmente reale e non solo presunto e difficilmente riscontrabile”, che va corretto nel senso che un titolo, per essere sensato deve avere un’utilità apprezzabile nell’economia reale (e non un “valore” che è tale per uno e non per un altro, che lo è oggi e non domani etc etc).

 

Altra confusione insorge parlando della gestione del risparmio come rapporto fra banca e cliente: la banca crea la liquidità generale di tutta la società e la gestisce in regime di monopolio, ben altro che il trattamento del sovrappiù (risparmio).

 

Un dubbio lo lascia infine una frase sulle tasse che svolgono una funzione perequativa e di redistribuzione della ricchezza: se c’è bisogno di re-distribuire significa che la distribuzione iniziale non è equa. Non sarebbe il caso di intervenire lì?

 

Come si può notare nelle sue espressioni di principio più generali il documento ricalca gli intendimenti e i pronunciamenti ortodossi del Magistero, ma quando si tratta di declinarli al mondo della finanza il discorso perde chiarezza, non per carenze teologiche, ma per una visione parziale e un po’ sbiadita dell’economia.

 

Rimedi.

 

Il discorso dei possibili rimedi prende piede dalla constatazione di “quanto sia ingenua la fiducia in una presunta autosufficienza allocativa dei mercati, indipendente da qualunque etica”, e quanto sia “impellente la necessità di una loro adeguata regolazione”.

Pertanto il documento invoca un “coordinamento stabile, chiaro ed efficace, fra le varie autorità nazionali di regolazione dei mercati”, che per salvaguardare equità e bene comune devono impegnarsi nella “ricerca e attuazione di simili sistemi normativi, che vanno concertati fra i vari Paesi ma la cui portata deve certo essere anche sovranazionale” e si ribadisce quanto sia “urgente un coordinamento sovra-nazionale fra le diverse architetture dei sistemi finanziari locali”.

 

Qui si parte già col piede sbagliato: se è giusto invocare regolamentazioni, non è però grazie a leggi sovranazionali che si risolve il problema, per due motivi.

Il primo è che basta che uno Stato si sottragga alle norme generali per acquisire lo status di paradiso fiscale e speculativo, esercitando sugli altri soggetti nazionali un dumping normativo, che metterà in crisi l’intero sistema.

Ma il secondo e più grave motivo è questo: regole uguali per tutti stabiliranno un mercato finanziario a pari condizioni, che non significa però a pari opportunità, dato che alcune aree del pianeta sono molto più sviluppate di altre.

Quindi gli investimenti si concentreranno laddove l’economia è più avanzata, scarseggiando o mancando del tutto altrove.

E data “l’estrema volatilità e mobilità dei capitali”, già annoverata nel documento stesso tra i problemi, si acuiranno i fenomeni parossistici, che talvolta già oggi si osservano, di inondazioni di denaro laddove meno serve, spalancando le porte allo spreco e alla corruttela, mentre dove gli investimenti sono più necessari il denaro scompare (dato che le prospettive di guadagno sarebbero “meno convenienti”), desertificando interi territori e costringendo gli abitanti all’emigrazione.

E tutto questo anche contro la giustizia, dato che il capitale non si forma solo nei territori ricchi, ma anche in quelli più poveri, che si vedrebbero privati delle loro legittime risorse per aumentare il profitto dei pochi gestori delle loro finanze.

 

L’unica indicazione coraggiosa, ma corretta, sarebbe quella di ancorare il capitale al territorio che l’ha prodotto, in modo che, se non si possono arrestare le diseguaglianze di sviluppo, almeno si limiterebbero  in modo significativo le diseguaglianze nella velocità dello sviluppo, che ha effetto moltiplicativo.

E in quest’ottica si potrebbe rispolverare la logica del dono, che se poco può funzionare in un mercato interno, ritroverebbe tutto il suo significato in quello internazionale affermando il seguente principio, da applicarsi fra Stati ricchi e Stati poveri: che è meglio un piccolo dono piuttosto che un grosso prestito (soprattutto se a interesse).

 

Le cose peggiorano quando il documento passa a indicare i soggetti a cui compete la stesura delle regole: “spetta in primo luogo agli operatori competenti e responsabili elaborare nuove forme di economia e finanza”, instaurando una “alleanza, fra agenti economici e politici”, in cui però “poteri politici e poteri economico-finanziari devono sempre rimanere distinti ed autonomi”.

 

Dunque, secondo gli autori della “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones”, quegli stessi soggetti che, a detta loro, hanno causato squilibri e crisi sistemiche, che hanno speculato sui debiti pubblici, che hanno creato paradisi fiscali e che infine si sono riuniti in “associazioni a delinquere” per manipolare i fixing (sicuramente del LIBOR e forse del non menzionato oro), costoro dovrebbero fare le riforme?

Il conflitto di interessi, in ogni caso, è talmente palese e macroscopico, che mai una persona sensata affiderebbe ai magnati della finanza l’elaborazione dei regolamenti della finanza stessa.

 

Quanto all’alleanza nel perseguire il bene comune, pur nella distinzione, fra politica ed economia, sia pure benvenuta, ma questa non autorizza a sovvertire l’ordine che vede l’economia subordinata alla politica, almeno in via di principio.

Nel momento in cui si ammettesse che l’economia non debba sottostare alla politica, si realizzerebbe subito la situazione del politico che dà un’indicazione mentre il finanziere o l’imprenditore fanno tutt’altro, trovandosi nei fatti questi ultimi nella posizione di comando.

In questo modo si crea un’oligarchia plutocratica e si svilisce la politica al ruolo di consigliera, ascoltata appena con degnazione dal potere di fatto.

 

Il testo esprime poi “l’esigenza, oggi sempre più avvertita, di introdurre una certificazione da parte dell’autorità pubblica nei confronti di tutti i prodotti che provengono dall’innovazione finanziaria” e

qualifica come urgente “una pubblica regolazione e valutazione super partes dell’operato delle agenzie di rating del credito”.

 

Insomma l’idea sarebbe di fare l’ISO 9001 dei prodotti finanziari indicando come ente deputato all’omologazione una agenzia di rating delle agenzie di rating.

L’idea è troppo ingenua per essere vera, nient’altro che un ritorno all’antica questione di chi controlla i controllori che sfiora il ridicolo e che, trattandosi di finanza, può essere canzonata parlando di schema Ponzi delle agenzie di certificazione.

 

Dello stesso tenore di cui sopra è l’invocazione di una clausola generale nella regolazione finanziaria che dichiari illegittimi e sanzioni “quegli atti il cui fine sia prevalentemente l’aggiramento delle normative vigenti”.

Insomma non basta proibire di truffare, ma bisogna proibire di truffare legalmente.

L’autore di questo passo evidentemente non ha chiaro il funzionamento della legge, oppure ha orrore delle limitazioni alla libertà finanziaria che metterebbero questa al riparo dalle malversazioni tramite solide leggi non aggirabili.

In ogni caso il divieto della truffa legale potrebbe diventare una buona barzelletta per gli anni a venire.

 

Il clou dell’autoreferenzialità viene raggiunto quando si invocano i meccanismi di auto-controllo:

“i principali soggetti che operano nel mondo finanziario, e specialmente le banche, devono essere dotati di organismi interni che garantiscano una funzione di compliance … per il processo decisionale e per i maggiori prodotti offerti dall’impresa”.

E a questo scopo si auspica reiteratamente, per le banche e per ogni grossa impresa, l’istituzione di  “Comitati etici, operanti a fianco dei Consigli di amministrazione”.

 

Non posso fare a meno di chiedermi che differenza ci sarebbe tra questi comitati e un oste che deve garantire che il suo vino è buono.

Esistono già molteplici associazioni bancarie che, a parte uno spreco di risorse e un aggravio dei costi, non mi pare che sortiscano nessun effetto e aggiungerne una ulteriore non cambierebbe lo stato delle cose.

Magari se invece che puri comitati di probiviri si istituisse una commissione di controllo composta dai soggetti implicati in contrasto di interessi, ad esempio un comitato dei correntisti da affiancare al consiglio di amministrazione della banca, a qualcosa potrebbe servire.

 

Meglio il testo quando invita a una svolta culturale a partire dagli enti di formazione: “le istituzioni universitarie e le business schools, prevedano dei corsi che educhino a comprendere l’economia e la finanza alla luce di una visione dell’uomo completa … e di un’etica che la esprima”.

 

Alcuni passi sono esplicitamente dedicati alle banche che “ per sostenere adeguatamente i rischi affrontati, devono disporre di convenienti dotazioni patrimoniali”.

Inoltre occorre “una  chiara definizione e separazione, per gli intermediatori bancari di credito, dell’ambito dell’attività di gestione del credito ordinario e del risparmio, da quello destinato all’investimento e al mero business”.

Infine “le banche  siano aiutate … a sostenere adeguatamente l’economia reale”.

 

Si sostiene qui la necessità di innalzare le riserve bancarie e di ripristinare la Gass-Steagall, due provvedimenti che vanno nella direzione giusta, ma che non tagliano la testa al toro.

La soluzione definitiva sarebbe la moneta intera, il 100% money di Fisher, che però ha due difetti: il primo è che trasformerebbe i banchieri in magazzinieri (con stipendio da magazzinieri) il secondo è che segnerebbe un drastico ridimensionamento dei prestiti e degli investimenti.

Ma questo secondo difetto può essere facilmente superato con l’introduzione della patrimoniale sul circolante (l’icemoney di Gesell, sistema che Fisher approvava), che avrebbe le ulteriori conseguenze di reprimere la finanza a favore dell’economia reale e di eliminare gli interessi, restituendo finalmente significato e funzionalità all’antica dottrina sulle usure.

Strano che a uomini di Chiesa questi metodi stiano in orrore, al punto da non menzionarli mai, quando farebbero pacificare dottrina e prassi, oltretutto orientando gli affari verso “la destinazione universale dei beni e verso l’opzione preferenziale per i poveri” che in astratto ribadiscono sempre.

 

Il documento eleva il richiamo a “consentire e favorire delle ragionevoli vie d’uscita dalle spirali del debito (pubblico)”.

 

Non si può che concordare, anche se con un po’ di coraggio si sarebbe potuto anche accennare al fatto che il debito non deve essere l’unico mezzo di finanziamento dello Stato e che di certo non è il più sano.

 

Ultima nota che merita una riflessione è quella sulla responsabilità civile dei cittadini che “votano col portafoglio”, cioè scegliendo gli acquisti possono selezionare l’offerta migliore, anche eticamente, in tutti i settori, compreso il risparmio.

 

Purtroppo bisogna iniziare a dire che quasi tutti i nostri soldi sono prestati alle banche, che quindi “votano” per noi. Poi bisogna aggiungere il fatto che per incidere sul fatturato di una grossa azienda i voti devono essere molti e vuoi per mancanza di informazioni, vuoi per differenze di opinioni, vuoi per necessità del momento, vuoi per standardizzazione dell’offerta, queste soglie critiche di influenza non si raggiungono mai.

Pertanto la teoria del “voto col portafoglio” resta una pia illusione da derubricare nella voce “utopie”.

Conclusioni.

 

Come anticipato all’inizio, l’analisi dei problemi, realistica e veritiera, non trova risposte nel testo della “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones”, dato che la più parte dei rimedi proposti è decisamente inadeguato.

Gli enunciati di principio, sostanzialmente corretti, non riescono dunque a essere tradotti in suggerimenti di azioni concrete a causa, a mio parere, di un problema di visione dell’economia non sufficientemente chiara nei suoi significati e nel suo insieme.

 

Il documento può essere considerato uno sforzo apprezzabile, ma ancora abbastanza lontano dal risultato che voleva raggiungere.