di Roberto Pecchioli
Viviamo nella democrazia dello spettatore, un concetto del linguista e sociologo Noam Chomsky mutuato dalle idee del primo maestro della propaganda e del condizionamento applicata alla politica, Walter Lippman. Già nei primi decenni del secolo XX si pose il problema del controllo dell’opinione pubblica nei regimi formalmente democratici. L’obiettivo era controllare i mezzi di comunicazione per plasmare, dirigere e manipolare l’opinione pubblica, che Lippman chiamava il gregge smarrito. La prima grande operazione di propaganda fu commissionata dal presidente americano Woodrow Wilson, per spingere gli Stati Uniti all’entrata in guerra nel primo conflitto mondiale.
La maggioranza era contraria, ma Wilson e l’establishment americano volevano la guerra. Crearono la Commissione Creel, che riuscì a trasformare in pochi mesi una popolazione incline alla neutralità in una massa isterica che spingeva per l’intervento, nonostante lo scenario bellico fosse l’Europa e gli americani non vedessero minacciati i loro interessi. Il successo convinse il potere e i suoi consulenti – al lavoro di Lippman intanto si era aggiunto quello di Edward Bernays- ad estendere le tecniche di propaganda ad altre battaglie politiche, ad esempio contrastare le rivendicazioni dei sindacati.
L’obiettivo reale era la neutralizzazione di fatto della libertà di stampa e dello stesso pensiero critico. Il potere finanziario e imprenditoriale, proprietario dei media (ai giornali e al cinema si stava affiancando la radio) incoraggiò l’operazione. La questione chiave era ottenere il sostegno dei membri più influenti della società. Era la lezione della Commissione Creel: quando la propaganda è usata dallo Stato e sostenuta dai ceti con un alto livello culturale, l’effetto moltiplicatore è enorme. Le masse tendono sempre a imitare le classi dominanti.
Nasceva la “democrazia dello spettatore”, un sistema senza partecipazione attiva del popolo. La tesi di fondo di Lippman, che pure fu un teorico del liberalismo politico, era che la massa non comprende i problemi della società e deve essere guidata attraverso tecniche psicologiche di consenso capaci di riunire “il gregge smarrito”. Il fine era produrre consenso alle politiche governative attraverso le nuove scienze che avanzavano, a cominciare dalla psicologia. Lippman introdusse una concezione della democrazia basata su un’idea semplice: solo una piccola élite è in grado di definire i problemi del resto dei cittadini e indicare la soluzione. L’idea- chiamata democrazia progressiva – era che esistono gruppi diversi di cittadini. In prima fila coloro che assumono un ruolo attivo nelle questioni relative al governo e all’amministrazione, la classe specializzata. Al di fuori c’è la maggioranza della popolazione, il gregge dal quale “proteggersi quando muggisce e calpesta”.
Le tecniche sperimentate da Lippman erano già utilizzate nell’ambito di quelle che si cominciarono a definire pubbliche relazioni, sintagma inventato da Edward Bernays nel 1920, primo mattone di un’ingegneria del consenso fondata sull’uso spregiudicato di tecniche di manipolazione psicologica. Il sistema delle pubbliche relazioni, nell’ambito commerciale, ha obiettivi che non hanno a che fare con la verità: vendere prodotti e servizi, promuovere o modificare l’immagine di un committente. A tal fine utilizza metodi, teorie e tecniche della pubblicità, del marketing, del design, della politica, della psicologia, della sociologia e del giornalismo. Si stima che almeno l’ottanta per cento dei contenuti dei media provenga oggi dall’attività di addetti alla comunicazione.
L’ambito pubblicitario commerciale non nasconde i suoi fini: convincere più gente possibile ad acquistare un prodotto, assumere stili di vita favorevoli al consumo, preferire un marchio a un altro sino a farne una ragione di vita. Lo spiegò Jean Baudrillard ne Il sistema degli oggetti, in cui scoprì i concetti di valore simbolico e di valore segnico, esistente unicamente all’interno di un sistema di altri oggetti. Molti prodotti – e soprattutto marchi- non hanno alcuna funzione o utilità, ma veicolano un valore sociale, uno status, il gusto o la classe sociale cui appartiene –o aspira a far parte- chi li possiede, modellato dal sistema della persuasione e della propaganda.
Un’ amica si è sentita chiedere dalla nipote l’uovo pasquale di Elettra Lamborghini, un personaggio televisivo di moda e “influencer”, ovvero persona che orienta i gusti e le preferenze dei seguaci (followers). I meccanismi di propaganda politica sono identici. Bernays scrisse: se comprendiamo il meccanismo e le motivazioni della mente collettiva, siamo in grado di controllare e irreggimentare le masse secondo la nostra volontà senza che se ne accorgano.
Il compito della cultura è quello di segnalare l’inganno, fare in modo che le persone sappiano di essere oggetto della manipolazione di cui parla Bernays, capace di determinare un consenso sottomesso, orientabile a piacimento con specifiche campagne di chi detiene il potere, attraverso esperti di prim’ordine, come furono Lippman e Bernays. Questi- il primo spin doctor della storia, ovvero esperto di comunicazione- lavorava indifferentemente nel campo politico e nell’ambito commerciale. Elaborò teorie sulla propaganda e coniò l’espressione “fabbrica del consenso”, che definì essenza della democrazia. Una nuova modalità, estremamente efficace, di diffondere informazioni con lo scopo di indirizzare i comportamenti delle masse.
L’esempio più sconcertante di interazione tra pubblicità commerciale e propaganda politica fu una campagna di Bernays a favore della diffusione del fumo tra le donne, commissionata dai produttori di tabacco. Ideò una serie di immagini che mostravano donne emancipate, in carriera, sempre con la sigaretta in bocca. L’accensione delle sigarette diventava un gesto politico trasgressivo, le “torce della libertà”, con chiaro riferimento alla statua simbolo degli Stati Uniti.
Come Lippman, Bernays lavorò nella Commissione Creel e nel 1924 diresse la campagna politica del presidente Coolidge, la prima organizzata con i criteri della propaganda “scientifica”. Dobbiamo prendere atto che i mezzi di informazione- posseduti dal livello alto del capitalismo in regime di quasi monopolio – manipolano la verità al servizio della interessi dei loro padroni. La democrazia dello spettatore è l’attitudine passiva di chi, davanti a uno schermo (televisione, pc, smartphone) riceve informazioni che lo inducono a credere che l’unico bene prezioso sia consumare di più, e a prestare fede ai valori veicolati dalla società dello spettacolo.
I soggetti capaci di produrre consenso sono coloro che hanno le risorse e il potere per farlo – la comunità finanziaria e imprenditoriale – e noi lavoriamo per loro, ammise Bernays, aggiungendo che la manipolazione consapevole e intelligente delle condotte e delle opinioni organizzate delle masse è un elemento importante nella società democratica. “Coloro che manipolano questo meccanismo nascosto della società costituiscono il governo invisibile che detiene il vero potere che governa il destino del nostro paese. Coloro che ci governano, modellano le nostre menti, definiscono i nostri gusti o ci suggeriscono le nostre idee sono in gran parte persone di cui non abbiamo mai sentito parlare”. Uno fu egli stesso, morto ricchissimo a 104 anni nel 1995, dopo aver lavorato anche per la CIA.
L’anno corrente è quello del centenario dall’uscita de L’Opinione Pubblica di Walter Lippman, il saggio che coniò il concetto. Il principio di fondo è che le persone sono troppo stupide per capire le cose della politica. Se gli individui tentassero di partecipare alla gestione di questioni che li riguardano, creerebbero problemi, quindi sarebbe improprio e immorale consentire loro di farlo. Bisogna domare il gregge disorientato e smarrito, non è prevista la possibilità di partecipare all’azione: combinerebbe solo guai, deve rimanere spettatore.
Lippman teorizzò un doppio binario per due umanità distinte, in cui anche il sistema educativo, di natura privata, era rivolto alla classe specializzata, da istruire sui valori e gli interessi del potere e sul legame corporativo da mantenere tra loro e all’interno delle istituzioni. Il resto del gregge deve essere distratto, confinato nel ruolo di recettore passivo, indottrinato, eterodiretto e addestrato affinché compia con efficienza il ruolo sociale prescelto dal livello sovrastante. C’è una verità per l’élite e una per la gente comune, come intuì Gilbert Chesterton, che, negli stessi anni dell’ascesa delle tecniche di propaganda, affermava: i giornali hanno cominciato ad esistere per dire la verità e oggi esistono per impedire che la verità venga detta.
Con lo sguardo rivolto all’oggi, che dire dell’immenso potere di propaganda sul gregge della TV, delle reti sociali, dei padroni del discorso (i soliti…)? Forse gli stessi teorici delle tecniche psicologiche di condizionamento e propaganda furono sorpresi dal successo e dalla facilità con cui conseguivano i successi voluti. Parliamo di idee che si sono sviluppate un secolo fa e hanno raggiunto oggi una perfezione incredibile, mostrando l’esistenza di un progetto di lungo periodo per la manipolazione e il controllo dell’opinione pubblica.
Il fondamento teorico si basava sulla necessità di formare una classe dirigente illuminata in grado di frasi carico dello Stato, dell’economia e del potere. Una visione oligarchica teorizzata dal primo influente pensatore americano, John Dewey, il filosofo del Pragmatismo Americano, inteso c ome “filosofia del successo”. Per lui, solo una élite intellettuale può capire quali sono i veri interessi comuni, le poste in gioco, che cosa è conveniente fare, giacché la comprensione di tutto ciò è al di là della possibilità della gente comune. Enorme la distanza tra la “narrazione” liberale e democratica, e la prassi concreta delle classi dirigenti. Lippman, tra i primi a condividere la diagnosi, organizzò commissioni di propaganda sulla cui esperienza fu elaborata la tesi elitaria nell’esercizio della democrazia che è la sua negazione.
La giustificazione teorica- ogni sproposito ha i suoi dottori sottili- era che occorreva sì rispettare il principio democratico, ma riconoscerne la debolezza e la complessità. La soluzione era la propaganda, ossia eliminare, o almeno depotenziare ogni dissenso attraverso slogan semplici, ripetuti all’infinito, con l’ausilio di personaggi famosi- i testimonial della pubblicità- ossia fabbricare il consenso, indurre nella popolazione, attraverso le nuove tecniche, l’accettazione delle idee del potere, il discredito di tutte le altre, l’approvazione di politiche e atti inizialmente indesiderati.
L’unica differenza rispetto a tempi recenti è che la teorizzazione – e la successiva concretizzazione – avveniva con chiarezza di termini e intenti. Poi abbiamo conosciuto un lungo periodo di ipocrisia e dissimulazione, abbandonata negli ultimi anni. Oggi i padroni universali sono abbastanza forti da permettere ai loro funzionari – propagandisti, economisti, operatori della comunicazione, personalità della cultura e dello spettacolo- di rivelare apertamente la loro agenda. Hanno infatti represso perfettamente nel tempo le capacità analitiche di massa attraverso la decontestualizzazione semplificatoria dei fatti, la manipolazione e la virtualizzazione del reale. L’ amplificazione del registro emotivo-sentimentale rende credibili le menzogne più sfacciate: il pubblico non sa più pensare.
Per Lippman, l’élite deve proteggersi dal popolo, il gregge sconcertato che “muggisce e calpesta”. Ci sono due umanità: da un lato, la classe specializzata, i responsabili, dall’altro, la massa, spettatrice passiva. Alla sensibilità di ciascuno valutare se questo sia bene o male e se il concetto–totem di democrazia sia menzogna o verità. L’ arte della democrazia, per chi la controlla, è la fabbricazione del consenso: i decisori forniscono un senso tollerabile della realtà e instillano le opinioni “giuste”, le loro.
Chi non vuol essere gregge e spettatore, cominci a dubitare, a diffidare. Un grande intellettuale italiano del Novecento, Giuseppe Prezzolini, esortava a fondare l’associazione degli àpoti, quelli che “non se la bevono”, ossia non credono alle versioni dei fatti ad uso degli spettatori. Propaganda, il nome d’arte della bugia.