PERCHE’ VIVO IN ESTONIA

di Milena Spigaglia

Quando, in un mio precedente intervento, ho accennato ad alcune delle caratteristiche dello stato estone che trovo invidiabili, sono stata sommersa di commenti critici.  Alcuni erano prevalentemente dettati   dalla frustrazione, altri invece erano argomentati alla luce di atteggiamenti che, si potrà non sospettare, condivido io stessa: un irrinunciabile grado di patriottismo, ad esempio, o la circospezione, per dirla eufemisticamente, con cui è opportuno guardare alla cutting edge technology – lo so, suona bizzarro se detto da chi si è rifugiata in uno dei più celebrati IT hub globali  qual è questo paese.

Quello che desidero chiarire, però, è che io non rimango in Estonia solo per la digitalizzazione del suo e-state, da cui traggo – e come me moltissimi altri residenti e cittadini – un grande beneficio. Io in Estonia rimango per gli estoni.

Sono arrivata a Tallinn senza sapere bene cosa aspettarmi. Nella mia mente, le guerre di Livonia e la Curlandia di distratta memoria scivolavano senza soluzione di continuità nell’era sovietica, ed il vero comune denominatore del Paese che mi avrebbe ospitato era uno soltanto: il freddo.

Per sentito dire, attribuivo agli estoni un carattere musone e una lingua impossibile. Il resto, essendo atterrata per la prima volta all’aeroporto Lennart Meri con in tasca la chiave di un appartamento che avevo visto soltanto in foto, era tutto da scoprire.

Un ex presidente della Repubblica estone, per descrivere il loro carattere, racconta una storiella: “Un estone si imbatte in un elefante. Cosa pensa quando lo vede? Si chiede cosa l’elefante pensi di lui”. Agli estoni piace essere tra i migliori della classe, e ci mettono un sacco di impegno. Nel 2017 l’Estonia ha inaugurato il suo primo semestre di presidenza del Consiglio europeo, succedendo a Malta. La circostanza in verità avrebbe dovuto coincidere con le celebrazioni per il centenario dell’indipendenza del 2018, ma il ritiro del Regno Unito a seguito della Brexit ha chiamato in causa l’Estonia con sei mesi di anticipo. La nazione è piccola ma troppo orgogliosa per farsi cogliere impreparata: il turno di presidenza è stato un successo in termini di relazioni diplomatiche e di risparmi sul budget. Ancora ricordo Merkel e Macron ascoltare la lezione digitale su sedie di legno pieghevoli.

Stenbock, sede del governo

Oggi posso dire che in Estonia non è la grandezza a contare, ma la profondità. Tutto raccoglie in sé un’intensità che bisogna imparare a scrutare, come si fa qui nelle serate di novembre, quando ancora non c’è la neve che riflette il suo candore e ogni cosa, per le strade, è avvolta nel buio appena illuminato dalle candele accese dentro i locali profumati di cannella.

Gli estoni mi commuovono, non ho ancora capito bene perché. Forse è la loro tenacia. O la loro passione per la musica: qui ciascuno canta o suona uno strumento, e i festival musicali si susseguono senza sosta, dai caffè nei sottoscala ai palchi blasonati – cantano soprattutto l’amore per la propria terra. O ancora, la paziente maestria con cui lavorano il legno di ginepro e modellano la ceramica nelle botteghe della Città Vecchia.

Di certo mi piace che non fingano di esserti amici, e non sono sleali. Non perdono tempo in cerimonie, non amano troppo i fronzoli neanche nelle occasioni ufficiali. Lo scorso maggio, al seggio per le elezioni europee, mi hanno messo in mano un cartoncino ritagliato senza alcun contrassegno su cui scrivere la mia preferenza, che doveva corrispondere ad un semplice numero. Nessun simbolo, nessuna scritta, nessun colore. A disposizione una penna normale e una cabina aperta, con un banchetto che da le spalle alla stanza. Si vota nei centri commerciali, nelle scuole (dove le lezioni proseguono normalmente) per oltre una settimana, così che tutti abbiano il tempo di votare, elettronicamente o su carta.

Generalmente gli estoni si assumono le loro responsabilità. Non ne fanno una questione personale, ma un contributo all’efficienza complessiva del sistema. Lo scorso anno Martin Kaevats, sorta di consigliere digitale nazionale, rispondeva così al giornalista del New Yorker: “Acquistare fiducia richiede un sacco di tempo… Occorre una strategia politica. Bisogna che non manchi mai: intendo una visione condivisa a lungo termine, non la politica dei politici… Nella realtà odierna, tutto diventerà noto a tutti ad un certo punto. Allora hai bisogno di essere costantemente chi sei veramente”.

Mi par di capire che facciano un ragionamento opposto a quello degli scettici critici della loro digitalizzazione: secondo gli estoni è l’efficienza a generare fiducia, non viceversa – perché che succede se la fiducia, quella diciamo “sulla parola”, tarda a manifestarsi?

Adoro che ci sia un’altalena in ogni giardino, e che non debba essere un giorno speciale per comprare un mazzo di fiori. Il negoziante provvederà ad incartare, il più delle volte, dalla parte della corolla.

Gli altri baltici pensano che gli estoni siano lenti, e un po’ troppo ossequiosi delle regole. I lettoni li prendono in giro e dicono che, se per strada c’è una rotatoria, bisogna aggiungere un cartello e spiegargli che è consentito un massimo di soli tre giri. Gli estoni, di rimando, rispondono che i lettoni hanno sei dita dei piedi; e, comunque, non hanno isole.

Mi fa sorridere la loro diffidenza e alcune delle loro contraddizioni: sono permalosi ma capaci di battute ficcanti; sono di indole modesta ma nutrono grandi ambizioni; sono tecnologicamente avanzati eppure incapaci di vivere senza un albero nelle vicinanza; amano il dolce e il salato, spesso nella stessa pietanza; sono est, eppure sono decisamente nord; sono moderni ma molto tradizionali, e condividono, in generale, una sorta di conservatorismo gentile, che è il tono generale della loro cultura: naturale, senza sforzo, niente affatto debole, piuttosto sereno, e senza la necessità di diventare aggressivo o scomposto.

Ma la cosa che probabilmente apprezzo di più è la loro capacità, anzi direi la loro necessità di stare in silenzio. Il silenzio degli estoni non è mai assenza, ma attenzione prudente e concentrata. E’ umiltà, e un senso del pudore che noi italiani abbiamo perduto da un tempo infinito.

La scorsa settimana sono andata ad un concerto di musica rinascimentale. Il gruppo in costume si esibiva all’interno di una chiesa piccola ma estremamente suggestiva. Mentre acquisto il biglietto, faccio la conoscenza di due coppie di italiani di mezza età. Scambiamo qualche battuta, e subito mi rendo conto che a malapena sanno dove sono capitati in vacanza. Con un vago presentimento in testa, li saluto e vado per la mia strada, non senza precisare che sì, il concerto sarà molto piacevole,  conosco già il gruppo musicale. Pochi minuti più tardi, una volta preso posto in sala, mi accorgo che hanno deciso di assistere all’esibizione anche loro. I due mariti prendono posto per primi in una panca a fianco alla mia. Incitano le mogli a raggiungerli: “Eh, sono vecchie ormai, bisogna capirle”, zufolano, pensando di farmi simpatia. Le moglie sopraggiungono ed optano per il posto subito dietro di me: “Noi donne di cultura facciamo finta di non conoscerli”. Ora mi è più chiaro perché fanno coppia. Evidentemente non riusciamo ad uscire dal copione di Eduardo e Filomena.

Ingresso al concerto di musica del Rinascimento.

Hanno una assai vaga idea del genere di performance che li attende, non sanno cosa sia una ghironda e ho l’impressione che mal comprendano le introduzioni ai brani declamate in inglese. Dopo alcuni istanti di stupore, prevedibilmente, comincia l’insofferenza. Ridacchiano, si danno di gomito, Tossiscono, ridacchiano ancora. Si lamentano della durezza della panca. Parlano tra loro e mi irritano. Durante le brevi pause, uno dei mariti, seduto scompostamente, chiede a voce non troppo bassa quanto ancora debba durare – eromperà definitivamente al termine del brano successivo, con un baritonale “è’ finito?”. Decidono di andarsene di lì a poco, dopo aver disturbato tutto il tempo,

Gli italiani che incontro si assomigliano un po’ tutti. Maleducati, gretti, irrispettosi. Confusionari ed eccessivamente ciarlieri. Perché sono comunicativi, qualcuno obietta. Ecco, non credo sia questo il punto. Ci ho riflettuto, e sono giunta alla conclusione che si tratti, in realtà, di mancanza di vita interiore.

Hanno un vuoto dentro, e credono di poterlo colmare con le parole. Occorre silenzio per ascoltare, per accogliere, per valutare, per comparare, per godere. Occorre silenzio, tempo, e appropriati strumenti spirituali. Ma se la dimensione interna di un individuo è assente, il silenzio non serve più. Il vuoto viene colmato dall’istinto inselvatichito e prepotente di riversare all’esterno tutto il flusso poco meditato e protervo di sensazioni che si elevano a giudizi, di cui si ritiene che il resto del mondo non possa fare a meno. Non si tengono nelle parole e neanche nei gesti, con cui si aiutano faticosamente nell’eiettare a ripetizione considerazioni lillipuziane ma che loro, gli italiani in vacanza, percepiscono come imprescindibili per gli altri.

Si sentono irresistibilmente simpatici. Un esempio? Decido di visitare una sezione della mura di cinta della Città Vecchia. Supero l’ingresso della Nunnatorn, la torre da cui si accede al percorso, e inizio a salire le scale di pietra, che sono piuttosto ripide. Per ascendere e superare i vari livelli ci si può sostenere alle corde laterali, ma è prevedibile che qualcuno faccia più fatica, e siccome all’ultimo piano non c’è personale di servizio, l’amministrazione ha pensato di attaccare un cartello con un numero di telefono per chiedere assistenza in caso di necessità. Il cartello è scritto in tre lingue, come la gran parte delle comunicazioni pubbliche: estone, russo e inglese.

Alle tre lingue, osservo avvicinandomi, se ne è aggiunta a quanto pare una quarta, latrice di diverso messaggio. La lingua è l’italiano – non spagnolo, non svedese, non polacco, non cinese, non arabo, nonostante i turisti siano molti e di molte nazionalità. La scritta è in italiano, è a penna e dice: “Per qualunque altro desiderio rivolgersi a Salvatore, l’amatore”. Seguono orari e numero a cui chiamare. Perché noi siamo quelli simpatici.

“Salvatore l’amatore”

L’ho fatta lunga più di quanto mi fossi riproposta, perciò concludo citando le parole dei soccorritori del povero Simon, l’escursionista francese scivolato in un dirupo nei pressi di Policastro, e trovato morto dopo ben nove giorni: “Ti sei perso nella nazione sbagliata”.

Com’è una nazione sbagliata? E’ una nazione pigra, indolente, apatica. Una nazione che pensa di essere simpatica, invece è soltanto villana. Una nazione che si sente comunicativa, mentre è solo immersa nelle sue chiacchiere becere e inconcludenti. E’ una nazione che racconta di avere tanto “cuore”, tanto sentimento, ma quel cuore è solo una scusa per giustificare la nostra mancanza di disciplina e per risparmiarci di riconoscere i nostri limiti. Se davvero coltivassimo un sentimento, non ci mostreremmo di volta in volta indifferenti o, peggio, prevaricatori. Il sentimento implica ascolto e rispetto.

Una nazione sbagliata è una nazione che tradisce. Io ho visto l’Italia, il mio Paese, tradire promesse e alleanze. L’ho vista tradire i suoi uomini migliori, i suoi servitori, e questo non glielo posso perdonare, perché tradire chi ha giurato fedeltà è un’infamia, e merita le spalle voltate in segno di disprezzo.

Tempo fa mi sono persa anche io nella nazione sbagliata. Ma sono stata molto più fortunata di Simon, e indietro non torno.