Da cittadino elettore ritengo essenziale restituire quanto prima la parola agli italiani. Anche per riavere finalmente una rappresentanza parlamentare che rispecchi davvero l’orientamento politico del nostro popolo e non sia falsata da “premi di maggioranza” incostituzionali come accade oggi.
Tuttavia – al di là delle chiacchiere di Renzi – ritengo impossibile che il Pd vada in Parlamento a sfiduciare il suo stesso governo. Pagherebbe un prezzo d’immagine pesante. Inoltre abbiamo anche a che fare con delle regole.
Quella della “coerenza” fra sistema elettorale della Camera e del Senato è discutibile e di difficile decifrazione: ognuno la interpreta come più gli conviene e soprattutto è solo un argomento politico. Infatti in passato è accaduto più volte che i diversi sistemi elettorali delle due Camere abbiano dato due maggioranze diverse, da comporre poi politicamente.
Più importante mi pare un orientamento giuridico che oggi politici e media hanno totalmente dimenticato, ma che fece molto discutere qualche anno fa. Si tratta del “Codice di buona condotta elettorale” che fu messo a punto dalla European Commission for Democracy through Law (la “Commissione di Venezia” che era presieduta da Antonio La Pergola).
Si tratta di un organo consultivo del Consiglio d’Europa, ma il documento che ha elaborato sulle materie elettorali è stato giudicato rilevante dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, “consacrato” dalla risoluzione 1320 (del 2003) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e ripresa dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa (2004).
NON SI PUO’
Nelle Linee guida di quel documento – fra le altre cose – si dice che non si può modificare la legge elettorale nell’anno che precede la chiamata alle urne:
“La stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso; a tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare, che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio”.
Poi si legge ancora:
“La necessità di garantire la stabilità, in effetti, non riguarda, tanto i principi fondamentali, la cui messa in causa formale è difficilmente immaginabile, quanto, alcune norme più precise del diritto elettorale, in particolare del sistema elettorale propriamente detto, la composizione delle commissioni elettorali e la suddivisione delle circoscrizioni. Questi tre elementi appaiono di sovente – a torto o a ragione – come determinanti per il risultato dello scrutinio, ed è opportuno evitare, non solamente le manipolazioni in favore del partito al potere, ma anche le stesse apparenze di manipolazioni. Ciò che è da evitare, non è tanto la modifica della modalità di scrutinio, poiché quest’ultimo può sempre essere migliorato; ma, la sua revisione ripetuta o che interviene poco prima dello scrutinio (meno di un anno). Anche in assenza di volontà di manipolazione, questa apparirà in tal caso come legata ad interessi congiunturali di partito“.
La sentenza della Corte Costituzionale ci presenta di fatto una nuova legge elettorale che – stando a questi principi – dovrebbe veder passare almeno un anno prima di essere applicata (tanto più se viene ulteriormente modificata dal Parlamento).
Naturalmente è tutto da discutere, ma un ricorso frettoloso alle urne potrebbe anche essere impugnato presso la Corte europea dei diritti dell’uomo che già è intervenuta nel recente passato per la Bulgaria.
UN ANNO PREZIOSO
Inoltre, considerati i vari schieramenti, si ha la sensazione che un anno di tempo potrebbe essere preziosissimo per costruire delle proposte politiche veramente serie e compiute. Cosa di cui oggi non c’è nemmeno la minima traccia.
Il dibattito nei partiti e fra i partiti infatti verte tutto su questioni secondarie. Nessun partito e nessuno schieramento ha maturato una proposta definita e impegnativa sulla vera questione di fondo che mette in gioco il destino del nostro Paese: l’euro, “questa” Unione europea e “questa” globalizzazione.
Ecco le vere questioni di fondo che – non a caso – con l’elezione di Trump negli Stati Uniti e con la Brexit, stanno ridisegnando tutto lo scenario internazionale. E’ rischiosissimo restarne fuori e non capire cosa sta accadendo.
I politici italiani, perlopiù senza visione, senza cultura e senza competenze vere, sembrano impegnati in una rissa su questioni secondarie che si svolge su una nave la quale – senza che se ne accorgano – sta portando tutti nel baratro.
SALTA LA UE
Due giorni fa non un “populista”, non un Salvini o una Meloni o un Grillo, ma l’ex governatore della Banca d’Inghilterra Mervyn King, uno che la sa lunga e infatti non ha mai sparato sulla Brexit, parlando a Milano, ha focalizzato la questione dell’euro con queste parole:
“fu prematuro voler creare la moneta unica alla fine degli anni Novanta e non tra 50 o 80 anni, e ora sta producendo costi politici e sociali enormi. Prima la disoccupazione nei vari Paesi era a livelli paragonabili, ora c’è una grande divergenza. Proprio mentre i Paesi più deboli devono deprimere la propria domanda interna per recuperare competitività internazionale. Non vedo via d’uscita facile: la comunità degli economisti tedeschi non accetterà mai il cambiamento necessario: trasferimenti permanenti dalla Germania verso i Paesi della periferia. Ma il tasso di cambio dell’euro di oggi è insostenibile: sottovalutato per la Germania, sopravvalutato per l’Italia”.
King ha poi alzato il tiro spiegando che “non siamo noi britannici a lasciare l’Unione europea, è l’Unione europea che sta lasciando noi. La Ue ormai è completamente diversa dalla comunità nella quale eravamo entrati quarant’anni fa“.
Essa infatti oggi – secondo King – è totalmente basata sull’euro e su Schengen, cioè la libera circolazione delle persone, “e da ora in poi la Ue dovrà lavorare per far funzionare questi accordi mentre aumentano sia i flussi migratori che la divergenza economica fra i Paesi dell’unione monetaria”. Ebbene, afferma King, “il Regno Unito ha sempre detto che non voleva far parte di questi due progetti”.
L’Italia può ancora permettersi di far parte di questi due progetti? La situazione di crisi in cui sprofondiamo impone di ripensare tutto sull’Europa e – per evitare il tracollo definitivo – fare scelte radicali, ma oculate e serie, non frettolose. Chi ha un piano?
CAMBIA LA SCENA DEL MONDO
Si aggiunga a questo il crollo della globalizzazione degli anni Novanta – quella dei Clinton (e poi di Obama) – spazzata via da Trump (e Putin), ma ancor prima dalla crisi del 2007-2008 che ha presentato il conto alla follia ideologica del mercatismo, un’utopia tecnocratica che pretendeva di abolire gli stati e le identità dei popoli per avere il dominio dei mercati su masse di individui ridotti a merce, a “esercito industriale di riserva” e a meri consumatori.
Il mondo sta radicalmente cambiando e i politici italiani perlopiù non se ne rendono conto: i più ciechi sembrano essere Renzi e il Pd, una classe politica mediocre e ideologicamente succube di establishment stranieri.
Loro – essendo stati il partito dell’euro, di Maastricht e di Clinton e Obama – appaiono ormai come reperti archeologici di un assetto geopolitico crollato e che ancora produce disastri. E non danno segnali di revisione critica.
Ma anche gli altri schieramenti stentano a disegnare un programma solido e condiviso che affronti con intelligenza e responsabilità questo cambio di scenario epocale.
Ciò significa che può essere prezioso avere qualche mese di tempo per metabolizzare il nuovo assetto internazionale in evoluzione, capire quale può essere la strada dell’Italia e fare agli italiani delle proposte politiche serie.
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Antonio Socci
Da “Libero”, 27 gennaio 2017