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Economia /
Federico Giuliani
16 dicembre 2019
La riforma del Mes ha avuto lo strano effetto di riunire in una battaglia comune europeisti convinti ed euroscettici. Entrambi, seppur per motivi diversi, sono convinti che la revisione del trattato riguardante il Meccanismo europeo di stabilità rappresenti una disgrazia sia per l’Europa che la maggior parte degli Stati membri. Il punto in comune ai due schieramenti è che la revisione del Fondo salva-Stati non risolverà in alcun modo i problemi esistenti, anzi: contribuirà a peggiorarli. E questo vale a maggior ragione per l’Italia, aggravata da un debito pubblico elevato e particolarmente esposta agli umori dei mercati.
L’Italia nel mirino
Una delle minacce più grandi insite nel Mes è la ristrutturazione del debito pubblico che lo stesso meccanismo potrà imporre a quei governi in difficoltà economica che dovessero rivolgersi a Bruxelles per chiedere un aiuto finanziario. Certo, non essendoci alcun automatismo, rivolgersi al Fondo salva-Stati non comporterà l’automatica ristrutturazione del debito da parte del richiedente. Eppure, come sottolineano esperti ed analisti, la riforma della quale tanto si è tanto parlato nelle settimane scorse renderà lo spauracchio della ristrutturazione non più una circostanza eccezionale ma un evento più probabile. La conferma arriva anche da Sergio Cesaratto, professore di economia politica dell’Università di Siena (nonché uno dei 32 docenti universitari firmatari dell’appello anti Mes) intervistato dal quotidiano La Verità: “In una situazione grave, una richiesta di ristrutturazione verrebbe avanzata, e probabilmente imposta dallo stesso Mes (anche se l’ ultima parola è alla Commissione). La probabilità di questo evento aumenta, e non è un buon segnale”.
Investitori e mercato
Un altro effetto nefasto della riforma del Mes è quello di cambiare le prospettive degli investitori. Dal momento che il Fondo salva-Stati suddividerà gli Stati in Paesi di serie A e di serie B in base alle condizioni di salute dei rispettivi sistemi economici, è evidente che gli stessi investitori chiederanno rendimenti molto elevati per i titoli degli appartenenti alla seconda categoria. Il motivo è
semplice: nel caso in cui dovesse avvicinarsi una crisi, e sapendo che il nuovo Mes faciliterà la ristrutturazione del debito pubblico di quei governi con i conti più “traballanti”, gli investitori vogliono evitare di rimetterci. E l’unico modo, per loro, è chiedere rendimenti altissimi sui titoli di Stato. Un’altra logica insita nel Mes, tra l’altro, sembrerebbe essere quella di costringere l’Italia a mettere in pratica politiche restrittive: le stesse che il nostro Paese non può più permettersi. Certo, poi si potrebbe aprire una parentesi a livello generale per riflettere sul funzionamento dell’Unione Europea.
In sottofondo, da Maastricht in poi, c’è una complessità che rende pressoché impossibile capire le varie misure, anche per gli stessi addetti ai lavori. Di fronte a un problema di sistema, Bruxelles non si ingegna per semplificarlo: fa l’esatto contrario introducendo “toppe” che aggiungono confusione alla confusione.
Paesi di serie A e serie B
Tornando all’Italia, appare altresì assurdo che un Paese dell’Eurozona debba accettare di pagare una somma colossale (125,40 miliardi di euro, 14,33 dei quali già versati) per alimentare una sorta di cassa comune alla quale non potrà mai attingere. Prima abbiamo parlato di Paesi di serie A e di serie B. Roma fa parte della seconda categoria, e a causa del suo debito pubblico elevatissimo, anche se volesse, non avrebbe alcuna possibilità di aggrapparsi a questo salvagente. Il Mes offre infatti due procedure per ottenere il prestito: una linea di credito per chi ha un rapporto debito/Pil sotto il 60% e una per coloro i quali sfondano il tetto del 60%. Non potendo rispettare i parametri stabiliti, l’Italia dovrebbe utilizzare la seconda strada, a meno di non dare una bella sforbiciata al suo rapporto. In entrambi i casi, per il nostro Paese finirebbe “a lacrime e sangue”.