di Roberto PECCHIOLI
L’incultura della cancellazione avanza, sintomo della morte cerebrale di una civiltà giunta al capolinea. E’ una “volontà d’impotenza” che pervade l’intera società, un autolesionismo psichiatrico che ogni giorno segna nuovi traguardi negativi.
A Portland, Usa, il municipio esclude i cittadini poveri bianchi dai sussidi comunali. Un incredibile autorazzismo che recide il filo culturale iniziato ad Atene, l’isonomia, eguaglianza davanti alla legge.
In Francia, culla dei “diritti”, il principale sindacato degli studenti, controllato da quel che resta del partito socialista, tiene riunioni da cui sono esclusi i ragazzi bianchi.
L’odio di sé, delle proprie origini e radici è una malattia degenerativa dalla quale mise in guardia l’allora cardinale Ratzinger, prossimo a diventare papa Benedetto XVI, nel 2004.
“C’è qui un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì, in maniera lodevole, di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.
L’Europa ha bisogno di una nuova accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza basi comuni, senza punti di orientamento offerti dai valori propri. “Negli anni Duemila si sono levate diverse voci per analizzare, mettere in guardia e contrastare tale fenomeno.
Si è riformata una sorta di letteratura o cultura della crisi,simile a quella che un secolo fa espresse le voci potenti di Oswald Spengler, Paul Valéry, Stefan Zweig e della rivoluzione conservatrice, purtroppo senza la consistenza intellettuale di quei profeti. Tuttavia, non mancano voci a cui guardare con attenzione per comprendere ciò che accade e rintracciare gli anticorpi da opporre alla pandemia autodistruttiva. Una è quella di Eugenio Capozzi, docente napoletano, già autore del fondamentale L’ ideologia del politicamente corretto.
Il titolo della più recente fatica di Capozzi, tuttavia, ci sembra cadere in un equivoco iniziale: L’ autodistruzione dell’Occidente.
L’equivoco sta nella parola Occidente. Su questo dissentiamo; la crisi, certamente, investe l’intera sfera di influenza della nostra civiltà, ma l’errore esiziale, a nostro avviso, è insistere su un concetto, quello di Occidente – ovvero Europa (occidentale!) più Nord America – spurio, posticcio, fuorviante.
La somma algebrica di Europa e America non è l’Occidente. E’ semmai, l’accettazione acritica del dominio americano, costruito sul doppio intervento in Europa nelle due guerre mondiali, con la conseguente perdita di autonomia economica, politica, militare e culturale dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti.
La profondissima crisi culturale e civile, il rigetto dei principi del “logos” europeo, l’assenza di propositi e progetti, sono il frutto di quella sottomissione, di quell’oblio della storia e fuga dalle responsabilità che ha colto l’Europa dopo la prima guerra mondiale ed è diventata fenomeno di massa al termine della seconda.
I germi dell’autodistruzione sono europei, ma il virus è stato diffuso dall’America. E’ da questa presa di coscienza che occorre partire, se si vuole svolgere un’analisi seria, gettare il seme della rinascita, e “piantare alberi per un’altra generazione”.
La nostra tesi è che l’Occidente sia il canone inverso dell’Europa. Nella musica classica, il canone inverso è una composizione che unisce ad unamelodia una o più imitazioni che le si sovrappongono progressivamente e che vanno in senso opposto.
Questa è l’America rispetto all’Europa che l’ha generata e che abbandona rigettando la cultura d’origine. Europa e Occidente non coincidono affatto.
Lo confermò lo stesso Benedetto XVI nello storico discorso di Ratisbona, estremo, inascoltato grido d’amore all’ Europa, rivendicando la civiltà nata dall’incontro del Vangelo con la filosofia greca attraverso Roma e il Sacro Romano Impero.
La nozione di Occidente è piuttosto recente ed ebbe intenzioni geopolitiche e strategiche, non culturali o civili.
Risale in particolare a Arnold Toynbee, storico delle civiltà ma innanzitutto uomo degli
apparati riservati dell’Impero britannico, teorico di quell’ “anglosfera” che non coincide
affatto con l’Europa. Scrive Giuliano Marchesini: “il fondamento culturale dell’Occidente è
diverso da quello dell’Europa. Se l’Europa è la terra del Logos, l’Occidente è la terra che si
ribella al Logos: dallo scisma anglicano in avanti, questa è la cifra caratteristica
dell’anglosfera. “
Lo stesso Oswald Spengler, la cui tesi è che ogni civiltà, come gli esseri viventi, nasce, si
sviluppa, decade e infine muore, usa il termine Occidente in maniera specificamente
tedesca: “abendland”, terra della sera, un’endiadi se unita al tramonto (untergang). Egli
mise davanti agli occhi degli europei- destinatari del suo messaggio- l’idea di decadenza,
impensabile un secolo fa. Non avevano creduto ai filosofi (Nietzsche, Schopenhauer), non
avrebbero creduto all’ingegnere divenuto morfologo della storia. Si tratta, scrisse, “di
seguire il destino di una civiltà, e segnatamente dell’unica civiltà il cui compimento sia oggi
in atto su questo pianeta, la civiltà euro-americana, negli stadi non ancora intrapresi”.
Vedeva ancora nell’America il prolungamento dell’Europa, pur avendo compreso che
l’epoca dell’Europa era terminata e che lo stadio della “civilizzazione” sarebbe stato
l’americanismo.
Contrapposta alla civiltà (Kultur) fase ascendente in cui predominano i valori spirituali e
morali che danno il senso all’esistenza e improntano l’arte, la politica, l’economia, la
letteratura, è la “civilizzazione” (Zivilisation). In essa, al principio della qualità si
sostituisce la quantità; all’artigianato, la tecnica; la massificazione dei gusti e dei costumi
travolge le differenze; alla città e alla campagna organizzate a misura d’uomo si
sostituiscono le megalopoli, forme estreme di indifferentismo, termitai senza più umanità;
le società sono livellate, l’edonismo e il denaro sono i soli valori riconosciuti.
Questo è il ritratto fotografico dell’America, negazione dell’Europa, come dimostra la folle
corsa a disfarsi del pensiero, dei costumi, della scienza, dell’intera eredità del Vecchio
Continente. Ne ha diritto, ne porta i germi fin dal viaggio dei primi “pellegrini” del XVII
secolo, che fuggivano dal Vecchio Continente in odio a esso. Nell’ultimo mezzo secolo,
l’America è stata investita da ondate migratorie immense, provenienti dal Sud e dall’Est del
mondo, che hanno cambiato per sempre la mappa demografica, etnica, spirituale e
culturale del grande paese. La sua pentola in continua ebollizione (melting pot) mantiene
come unici punti di riferimento comune la ricerca del “successo” individuale attraverso il
denaro, unita a un’idea particolarissima di uguaglianza-indifferenza che sconcertò
Tocqueville nel XIX secolo.
E’ la loro visione del mondo, il filo che – ancora per un po’ – ne impedirà il crollo: vivano
come ritengono più opportuno, ma smettano di imporre all’ Europa e al mondo l’american
way of life. Vale ovviamente anche il concetto opposto: cessi l’Europa di farsi imporre
l’agenda, i principi, i valori, le politiche e la quotidianità da una civilizzazione dalla quale la
divide un oceano. Europa e Occidente non coincidono, anzi il secondo esiste per negare la
prima. L’Occidente divora l’Europa.
L’America sa solo celebrare se stessa (Walt Whitman, da Foglie d’erba: Canto me stesso, e
celebro me stesso, e ciò che io assumo voi lo dovete assumere, perché ogni atomo che mi
appartiene, appartiene anche a voi…). Per l’americano, il suo modello è superiore a
prescindere, indiscutibile e universale: gli è estranea la complessità, ignora le ragioni altrui
con lo spirito infastidito del bambino che non accetta limiti o correzioni. In questo senso, è
la negazione speculare dell’Europa, davvero il suo canone inverso. Tutto ciò non può far
ignorare che l’arsenale di veleni che ci sta franando addosso è di ascendenza europea. Lo
sciame di termiti che ha scavato dall’interno è partito da qui; le cavallette americane lo
hanno diffuso desertificando il terreno.
Una certa unione tra gli Stati Uniti e l’Europa – penisola protesa a ponente del gigante
asiatico a cui si oppose con accanimento per tre millenni – aveva senso sino al 1989: il
pericolo sovietico era immenso e aveva conquistato metà dell’Europa. Imploso il
comunismo reale novecentesco, non c’è più ragione – politicamente e spiritualmente- per
il cosiddetto atlantismo, la prigione servile (oltreché la religione politica delle élite) di cui
siamo l’ostaggio. Attraverso l’equivoco atlantista, gli Usa mantengono il dominio e ci
impediscono di crescere, riflettere su noi stessi e guardare a est, a cominciare da quelle
parti di Europa che sono il mondo slavo e la Russia, gigante binario con il corpo in Asia ma
il cervello e il cuore in Europa. Ciò corrisponde a un interesse geopolitico di lungo periodo
degli Usa ma non alla nostra vocazione storica.
Sta di fatto che tutte le idee, i tic, le mode, le visioni che sono alla basi dell’autodistruzione
in atto provengono dall’ Occidente/Usa. Vanno rifiutate come estranee, straniere, nemiche.
Abbiamo ammesso la paternità “biologica” di alcune di esse, ma senza l’America, il suo
potere di influenza, la sua imposizione politica, storica e culturale, l’Europa forse avrebbe
sviluppato anticorpi per assorbirne gli effetti. Parliamo delle “culture del sospetto”, la
psicanalisi, il marxismo diventato cultura di massa attraverso la Scuola di Francoforte,
l’indifferenza spirituale, il relativismo, il narcisismo, il liberismo che ha soppiantato il
liberalismo, l’arte figurativa e la musica separate dal rapporto con l’uomo, la
“decostruzione”, ovvero il metodico smantellamento di tutti i principi fondanti dell’anima
europea, la separazione radicale tra la sfera pubblica e la dimensione religiosa. Sono frutti
avvelenati dell’Europa, ma non sarebbero diventati senso comune, cultura di massa, potere
diffuso senza l’attivo consenso degli Stati Uniti.
Ciò che ci ha travolto nell’ultimo secolo – con particolare veemenza da cinquant’anni a
questa parte e con il moto accelerato impresso dal Terzo Millennio – è farina del sacco
europeo, ma il mulino, il mugnaio e il fornaio sono americani.
Gli esempi sono molti: uno riguarda la psicanalisi e le equivoche scienze dell’inconscio. Nascono nell’Europa di lingua tedesca e ascendenza ebraica, ma diventano fenomeni mondiali solo dopo il trionfale viaggio di Sigmund Freud in America. Il marxismo nasce nello stesso humus, poi si distanzia dall’esperienza sovietica, diventa “occidentale” attraverso la terapia-abisso della Scuola di Francoforte. Adorno, Marcuse, Horkheimer, Fromm e altri ne sterilizzano gli esiti collettivisti in economia e lo schierano sul versante della lotta all’autorità e alla tradizione. Contro il padre, la famiglia, contro Dio, la trasmissione dell’eredità culturale, in nome dell’“immaginazione” e del divieto di vietare.
I francofortesi, anch’essi di origine ebraica (tenace identità dell’erranza!), inizialmente sostenuti dall’Internazionale Comunista, emigrano negli Usa dopo l’avvento di Hitler. Sarà dalle cattedre delle università americane che diffonderanno il nuovo verbo, il logos negativo della teoria critica.
Da quei pulpiti scaturirà una lotta di classe non più centrata
sul proletariato – classe conservatrice che aspira a farsi borghese, secondo lo sprezzante
giudizio di Adorno –ma sulle cosiddette minoranze oppresse. Guerra di sessi, dunque, con
il femminismo della parità sconfitto dal radicalismo anti maschile; guerra di “generi”,
attraverso la rivoluzione sessuale e la lenta emersione della teoria gender; lotta etnica, per
smantellare, attraverso il senso di colpa (la coscienza infelice di Hegel) la civiltà europea in
quanto bianca, patriarcale e da ultimo “etero-patriarcale”, assumendo il patrocinio dei
movimenti omosessuali.
L’arte europea delle avanguardie della prima parte del secolo XX aveva già detronizzato
l’uomo. Gli Usa hanno definitivamente sdoganato ogni forma di astrattismo, inventato
l’industria culturale e imposto con la potenza delle loro aziende multinazionali, forme
musicali estranee alla tradizione europea, basata sull’armonia, la melodia e la bellezza. Da
mezzo secolo e più, dominano il ritmo, il baccano, imitazione della vita metropolitana e le
sonorità tipiche di culture estranee. Una guerra culturale a tutto ciò che sa di Europa;
americano è il pacifismo sorto negli atenei degli anni Sessanta, americana la cultura
alternativa della droga e dei paradisi artificiali. Anche la banalizzazione del divorzio e la
diffusione di pratiche come l’aborto (vero e proprio totem para religioso femminista) è di
ascendenza statunitense.
La vittoria più grande è aver convinto la gente, attraverso l’intronizzazione della scienza e
soprattutto della tecnologia, che il comportamento umano non è una miscela di natura e
cultura, ma un’imposizione dei gruppi dominanti. Di qui è nata la storiella
dell’orientamento sessuale opposto al sesso biologico-naturale, l’idea della maternità come
obbligo patriarcale e non come dato biologico ineludibile. Il resto lo ha fatto la società dei
consumi: nulla deve essere definitivo, tutto è revocabile, “liquido”, passeggero, soggetto
alle scelte del momento.
Poiché l’uguaglianza è un dogma indiscutibile, con l’eccezione individualista del portafogli,
non si può giudicare, valutare, preferire: sarebbe un’imposizione e un’offesa. Questo ha
condotto al vittimismo di massa, figlio del linguaggio della correttezza politica che
bandisce ogni distinzione e vieta il dibattito delle idee. La Verità è l’Uguaglianza più
l’Equivalenza, che, scambiata con l’esattezza scientifica, non si può discutere più di quanto
si possa negare il teorema di Pitagora o la sfericità dei pianeti. Tutto il contrario della
civiltà fatta di dialogo, ricerca, riflessione, confutazione. La vittima del canone inverso è
Socrate, fondatore dell’etica europea e del metodo del confronto.
Americana è la teoria dell’intersezionalità, ovvero la riconduzione a unità di tutti i nuovi
filoni ideologici. Intersezionalità è un termine introdotta dalla sociologa afroamericana
Kimberlé Crenshaw per descrivere la sovrapposizione delle diverse identità sociali e delle
varie forme di discriminazione, oppressione e dominazione. La teoria suggerisce che varie
categorie biologiche, sociali e culturali, il sesso/genere, la razza e l’etnia, la classe sociale, le
disabilità l’orientamento sessuale, la specie (!!!), interagiscano a molteplici livelli e vadano
quindi esaminati in una prospettiva che punti a comprendere e poi eliminare l’ingiustizia e
l’ineguaglianza.
L’intersezionalità diventa la giustificazione di quello che Capozzi definisce identitarismo
diversitario, ossia la rivendicazione ossessiva e rancorosa di un particolare aspetto della
propria essenza, personalità o condizione che si esige di tutelare davanti al resto della
società, ridotta a somma algebrica e provvisoria di minoranze disunite su tutto, tranne
nelle pretese. Il multiculturalismo diventa l’unica, fallimentare via d’uscita di una società
frammentata in un numero incalcolabile di segmenti, lapilli incandescenti eruttati a caso
dal cratere incandescente di un vulcano.
Tutto questo e il resto che verrà– l’officina lavora a ciclo continuo – non è Europa, ma
Occidente, concetto che si oppone all’Oriente, a differenza dell’Europa che fu portata a
integrare nella diversità, come la pax romana di aratro e di spada. L’Europa si salverà, o
potrà tentare di farlo, se si libererà della camicia di forza dell’Occidente, riacquistando la
sua specificità e sovranità culturale, condizione preliminare per il recupero
dell’indipendenza economica, politica e militare. I suoi popoli devono tagliare il nodo
gordiano che l’America ha stretto per assoggettarla; deve guarire dal torcicollo che le
impedisce di guardare nelle altre direzioni. Verso se stessa, innanzitutto, poiché i popoli
dell’Europa centrale e orientale non sono meno europei degli altri, verso la Russia dalla
quale il gigante d’oltre Atlantico ci vuole separare per ragioni che non sono le nostre e il
mondo mediterraneo con cui abbiamo condiviso millenni di vicende storiche.
Ci piace concludere con il risguardo di Autodistruzione dell’Occidente, in cui abbiamo
sostituito Occidente con Europa. “Il nuovo umanesimo invocato sempre più spesso da
molti esponenti delle élites politiche e culturali europee tradisce in realtà non la ripresa,
ma il rifiuto di quella concezione dell’uomo come animale razionale e libero che sta alla
base dei diritti individuali, del liberalismo, della democrazia, e che è stata costruita
nell’incontro tra cultura greca, romana, ebraica, celtico germanica, attraverso la
rivoluzione cristiana e la modernità. Il culto della potenza, lo scientismo e le ideologie
hanno corroso l’umanesimo europeo fino a dissolverlo in un relativismo radicale,
transumano e postumano. Un relativismo che lascia il mondo globalizzato privo di un
tessuto etico comune, e che può essere combattuto soltanto da una consapevole riconnessione della civiltà europea alla sue origini “. Appunto. Che ci azzecca l’Occidente?