ORGANICISMO ED ORDOLIBERALISMO
Una nota a margine di un intervento di Carlo Galli
di Luigi Copertino
Pur abitando a pochi chilometri da Montesilvano, lo scrivente, purtroppo, non ha auto notizia del convegno organizzato dall’associazione a/simmetrie di Alberto Bagnai durante il quale il pubblico presente ha potuto godere di un magistrale intervento di Carlo Galli, noto docente di filosofia politica. Per fortuna un amico ha girato il link del video postato su youtube consentendo la visualizzazione, in differita, dell’importante lezione (1) .
Carlo Galli è una grande intelligenza. Uno schmittiano di sinistra. Probabilmente il maggior conoscitore dell’opera di Carl Schmitt in Italia. L’intervento nel convegno di Montesilvano, di cui al link in nota, è davvero eccezionale – una vera e propria lectio magistralis – sicché si consiglia a tutti di visionarlo con attenzione, anche se dura più di un’ora. Perché in esso Carlo Galli, benché al di fuori di una sede accademica, ricostruisce, a beneficio dei più, sia sotto il profilo teoretico-filosofico, sia sotto il profilo storico, con ampi cenni di storia del pensiero economico, la questione oggi cruciale della “sovranità”. Alla quale ha anche di recente dedicato un libro.
Lo scrivente – va detto subito a scanso di equivoci – condivide quanto Carlo galli dice nel suo intervento, come del resto, e non da oggi, segue con partecipe apprezzamento la linea di pensiero macroeconomica di Alberto Bagnai. Dopo aver ascoltato la lezione di Galli è stato inevitabile riflettere sui suoi contenuti. Così si viene qui a proporre alcune considerazioni senza nessuna intenzione polemica, del resto improponibile dato il divario di caratura intellettuale tutto a favore del Galli. Si propongono queste osservazioni soltanto perché si tratta di materia trattata in un nostro libro su ordoliberalismo e sovranismo (2).
Iniziamo dall’attribuzione, asserita anche da Galli, dell’ordoliberalismo ad una originaria matrice cattolica. Una attribuzione rivendicata, sulla scorta di pensatori cattolici americani come Michael Novak, da think tank cattolico-liberali quale il Tocqueville-Acton di Milano coordinato da Flavio Felice, già allievo di Rocco Buttiglione. Carlo Galli richiama, in un passaggio del suo intervento, questa matrice cattolica dell’ordoliberalismo. Anzi dice molto di più perché sostiene che l’ordoliberalismo deriva dalla tradizione organicista, molto forte in Germania. Certamente Galli è ben consapevole che in questa riconduzione dell’ordoliberalismo ad una matrice tout court cattolica vi sono molte difficoltà e non a caso ha usato il plurale dicendo che esso è solo una delle possibili declinazioni della filosofia sociale organicista del Cattolicesimo, evidentemente ammettendone altre. Un grande corporativista cattolico come Amintore Fanfani o un cattolico keynesiano come Giorgio La Pira avrebbero molte cose da dire in merito alle diverse e possibili declinazioni dell’organicismo di tradizione cattolica. Infatti, di esso si danno declinazioni liberal-conservatrici ma anche declinazioni demo-sociali e perfino nazional-sociali.
L’ordoliberalismo – in sostanza un neoliberismo con “cornice statualista” – è in realtà soltanto una verniciatura organicista su un impianto concettuale radicalmente individualista e liberista. Esso costituisce una deviazione “debole” dall’organicismo “forte” al quale si richiama la filosofia sociale cattolica tradizionale. Ponendo lo Stato, inteso soltanto come una cornice istituzionale (quasi marxianamente una sorta di “sovrastruttura”), al servizio ed a garanzia del funzionamento del mercato, ovvero del meccanismo concorrenziale, l’ordoliberalismo dissolve o sminuisce la comunità e mantiene, come tutti i liberismi, la centralità dell’individuo, che è concetto del tutto diverso da quello più propriamente cattolico e organicista di persona. L’individuo, infatti, è una astrazione irrelata che vive di rapporti contrattualistici ed utilitaristici; la persona è, invece, soggetto che si definisce per la sua spiritualità in relazione con una pluralità di appartenenze comunitarie vitali. L’ordoliberalismo esalta l’individuo quale agente involontario del meccanismo concorrenziale della formazione dei prezzi, secondo l’impostazione “soggettivistica-idealistica” del marginalismo mengeriano, laddove, al contrario, in una più autentica prospettiva cattolica la persona, proprio perché vive, all’interno di un Kosmos, di relazioni organiche ossia spirituali e sociali, è richiamata costantemente alla cooperazione solidale, in una prospettiva appunto organicista.
Le istituzioni politiche, lo Stato, per gli “interventisti liberali”, come sono stati chiamati gli ordoliberali, hanno soltanto il compito di rimuovere gli ostacoli che possono frapporsi al “naturale” operare del laissez faire, in primis gli oligopoli. Gli ordoliberali riconoscono che gli oligopoli sono il risultato, esso sì inevitabile, del laissez faire, ovvero della concorrenza che darwinisticamente elimina i meno adatti per far sopravvivere solo i più dotati, però non chiedono l’intervento pubblico per consentire anche ai deboli di partecipare comunitariamente alla redistribuzione della ricchezza ma solo per consentire ad essi, a coloro che il laissez faire senza regole condannerebbe alla sconfitta, di concorrere alla pari con i forti in una prospettiva che, in quanto individualista e concorrenziale, è intrinsecamente anti-organicista. L’ordoliberalismo non è dunque un parto della filosofia organicista quanto piuttosto un suo aborto.
Carlo Galli è uno schmittiano di sinistra. Per questo egli guarda al conflitto come all’essenza stessa del Politico. La distinzione tra l’“amico” ed il “nemico”, che per Carl Schmitt è il fondamento della vita associata, della polis, può infatti tradursi o leggersi anche come conflitto sociale, lotta di classe. Galli, nella sua magistrale lezione, rivendica il ruolo fondamentale svolto dallo Stato sociale nell’organizzare una decente convivenza democratica senza utopisticamente negare il conflitto. Tuttavia ha dimenticato di sottolineare che lo Stato sociale storicamente ha mosso i suoi primi passi, nel XIX secolo, all’interno di culture religiose e conservatrici, sulla base della critica all’individualismo rivoluzionario che la destra antiliberale ottocentesca ha consegnato alla riflessione filosofico-politica, proprio per mediare ed organizzare, ovvero canalizzare, il conflitto sociale. Altrimenti lo Stato nazionale, che dello Stato sociale è la premessa storica, sarebbe saltato per aria.
La tradizione organicista – sia quella “laica” (mazziniana, proudhoniana, hegeliana, gentiliana, sindacalista rivoluzionaria) sia quella cattolica (intransigentismo, interclassismo corporativista, comunitarismo popolare, democrazia sociale organica, cogestione solidaristica) – ha sempre guardato allo Stato come alla Comunità Politica che annovera in sé, senza fagocitarli, i corpi intermedi onde organizzarli mediandone la conflittualità in vista di un superiore bene comune, che nonostante il conflitto di per sé realtà innegabile, resta il vero ed ineludibile fondamento dell’Unità Politica, senza del quale la stessa non potrebbe neanche sussistere. Ecco perché l’organicismo non nega affatto il conflitto, se non in certe sue versioni “romantiche” come quella di Adam Heinrich Müller (non a caso stigmatizzato da Carl Schmitt). Il conflitto, di cui la concorrenza economica è espressione, in una prospettiva teologica altro non è che l’esito del “peccato originale”, le cui conseguenze sono ineliminabili, fintantoché dura la storia, ma non per questo non circoscrivibili, non controllabili, non contenibili. Giuseppe Bottai – esponente di un regime che ha tentato un controverso esperimento politico e sociale “organicista”, il quale, nonostante resti storicamente importante per certe sue realizzazioni, fu troppo condizionato dalle resistenze di destra – come ministro delle corporazioni non nascose, in un famoso convegno in quel di Ferrara nel 1932, che la lotta di classe continuava ad esistere anche all’interno di un ordinamento corporativo e che per convincersene sarebbe bastato recarsi presso il suo ministero (3).
L’organicismo, piuttosto che negare romanticamente la realtà ineluttabile del conflitto ossia della debolezza e fragilità ontologica dell’uomo, semplicemente si pone il problema di come, appunto, organizzarlo onde evitarne i rovinosi esiti nichilistici ed in ultimo anti-sociali che danneggiano in primo luogo le parti più deboli della Comunità politica. Nessun indulgere, dunque, in generici armonismi ma continua ricerca di una mediazione con basi di equità etica e sociale. E’ falso quindi qualsiasi presunto organicismo, come appunto l’ordoliberalismo, che auspica politiche economiche dal solo lato dell’offerta, ovvero favorevoli al solo capitale. Un organicismo degno di tal nome riconosce il primato della domanda, ovvero del lavoro, senza, tuttavia, dimenticare del tutto l’offerta. Basta leggere la “Quadragesimo Anno” di Pio XI, per convincersene. L o scrivente ne ha dato dimostrazione in un suo recente contributo al quale si rimanda (4).
Passiamo ora ad un’altra osservazione. Storicamente è stato lo Stato – Carl Schmitt lo considera il “primo agente della secolarizzazione” – a creare il mercato moderno distruggendo il comunitarismo, appunto organicista, medioevale. Senza l’azione accentratrice e meccanicista dello Stato moderno, che ha distrutto i “variopinti vincoli corporativi” (per dirla con il Marx de “Il Manifesto”) e l’economia solidale di sussistenza pre-moderna incentivando la diffusione dello “spirito del capitalismo” ossia dell’individualismo, non sarebbe mai nato il mercato nel senso liberale come oggi lo conosciamo. La sovranità dello Stato compare sulla scena storica come istanza imperativa di emancipazione dall’Ordine Metafisico sul quale poggiavano le società tradizionali con i loro vincolismi comunitari di vario tipo. Lo Stato nazionale sovrano nasce nella forma delle monarchie assolute “superiorem non recognoscentes”, dove il “superiorem” erano le due Autorità universali della Chiesa e del Sacro Romano Impero. Allo Stato nazionale – il moderno concetto politico di “sovranità” è coevo alla sua comparsa storica – ha corrisposto il mercato nazionale interno quale tabula rasa del precedente particolarismo territoriale e corporativo. Oggi la globalizzazione sta distruggendo anche lo Stato nazionale, diventato a sua volta un fastidioso corpo intermedio, ed ha quindi trasformato il mercato da interno in globale. Ma – ecco la questione cruciale! – questa trasformazione si sta inverando senza che questo processo sia opera di una qualche nuova forma del Politico, come a suo tempo fu lo Stato rispetto alle Auctoritates medioevali a base sacrale. La globalizzazione è opera delle stesse forze di mercato, in particolare di quelle finanziarie, ormai incontrollabili e scatenate. Questo perché, come spiegava Carl Schmitt in una sua opera giovanile ma di fondamentale importanza, pubblicata in Italia con una introduzione proprio di Carlo Galli, l’economia e la tecnica non hanno alcuna capacità di “forma politica”, nessuna capacità di generare forme di vita politicamente associata (5).
Infatti se si guardano le cose dal punto di vista della tripartizione tradizionale, il Politico – lo Stato è la forma moderna del Politico – che pretende di emanciparsi dal Sacro non riesce poi a resistere all’erosione da parte della terza funzione, ovvero da parte dell’economia che diventa gradualmente prevalente. Ad analoga conclusione, del resto, conduce, sebbene da altro punto di vista, anche la lezione di Carl Schmitt a proposito della processione storica degli “ambiti centrali” – il “teologico”, il “giuridico”, il “morale”, l’“economico” – ossia delle dimensioni epocali di mediazione, o tentata mediazione, del conflitto (6). Alla fine del processo storico di secolarizzazione, il Politico, nonostante ogni artificiale teologia civile (quella del Leviatano) elaborata a scopo surrogatorio del Sacro, cede all’economico proprio perché quel processo è stato da esso, dal Politico nella sua forma statuale, avviato nel momento nel quale ha trionfalmente proclamato la propria emancipazione da ogni altra dimensione a sé superiore.
Il processo di secolarizzazione, infatti, ha preso le mosse a partire dal XVI secolo per opera dello Stato nazionale quale forma moderna del Politico. Giunti, dopo sei secoli, all’esito finale di tale processo, ci accorgiamo che, nella svolta epocale verso il postmoderno, nessuna altra forma politica sta effettivamente imponendosi sulla scena storica in quanto il Politico stesso è del tutto consumato, avendo esaurito ogni capacità, pur artificiale e meccanica, di organizzazione della convivenza sociale. Assistiamo, così, al trionfo dell’individualismo, del nichilismo allo stato puro, che ha assunto il volto del Mercato Globale, nuovo Leviatano, certo!, ma impolitico per via della sua pretesa di eliminazione del conflitto senza alcuna mediazione politica. Che poi questa pretesa sia una illusione e che in realtà il conflitto non solo persiste ma ora, non trovando più mediazione alcuna, esplode in tutta la sua distruttiva potenza è un altro discorso che ci porterebbe lontano e che non possiamo qui approfondire più di tanto. Basti, quindi, in proposito, solo questo accenno.
Lo Stato sovrano moderno, in una prospettiva di teologia cristiana della storia, ha costituito il passaggio obbligato per la transizione da un Universalismo, quello romano-cristiano medioevale, ad un altro universalismo, spurio, quello della globalizzazione. Il primo Universalismo era fondato sulla prima funzione della tripartizione tradizionale, il Sacro, il secondo universalismo è fondato sulla terza funzione, la tecnica e l’economia. La seconda funzione, il Politico, emancipandosi dalla prima, dopo aver evocato, per dirla con Ernst Jünger, le potenze elementali, non è stato, ad un certo punto del suo percorso storico, più in grado di controllarle. Lo Stato, quale forma politica moderna, ha avuto la funzione di chiudere la Via che conduce verso l’Alto per essere, poi, dopo che ha adempiuto a questo ruolo, fessurato verso il basso per l’irrompere delle forze ctonie e telluriche – luciferine, in termini cristiani – della übris faustiana, della volontà di potenza auto-deificatoria. Lo Stato, “apprendista stregone”, è stato superato, e quindi accantonato, dalle stesse forze che esso ha evocato sulla scena storica.
Carlo Galli, nel suo intervento al convegno di Montesilvano, ha parlato della persistenza di svariate sovranità politiche statuali (Usa, Cina, Brasile, etc.) nell’attuale quadro globale. Secondo il noto studioso questa persistenza dimostra l’ineluttabilità del Politico anche nello scenario globale attuale. In realtà allo scrivente sembra piuttosto che queste persistenti sovranità, interne alla globalizzazione, siano “trapassate” e controllate dal potere apolide, transnazionale, della finanza mondiale. Come aveva già ben compreso un altro grande filosofo, spagnolo, della politica ovvero Álvaro d’Ors quando ha delineato il volto del “potere sinarchico” (7). Il fatto che Galli non sia giunto, nell’intervento del convegno di Montesilvano, alle definitive conclusioni cui il suo discorso dovrebbe comunque portare trova spiegazione, per lo scrivente, nel sostanziale decisionismo politico a fondamento contrattualista cui egli, come studioso, sulla scorta di Carl Schmitt e di Thomas Hobbes, aderisce. Il Leviatano nasce sulla base del contrattualismo ossia dell’individualismo atomista ed anti-organicista ed è per questo che poi esso muore annegando nella baumaniana “società liquida” ossia la popperiana “società aperta”. Hobbes, Locke e Rousseau sono i tre campioni del contrattualismo-individualismo. Hobbes è il padre della sua versione autoritaria (il Sovrano assoluto contrattualmente delegato di tutto il potere, originariamente proprio degli individui, con l’obbligo di proteggere la società); Locke della sua versione liberale (la Costituzione, ossia il contratto sociale, garante della limitazione del potere sovrano al fine di assicurare la libertà più vasta possibile degli individui); Rousseau della sua versione democratico-totalitaria (la “volontà generale” del popolo come somma sinallagmatica della totalità delle volontà individuali). Ma proprio questa radice contrattualista delle forme politiche moderne è alla base dell’anti-organicismo, o se si vuole dell’organicismo artificiale, dello Stato moderno, sia nella sua modalità autoritaria, sia nella sua modalità totalitaria, sia nella sua modalità liberale. Compresa, pertanto, quella ordoliberale. Lo Stato organico, cui si richiama la filosofia sociale cattolica, ha ben altri fondamenti (8).
Luigi Copertino
NOTE
- Il video della lezione del prof. Carlo Galli è visionabile al seguente link https://m.youtube.com/watch?v=F9qrP8KFfQ0 . Si consiglia vivamente la visione del video, anche per meglio comprendere il senso della presente nota di commento.
- L. Copertino “Tra ordoliberalismo e sovranismo – 2019: Europa al bivio”, Il Cerchio, Rimini, 2019.
- Giuseppe Bottai era un esponente, di derivazione mazziniano-socialista, poi convertitosi al Cattolicesimo proprio per via “corporativa”, della cosiddetta “sinistra fascista” che tentò la trasformazione del regime in una democrazia sociale, fortemente avanzata, nell’intento di tornare in tal modo alle origini di sinistra del fascismo-movimento (secondo le categorie storiche introdotte da Renzo De Felice). Non vi riuscì ma è innegabile che le fondamenta dello Stato sociale poi ulteriormente sviluppatosi nel dopoguerra – legge bancaria del 1936, istituzione dell’IRI, presenza keynesiana dello Stato in economia, previdenza sociale – furono poste dal regime fascista. Nella Costituzione “antifascista” si ritrovano evidenti segni di questa, inconfessata, eredità negli articoli, non a caso proprio quelli che mai hanno trovato leggi di attuazione, nei quali è chiaramente delineata l’essenza sociale, comunitaria ed organicista della democrazia repubblicana, ossia l’articolo 36 primo comma, l’articolo 39, l’articolo 46. Una eredità inconfessata al popolo “partigiano” ma della quale erano ben consapevoli sia i capi comunisti, come Palmiro Togliatti che nel 1936 sulla rivista parigina “Lo Stato operaio” aveva lanciato un appello ai fascisti di sinistra invocandoli quali “fratelli in camicia nera”, sia i capi cattolici, come Amintore Fanfani storico dell’economia di ascendenza toniolane nonché elaboratore dell’articolo 1 della Costituzione e, negli anni ’30, elogiatore del corporativismo fascista o come lo stesso Alcide De Gasperi che, dal suo rifugio in Vaticano, nell’anteguerra, scrivendo sotto pseudonimo, riconosceva i meriti della politica sociale del fascismo e tuttavia cercava di distinguervi, sulla scorta dell’insegnamento del Pio XI della “Quadragesimo Anno”, gli elementi di continuità con il cattolicesimo sociale dalle componenti hegeliane e statolatriche insite nell’esperimento fascista. Sul cosiddetto fascismo di sinistra si veda l’ottimo libro di Giuseppe Parlato “La sinistra fascista – storia di un progetto mancato”, Il Mulino, Bologna, 2008.
- L. Copertino “Corporativismo e keynesismo: priorità della domanda e partecipazione agli utili” in http://theglobal.review/it/libri-e-quaderni-di-ricerca/corporativismo-e-keynesismo-priorità-della-domanda-e-partecipazione-aagli-utili/ .
- C. Schmitt “Cattolicesimo romano e forma politica – La visibilità della Chiesa. Una riflessione scolastica” a cura di Carlo Galli, Giuffré, Milano, 1986.
- C. Schmitt “Le categorie del Politico”, Il Mulino, Bologna, 2014.
- Á. D’Ors “La violenza e l’ordine”, Marco, Lungro (Cosenza), 2003.
- Per un approfondimento della concezione cattolica dello Stato si veda il fondamentale testo di Heinrich Rommen “Lo Stato nel pensiero cattolico”, Milano, Giuffré, 1964, di prossima ed imminente riedizione per i tipi della casa editrice Il Cerchio di Rimini.