Perche sui barconi non arrivano “questi”?

“Caro Blondet, la foto che allego è di guerriglieri del Sud Sudan nella prima guerra di indipendenza. Individui in zona di guerra e di carestia hanno questo aspetto. Delle foto scattate questa è l’unica rimasta non cancellata dalle muffe tropicali.

I guerriglieri mi avevano pregato di non pubblicarle per non fare vedere agli Arabi del Nord Sudan in che condizioni fossero. Infatti, ho fatto vedere solo foto di guerriglieri piuttosto in carne, almeno all’epoca degli scatti.

Mangiavamo al giorno una ciotola di manioca, o di durra, provenienti dall’Uganda, condita con una sugo di arachidi al peperoncino rosso. Mai insalata e verdura e carne. I pochi appezzamenti coltivati venivano individuali dai soldati del Nord e bruciati dagli elicotteri sovietici col napalm.

Io integravo la mia alimentazione con un po’ di latte in polvere e con ottima carne in scatola della Nuova Zelanda, (che ricordavo come la stessa che ci davano i Polacchi dopo il passaggio del fronte nelle Marche), che spartivo con i due ufficiali del mio gruppo.

 

Oggi, osservo che i fuggitivi dalle guerre e dalla carestie (quali guerre e quali carestie? non ce lo dicono) sono in carne, come lo sono i bambini che salviamo.

Pure al mio amico Tullio Moneta, alto ufficiale del 5 Commando anglosassone in Congo contro i Simba, e successivamente nell’intelligence sudafricana e occidentale anticomunista, operante per cinquanta anni in tutto il territorio africano, nei Balcani, in Medio Oriente, Afghanistan, eccetera, l’aspetto dei clandestini appare piuttosto sospetto.

Sono troppo in carne. Per cui pensa, come lo penso io, che gatta ci cova. Forse molti di questi Africani già stavano il Libia all’epoca di Gheddafi.

Altri ci arrivano oggi, sapendo per passaparola che in Italia si è accolti bene e si mangia a sbafo. Li stiamo ingannando. Da giovane sentivo la parola d’ordine “l’Africa agli africani”, e “ora dateci con una mano ciò che ci avete rubato con l’altra”. Hanno avuto indipendenza e aiuti. Purtroppo la democrazia non si esporta e la formazione di una classe dirigente non la si inventa a tavolino.

Lo sapeva bene John Garang, che non ho conosciuto, ma Tullio Moneta sì, che avrebbe voluto un Sud Sudan confederato con il Nord, in quanto il Sud non era pronto ad avere una benché minima forma di amministrazione. Perciò è stato fatto fuori con un attentato all’elicottero che lo riportava nel Sud dall’Uganda. Abbiamo creato miti come Mandela, astutissimo nell’abbandonare il potere per non fare la fine di un Nyerere o, peggio, di un Mugabe, per diventare così padre della patria. Ma, delle carneficine di immigrati dello Zimbabwe da parte dei neri sudafricani non si parla. Delle ricchezze accumulate da Zuma e dai nipoti di Mandela e da un altro milione di neri sudafricani, mentre tutti gli altri neri sono nell’indigenza, non si parla.

Abbiamo sbagliato a dare l’indipendenza a quelle popolazioni tribali senza prima pensare a formare una classe politica e amministrativa.

Me ne accorsi in Congo, all’epoca della ribellione Simba: avevamo dato l’indipendenza a povera gente incapace di gestirsi oltre la visione tribale. Quindi, pronta a cadere in mano ad astuti opportunisti, ladri e sanguinari.

Lo stesso sta avvenendo nel Sud Sudan indipendente: la fazione Dinka contro la fazione Nuer, per prendere i potere e i proventi del petrolio. I miei amici Ferdinando Goi, Joseph Oduho, padre Saturnino Lohure, e il carissimo capitano Manasse Atot, che mi salvò la vita portandomi a spalla per chilometri, sono morti invano… E, ciò che è peggio, noi Occidentali siamo incapaci di rimanere un faro verso cui indirizzare le popolazioni del pianeta bisognose di aiuto.

Esiste qualcuno che riesce a spiegare cosa nasconde effettivamente questo esodo africano e musulmano verso l’Italia?

La gente comune sta mordendo il freno e non vorrei che il branco scaricasse la rabbia su immigrati, mentre la responsabilità è di questa politica inetta e sottomessa.

Cordialmente, Giorgio Rapanelli.

 

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Sono piuttosto in carne

 

 

 

Adesso, caro Maurizio, siamo nel bel mezzo di una guerra sotterranea, non dichiarata, ma esistente. Leggo sul Foglio di Ferrata una articolo in apertura di Giulio Meotti dal titolo “Sei contro le nozze arcobaleno? Rischi il posto e l’obbrobrio morale.

Arriva la dittatura  morbida  della gay colture”.

Siamo all’inizio di una Grande Persecuzione. A cosa serve la proposta di legge Scalfarotto? A tapparci la bocca.

Io sono alla base della gente e ascolto ogni giorno la disperazione della gente, che non ci capisce più nulla. Ma, lei, che è in ambienti di cerniera, può aiutare a trovare una strada, a svelare qualcosa di nascosto?

 

Caro Maurizio, ho l’impressione che stiamo sulla piana di Armagedon. Ciò che avveniva in Alto, adesso si è sposato in Basso. Non siamo più alla Rivoluzione Protestante, né al Nazismo. Siamo a qualcosa di troppo esteso. Toccherà a noi bere l’amaro calice che ci siamo preparati. Va bene, siamo in ballo e balliamo.

Sa quale è lo stato d’animo che porta quella povera gente sui barconi, rischiando la vita? E’ il fatalismo. Rischiano; sanno di rischiare; forse per volere di Dio ce la faranno. E’ ciò che si prova stando in Africa. In Congo stavo per essere fucilato, insieme a due missionari e ad un belga ferito, e non provavo nulla. E’ come se non riguardasse te. Ne parlavo con Tullio Moneta proprio stasera. Mi diceva che quando arrivavano ad ondate i Simba e li abbattevano a venti metri da loro, egli e i suoi soldati non pensavano a ieri e al domani, ma all’attimo fuggente. Se era destino che un colpo di kalashnikov li colpisse, voleva dire che così doveva andare. Lo stesso avviene per quelli dei barconi. Ma io mi getterei in mare per salvarli, perché forse affogare insieme potrebbe rappresentare per entrambi la salvezza.

 

Chi mi ha scritto questa lettera è Giorgio Rapanelli, classe 1937. Uno che è stato iscritto al PCI, che ha passato decenni in Africa prima come documentarista, e poi  – visti gli orrori, il caos e le violenze seguiti alla de-colonizzazione – come combattente. In Congo, negli anni 1964-66,  ha visto la rivolta d ei “Simba” (leoni in swaili), giovanissimi guerriglieri fanatizzati dai loro stregoni, che li convincevano di essere invulnerabili alle pallottole che si abbandonavano ad ad inenarrabili orrori, eccidi, stupri ed atti di cannibalismo. Il Tullio Moneta di cui parla, è stato un comandante del 5 Commando, un corpo di contractors – militari veri – inquadrati nella Armée Nationale Congolaise, che debellò l’orrore dei Simba. Moneta,  nativo di Fiume, passaporto sudafricano, oggi ha 78 anni.

Rapanelli ha sostenuto attivamente la causa dei sudanesi del Sud massacrati dal governo di Khartoum fino a diventare il rappresentante in Italia dell’Azania Liberation Front; nel 1970, è stato con i combattenti del Southern Sudan Liberation Front (guerriglieri anya-nya) del colonnello Joseph Lagu.

Sono nomi, eventi e tragedie che ai giovani non diranno nulla, e che si stingono nella memoria anche degli anziani come me; eventi che restano marchiati a fuoco nella memoria dei bianchi che “ci sono stati”,  con le armi in mano, mossi – molto più di quanto si voglia far credere – da uno strano miscuglio di avventura ed idealismo,  di mal d’Africa e di  volontà di  fare qualcosa, di arginare l’orrore  demoniaco degli inenarrabili tribalismi, crudeltà senza nome, carestie e morti che l’abbandono dell’Africa da parte dell’uomo bianco aveva prodotto.  Quel miscuglio  è stato ben reso nel film “I Quattro dell’Oca Selvaggia”, con Richard Burton, ispirato proprio alle imprese del 5 Commando.

“Mi son reso subito conto”, rievoca Rapanelli, “che concedere l’indipendenza alle popolazioni africane, impreparate a gestire il potere in forme democratiche occidentali, è stato un crimine”.

E’ dunque uno che conosce l’Africa da dentro, Rapanelli. Uno che vi è affondato dentro per anni, e non   l’ha vista da un hotel Hilton. Io sono affondato molto   meno in quell’orribile buco nero.   Non ho molti ricordi. Una intervista sul fiume Giuba al “generale” Aidid   che parlava di politica internazionale in politichese italiano, e tutt’attorno bambini prossimi alla morte per denutrizione, vecchi  sccheletrici  dai piedi piagati perché avevano fatto decine di chilometri per la razione   di pappa dell’Onu, e il corpo di una nonnetta tutta ossa, che i cani avevano già cominciato a rosicchiare. Un campo profughi di angolani nello Zambia ridotto alla fame per quella che il funzionario delle Nazioni Unite chiamò “the donor’s fatigue”, dopo tanti anni i “donatori” occidentali si stancano di dare, e le razioni in questi campi profughi si riducono a nulla – alla fame. Ricordo le bambine cacciate dalla famiglia perché avevano “fatto il malocchio” allo zio infettandolo di AIDS (lo zio le aveva violentate), e raccolte da suore francesi che le salvavano dalla fame – nessuno nutriva delle “streghe”. Ricordo la popolazione di Luanda abitare su montagne, vere e proprie montagne di spazzatura marcita e incancrenita, stratificata nei decenni – e Luanda  era famosa nelle statistiche per essere la città più cara del mondo, dove la vita era più costosa, perché le major petrolifere erano tutte lì coi loro bianchi in bungalows e compound, a fare la bella vita.

In questi ricordi c’è un denominatore comune, per cui mi associo alla domanda di Giorgio, il vero esperto:

Perché gli africani che arrivano sui barconi sono così in carne?

Migrants from sub-Saharan Africa rest inside a detention center in the Libyan capital Tripoli on June 4, 2015. Authorities, acting on a tip off, stormed a hideout where more than 500 illegal migrants, mostly men from African, were waiting for people smugglers to take them to boats to Europe, migration officials in Tripoli said. AFP PHOTO / MAHMUD TURKIA

 

Perché non sono come i guerriglieri che Giorgio ha ritratto nel 1970 ad Adodi, Sud Sudan?

Sud Sudan 1970 villaggio di Adodi, guerriglieri.

 

Ci dicono che fuggono da guerre e carestie: quali guerre? Quali carestie?

 

Guardate la foto scattata da Giorgio ai guerriglieri del Sud Sudan.  Quelli sono gli africani che ho visto nel buco nero. Gente che mangia una volta al giorno una ciotola di qualche   polenta innominabile condita con peperoncino, che non vede mai verdura, mai carne. Dico mai.  Sono africani del tipo che, nemmeno con la colletta tra i familiari della famiglia più allargata, sono in grado di raccogliere i 3 o 4 mila dollari per pagarsi il passaggio lungo il Sahara su autocarri, né tantomeno gli scafisti in Libia.

Come mezzo di trasporto hanno solo le  loro gambe; e come vedete, sono così filiformi che non li portano tanto lontano.

Questo è l’africano che ha bisogno di aiuto. L’africano che appena scoppia qualche guerra civile, o qualunque altro scontro tribale,   subito si vede ridotta la ciotola  dell’unico pasto  quotidiano,   già insufficente, della metà; che non ha una gallina ovaiola, che non ha altro che salsa di arachidi col peperoncino per condire la polenta di kassava, di valore nutritivo zero..questo è l’Africa, questo è il buco nero.

Non questi giovanotti con lo smartphone, non queste   belle mammine in carne con bambini pasciuti. Perché ci dicono che sono “siriani”   quando sono eritrei, e ancor più spesso africani equatoriali, gabonesi, ivoriani? Il presidente d ella Costa d’Avorio, si chiama Ouattara, in 4 anni di potere ha ammassato 27 miliardi di dollari.. il Buco Nero  è anche questo ed evidentemente non è cambiato. D’accordo, ma se ne occupino i francesi; è amico di Sarkozy.

Per questo odio e mi rivolta lo stomaco la “cultura dell’accoglienza”, il pietismo bavoso   sugli “Immigrati” che rischiano la morte sui barconi e vanno curati, vestiti, alimentati, forniti di scheda SIM perché possano telefonare a casa…perché non è solo falso, ma malvagio. Quelli che “accogliamo” non sono i poveri; sono gli intraprendenti,  e persino – sulla misura africana – ricchi. In questa nostra “carità”, non comprendiamo mai quegli africani con le gambe filiformi, che non hanno smartphone né tremila dollari, anzi nemmeno mezzo – che dico – nemmeno dieci centesimi per comprarsi un uovo. E che hanno veramente bisogno, loro, che basterebbe solo mezzo euro per migliorare la loro  razione.  A casa loro.

Li ho visti e lo so. Odio la nostra pelosa  e viscida  “carità” mediatica, clericale, sinistrista.