A PROPOSITO DEL BANNON PENSIERO
REPLICA AD ANTONIO SOCCI
Pare che i media, al di là ed al di qua dell’Atlantico, abbiamo scoperto chi è il tessitore delle linee culturali del Trump-pensiero. Si tratta di Stephen H. Bannon, intellettuale di origini irlandesi, un cattolico vicino al cardinal Burke (1).
Le élite globalizzatrici, ed il mediasystem che le sostiene, si sono scagliate contro quella che è ormai ritenuta essere l’eminenza grigia del trumpismo, l’organizzatore culturale del nuovo regime statunitense.
Ha perfettamente ragione l’amico Maurizio Blondet quando nei suoi interventi mette in evidenza che i media, prezzolati dalle multinazionali globaliste infastidite dalla politica “no-global” del nuovo presidente statunitense, non perdonano nulla a Trump mentre hanno fatto passare di tutto ad Obama fino ad insignirlo del Premio Nobel per la Pace nonostante che sia stato uno dei più guerrafondai inquilini della Casa Bianca.
Quindi sia chiaro: lo scrivente non è certamente dalla parte dei globalizzatori né del mediasystem prezzolato dalle multinazionali. Anzi lo scrivente dichiara subito che alcune – ma solo alcune – delle scelte politiche di Trump le apprezza, ossia la volontà di sottomettere il capitale globale agli interessi nazionali costringendolo a non delocalizzare per tutelare l’occupazione interna.
Tuttavia per molte altre questioni in Trump fa capolino quanto di peggio abbiamo già conosciuto nell’epoca (neo)cons del bushismo e questo perché alla base della sua visione politica sussiste lo stesso paradigma “anglo-conservatore” che caratterizza la destra americana e che, complici alcune centrali culturali italiane, ha da anni contagiato anche diversi settore tradizionalisti del mondo cattolico italico.
Una delle vittime più in vista del contagio in questione è Antonio Socci, un bravo giornalista che lo scrivente pure apprezza sul piano spirituale quando difende l’identità cattolica. Socci, more solito, troppo entusiasta ha definito “non banale” il Bannon-pensiero che è sostanzialmente fondato sull’equivoco concetto, molto retorico, delle “radici giudaico-cristiane” dell’Occidente. Come si diceva Stephen Bannon è della cerchia del cardinal Burke, quindi è un cattolico di formazione conservatrice e come tale mostra di muovere dalla sottesa, forse inconsapevole, ma certo errata considerazione della Chiesa quale istituzione occidentale più che universale.
Del resto, come lo stesso Socci, forse spaventato dalle conseguenze del clima rissoso che si è creato nella Chiesa ed al quale anche lui con i suoi recenti libri e articoli ha contribuito, ha avuto modo di scrivere che ha intenzione di ritrarsi dall’agone della polemica antibergogliana non volendo confondere le sue critiche con la volgarità degli attacchi più pesanti alla persona dell’attuale Pontefice.
E fa bene Socci a ritrarsi. Anche lo scrivente che, pur non essendo affatto un cattolico “progressista”, non ha mai avuto in eccessiva simpatia i cattolici conservatori, rivendica da cattolico il diritto di essere altrove ossia, salvo il magistero, di usare con rispetto il diritto-dovere di critica, all’occorrenza, ma tanto contro Trump/Bannon/Burke che Bergoglio/Kasper/Melloni.
Ma chi è Stephen Bannon?
Traiamo notizie su di lui dalla stampa (2) la quale non manca di segnalare la portata intra-ecclesiale che il pensiero del consigliere più ascoltato da Trump sta assumendo.
Stephen Bannon è diventato celebre come executive chairman di Breitbart News, il sito che ha fatto della guerra al politically correct la sua ragione di vita, punto di riferimento della alt-right, la destra alternativa che vuole abbattere l’establishment repubblicano. Fu chiamato in tutta fretta da Trump a rilanciare la sua campagna elettorale che aveva subito un duro colpo dalle registrazioni fatte vent’anni prima, in cui il magnate nuovayorchese manifestava tutto il suo sessismo e dall’esito disastroso del suo primo confronto televisivo con Hillary Clinton. Nell’occasione Bannon spinse Trump ad essere ancora meno moderato e più aggressivo nei toni, a spararle ancora più grosse. La terapia ha funzionato.
Bannon è un uomo che si è fatto da sé. Nato a Norfolk, Virginia, in una famiglia della classe operaia, Bannon si arruola nella marina, studia alla Harvard Business School ed entra in Goldman Sachs. Ma l’ambiente non gli piace, per quanto intellettualmente dotato è pur sempre un figlio del popolo. Lasciata la banca d’affari si trasferì a Los Angeles per diventare distributore produttore cinematografico, girando alcuni documentari con lo stile di Michael Moore ma con contenuti del tutto non politicamente corretti. Nel 2012 alla morte di Andrew Breitbart, Bannon diventa executive chairman dell’omonimo sito da lui fondato assicurandone un grande successo. Diventato conduttore di seguitissimi programmi radio, invita spesso nei suoi talk show proprio Trump, perché l’intesa ideologica tra i due si manifesta immediatamente.
La sua visione del mondo l’ha ufficializzata nel discorso da lui tenuto nel 2014 a una conferenza organizzata in Vaticano dall’Istituto dignitatis humanae, un gruppo di cattolici conservatori legati, appunto, al cardinale statunitense Raymond Burke. In quel discorso prese le difese dei “dimenticati”, argomento che poi proprio Trump riprenderà a getto continuo durante la campagna elettorale, sfondando in Stati tradizionalmente democratici come la Pennsylvania. Bannon stigmatizza, ricordando di averlo constatato di persona all’epoca di Goldman Sachs, il comportamento delle élite newyorchesi che si sentono più vicine alla gente di Londra e di Berlino che a quella del Kansas e del Colorado. E’ questa mentalità elitaria che vuole impadronirsi del mondo il nemico numero uno di Bannon.
Alle élite il nostro contrappone il ritorno dell’Occidente, e dell’America in particolare, ai tre pilastri sui quale poggerebbe, per Bannon, l’identità occidentale: il capitalismo, il nazionalismo e i valori giudaico-cristiani. L’attuale “crisi del capitalismo” è crisi valoriale. Al vecchio capitalismo dei bei tempi andati, fondato sulla moderazione, sullo spirito imprenditoriale ed il rispetto per il prossimo si è sostituito, a partire dalla rivoluzione antropologica sessantottina, un capitalismo avido, finanziario, cosmopolita che al posto degli antichi “valori tradizionali” – nazionalismo, modestia, patriarcato, religione – ha imposto pluralismo, sessualità, egualitarismo e secolarismo. Questi nuovi valori liberal sono la cultura dell’’élite globalizzata che Bannon chiama “partito di Davos”, responsabile della deformazione delle istituzioni del capitalismo “patriarcale” e della depauperazione delle classi medie di tutto il mondo della ricchezza che esse meritano e che il capitalismo antico assicurava loro.
Quando poi nel 2008 è arrivata la crisi il governo Obama/Clinton, afferma Bannon, ha fatto pagare il conto dello scoppio della bolla speculativa ai lavoratori, privatizzando i profitti e socializzando le perdite. Quello di Obama era un socialismo per ricchi fondato sulla sofferenza della classe media. Solo il ripristino della morale giudeo-cristiana può restituire, secondo Bannon, il capitalismo benefico contro quello malefico. “First America” non può che significare riancoraggio del capitalismo ai valori giudaico-cristiani, reintroducendo una morale condivisa che, unica, potrà garantire che le imprese non investano solo a proprio esclusivo vantaggio, ma anche per il bene dei lavoratori della propria nazione e delle generazioni future.
In questa prospettiva, naturalmente, insieme alle élite, l’altro nemico è l’islam, e la conseguente immigrazione mussulmana (senza che però si sottolinei che essa è dovuta proprio alla politica americana nel Vicino Oriente). Il consigliere di Trump inevitabilmente considera Papa Francesco troppo socialista e troppo accomodante con l’islam.
Diciamo subito che, nella pars destruens, la critica di Bannon alle élite globaliste, al capitalismo finanziario ed apolide, alla sinistra arcobaleno utile strumento del capitale transnazionale, è del tutto condivisibile e veritiera.
Laddove invece il Bannon-pensiero mostra tutta la sua natura costruttivista, di ideologia, è nella concezione storico-filosofica di fondo dalla quale poi sono tratte anche terapie a dir poco discutibili.
Ma questa divaricazione non è stata affatto colta, per via delle medesime deficienze culturali dalle quali è affetto egli stesso, da nostro Antonio Socci (3). Il quale ha così incensato Bannon:
«Bannon è un tipo che si rivolge al “New York Times” e agli altri fogli liberal affermando che sono “media delle élite” e non hanno “nessuna autorità” per dire ciò che gli americani vogliono dal nuovo presidente. Bannon afferma che il sistema mediatico è stato letteralmente “umiliato” dal voto degli americani ed è oggi – di fatto – il partito di opposizione dell’attuale amministrazione. Aggiunge che “i media dovrebbero essere imbarazzati e umiliati” per lo smacco subito e dovrebbero “tenere la bocca chiusa per un po’ ” per “imparare ad ascoltare”. Perché essi “non capiscono questo paese e continuano a non capire il motivo per cui Donald Trump è il presidente degli Stati Uniti”. E’ ovvio che un tipo simile sia detestato dal sistema mediatico. Ma non si capisce perché i giornali italiani lo demonizzano scimmiottando quelli americani e non hanno la minima curiosità di capire il suo pensiero. (…). È vicino al “Tea Party”, contro il “politically correct” dei liberal, contro l’aborto e pure contro l’establishment repubblicano che – come i democratici – non si cura dei “dimenticati” e del massacro sociale provocato dalla globalizzazione».
Ma quel che più sembra entusiasmare Socci è la teologia politica catto-conservatrice di Bannon.
«C’è una sintesi del suo pensiero – continua Socci – in una conferenza tenuta nel 2014 all’Istituto “Dignitatis humanae”, vicino al card. Burke. Provo a riassumere. Il benessere diffuso dal capitalismo nelle società occidentali deriva dai suoi fondamenti giudaico cristiani. Sennonché “cento anni fa (nel 1914) l’attentato di Sarajevo dette inizio al grande macello della Prima Guerra mondiale che segnò la fine dell’epoca vittoriana e l’inizio del secolo più sanguinoso nella storia del genere umano. Fino a quell’attentato il mondo era in pace. C’era commercio, c’era la globalizzazione, c’era lo scambio tecnologico… e la fede cristiana era predominante in tutta Europa. Sette settimane più tardi c’erano cinque milioni di uomini in uniforme e dopo trenta giorni si contava già un milione di vittime”. Così sono arrivati i totalitarismi. “Quella guerra” dice Bannon “ha innescato un secolo di barbarie senza precedenti nella storia dell’umanità. Dai 180 ai 200 milioni di persone sono state uccise nel XX secolo. Siamo figli di quella barbarie che in futuro sarà considerata un’epoca oscura”. Secondo Bannon “ciò che ci ha portato fuori” da essa non è stato solo l’eroismo americano sulle spiagge della Normandia, ma la cultura giudaico-cristiana che ha combattuto la barbarie ateista. Il capitalismo ci ha dati i mezzi e la ricchezza per riportare la pace e per dare il benessere ai popoli, ma un capitalismo animato dalla cultura giudaico-cristiana. Oggi siamo alla crisi del capitalismo, dell’Occidente, della cultura giudaico-cristiana e della fede (…) “siamo in guerra aperta con il fascismo islamico jihadista” (…). In Occidente si è imposto – dopo il ’68 – “un capitalismo del tutto estraneo ai fondamenti spirituali e morali del cristianesimo e della cultura giudaico-cristiana. Esso guarda alle persone come “materie prime”, come merce ed è andato di pari passo con “l’immensa secolarizzazione dell’Occidente”. Bannon parla delle élite globalizzate (“il partito di Davos”) e sostiene che il governo americano ha fatto pagare il botto della bolla speculativa del 2008 non a loro, ma al ceto medio e alle classi popolari. Da questa crisi del capitalismo si può uscire solo – secondo Bannon – tornando ai suoi fondamenti morali e spirituali, alle sue radici giudaico-cristiane che hanno dato pace e prosperità alle nazioni, ai ceti medi e popolari».
Fin qui Antonio Socci ossia una stimata intelligenza cattolica rovinata dall’ormai ventennale predominio, nei settori non modernisti del Cattolicesimo, del pensiero conservatore anglo-americano tutto ruotante intorno allo stemperamento burkiano e kirkeriano delle differenze teologiche e storiche tra Cattolicesimo e protestantesimo e tra Cristianità europea e Nuovo Mondo nord-americano. In questo Socci è il tipico rappresentante di una intera generazione di buoni cattolici genuflessisi all’egemonia a stelle e strisce.
Stephen Bannon può essere persino simpatico nel suo “épater le bourgeois” quando gode nello scandalizzare le anime belle del politicamente corretto liberal. Un po’ come, a suo tempo, ma con diversa e molto più notevole caratura, il nostro Giovannino Guareschi che si divertiva a smitizzare i miti comunisti anni ’50. E’ possibile perfino scorgere in Bannon qualcosa dell’anarchismo anticonvenzionale, magari inconsapevolmente un po’ nicciano, di certa destra radicale. Con Bannon si può perfino essere d’accordo – e lo scrivente lo è – nell’analisi socio-economica sui “dimenticati” dalle élite tecnocratico-finanziarie e dalla sinistra e sulla necessità di politiche di rientro dai nefasti effetti socialmente dannosi della globalizzazione.
Ma Bannon, e con lui Socci, cerca di assolvere dalle sue responsabilità globalizzatrici proprio il capitalismo nascondendolo dietro la (falsa!) maschera teologica del “giudeo-cristianesimo”, allontanatosi dal quale, e solo allora, il capitalismo sarebbe diventato cattivo da buono che era alle origini.
Proprio questo mascheramento ci porta al punto della questione. Il Bannon pensiero non è affatto originale essendo nient’altro che una stantia ripetizione della teologia del capitalismo inventata dalla trimurti cattoconservatrice Michael Novak, George Weigel, Richard Neuhaus, il cui corollario storiografico è rappresentato dall’opera di autori come Rodney Stark (4). Filosofi e storici, questi, propagandati in Italia da centrali di pensiero come Alleanza Cattolica, Lepanto, Tradizione Famiglia e Proprietà e da intellettuali catto-conservatori come Roberto De Mattei, Marco Respinti e Massimo Introvigne.
A differenza di quanto ritiene Socci, allo scrivente Bannon sembra tremendamente banale proprio per questa stantia ripetizione dei temi che nel decennio bushista ha portato avanti la destra (neo)conservatrice “cristiana”, negli Stati Uniti e per riflesso coloniale in Europa ed in Italia.
Quel che però né Bannon né Socci ci dicono è dove mai, nella storia, sarebbe comparso un capitalismo che non ha considerato le persone come merci e come cose da usare e poi gettare. Nel 1891, ossia in quel periodo storico che stando a Bannon avrebbe segnato l’apogeo del trionfo del Cristianesimo nel mondo, un vecchio Papa, che da vescovo in Belgio aveva ben conosciuto la durezza del capitalismo – e non si trattava del capitalismo finanziario ed apolide attuale allontanatosi dalle sue presunte radici “giudeo-cristiane” ma proprio di quel capitalismo patriarcale ed antico al quale nostalgicamente occhieggia Bannon –, parliamo di Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Raffaele Luigi Pecci, pubblicava la “Rerum novarum cupiditas”, la più nota enciclica sociale della Chiesa, protestando che “il lavoro non è merce” e chiedendo l’intervento mitigatore e riparatore dello Stato contro gli abusi criminali del capitalismo ai danni degli operai. Il povero ma coraggioso Papa Pecci divenne immediatamente la bestia nera di tutta la classe dirigente liberale del mondo, della stampa da essa controllata e delle logge massoniche, non solo italiane, ancora gaudenti della recente conquista della città eterna per le armi sabaudo-piemontesi. Fustigato dalle élite del suo tempo, Papa Leone XIII ebbe invece la consolazione di vedersi confermato l’amore sincero del popolo cattolico, specie di quello operaio e contadino.
Che poi sia così teologicamente e storicamente evidente che il giudeo-cristianesimo avrebbe il merito, o il demerito a seconda dei punti di vista (per un neopagano come Alain De Benoist si tratta sicuramente di un demerito), di aver posto le basi del capitalismo, è cosa tutta da dimostrare. Perché – nonostante gli sforzi di Novak, Weigel, Neuhaus e Stark – il vecchio Max Weber non aveva tutti i torti a distinguere tra Cattolicesimo e protestantesimo a proposito degli effetti delle scelte religiose sulle dinamiche socio-economiche. Il consigliere di Trump, infatti, sulla scorta di citata ed ampia, quanto poco convincente, letteratura, si richiama ad un generico “cristianesimo” che, quindi, ricomprende anche Lutero e la morale ascetico-professionale calvinista, sorvolando, in tal modo, con troppa facilità sull’abisso sussistente tra luteranesimo-calvinismo e Cattolicesimo, anche, come si diceva, nei riguardi degli effetti delle opzioni teologiche sulle realtà e sulle dinamiche socio-economiche.
Il Bannon-Stark pensiero ha il suo punto debole proprio in questa tendenza alla semplificazione ed all’indistinzione. Si tratta della stessa tendenza semplificatrice, ma speculare, che è possibile riscontrare nell’approccio a queste tematiche da parte di un nicciano quale Alain De Benoist. Basta, infatti, prefabbricarsi l’oggetto del proprio desiderio, nella fattispecie un mai esistito “giudeo-cristianesimo”, mettervi dentro tutto ciò che si vuole – ossia, a seconda delle opzioni culturali o dei fini ai quali si vuol arrivare, tutto ciò che brilla o al contrario tutto ciò che è oscuro – ed il gioco è fatto: Nostro Signore Gesù Cristo diventa, ipso facto, responsabile del progresso tecnologico e del benessere dell’Occidente, del capitalismo apportatore di libertà, della democrazia liberale, della globalizzazione benefica dell’Occidente salvatore del resto del mondo oppure, al contrario, Egli diventa responsabile del saccheggio ambientale del pianeta, dello sfruttamento del terzo mondo da parte delle multinazionali, della globalizzazione che distrugge le culture tradizionali e native, dello scambio asimmetrico, della desacralizzazione del mondo.
Ma, per fortuna, la realtà spirituale, teologica e storica è molto più complessa delle semplificazione di Stephen Bannon, di Rodney Stark e, sulla loro scorta, di Antonio Socci.
Iniziamo dal termine “giudeo-cristianesimo” che si ha l’impressione sia usato dai catto-cons con un positivo significato del tutto speculare all’uso negativo che ne fanno neopagani, nazisti e nicciani di vario genere.
Come ci ha ricordato, in una corrispondenza privata, l’amico e storico Franco Cardini, i “giudeocristiani” erano ottimi ebrei che, giustamente, avevano riconosciuto il Messia in Gesù di Nazareth ma che volevano continuare ad essere ebrei nonostante quel che dicevano Barnaba e Paolo. Essi, già ferocemente perseguitati dagli ebrei durante la tragica “ribellione messianica” di Bar Kokheba, in occasione della terza guerra giudaica sotto Adriano imperatore tra il 132 ed il 135, sono poi spariti gradualmente verso il IV-V secolo, anche perché col Cristianesimo al potere e relativa repressione per tutto quel che non era niceno-efesino-calcedoniano era impossibile essere legittimamente qualcosa di diverso, tanto è vero che nell’area dell’impero ex-romano, le Chiese cristiane, diverse da quella niceno-efesina-calcedoniense, sono state salvate dall’Islam (quello che per Bannon sarebbe il nuovo “fascismo”). Ecco perché, a parte quella parentesi, non è mai esistito storicamente il “giudeocristianesimo”, il quale quindi si rivela essere soltanto una costruzione ideologica ad uso del pensiero conservatore occidentalizzante (5).
Per smorsare l’entusiasmo alla Socci per il pensiero catto-conservatore di Bannon come per quello di Rodney Stark, è consigliabile cimentarsi con la critica di Jacques Le Goff alla tesi del medioevo quale culla del mercato come lo abbiamo conosciuto con la modernità (diciamo “come conosciuto nella modernità” perché mentre gli scambi commerciali sono sempre esistiti, tanto nell’antichità che nel medioevo, il “libero mercato” compare, gradualmente, sulla scena storica solo con la modernità e, guarda caso, insieme, non in opposizione, allo Stato livellatore e razionalizzatore).
E’ importante rileggere quella critica giacché persino un intelligente conservatore come Giulio Tremonti, arguto critico del mercatismo quale ultima ideologia millenarista dell’Occidente, ha molto equivocato comparando anacronisticamente l’attuale realtà dell’iper-regolamentazione eurocratica – la quale è figlia dello Stato moderno in via di trasformazione nel Super-Stato Europeo che pretende di imporre con le sue direttive perfino la “giusta “ lunghezza dei cetrioli o delle banane, per non parlare degli ingredienti della pizza! – con la frammentarietà territoriale, cetuale, giuridico-consuetudinaria e comunitaria del medioevo, caratterizzato dai suoi innumerevoli balzelli e dalle sue innumerevoli taglie ad ogni pedaggio cittadino o feudale che rendevano impossibile lo svilupparsi del mercato (6).
Ma almeno Tremonti dice giusto quando rammenta la frammentarietà medioevale come impedimento al nascere del mercato nel senso moderno del termine.
Le Goff ha spiegato che il medioevo non è stata epoca favorevole al mercato nel senso inteso dal liberismo economico, perché il mercato ha bisogno di uniformità, razionalizzazione, legge e non consuetudine, sistemi monetari e di misura universali e non diversità di pesi e tradizioni. Quindi quando i conservatori alla Burke, alla Russell Kirk o alla Rodney Stark, ed in genere i catto-conservatori, magnificano una presunta continuità storica tra la Cristianità medioevale e la modernità anglo-americana essi mentono sapendo di mentire oppure stanno prendendo un granchio colossale.
«Secondo Karl Polanyi – scrive Le Goff – nella società occidentale l’economia non possiede una specificità autonoma fino al XVIII secolo. A suo avviso essa è incorporata (embedded) in quello che chiama “labirinto delle relazioni sociali”. Ritengo che la sua tesi si applichi alla visione del mondo medievale, che non lascia spazio al concetto di economia (…). L’assenza di un concetto medievale di denaro va messa in relazione con la mancanza non solo di un ambito economico specifico, ma anche di vere teorie economiche – gli storici che attribuiscono un pensiero economico ai teologi scolastici o agli ordini mendicanti, in particolare ai francescani, commettono un anacronismo. (…). Dal momento che, pur in mancanza di riflessioni specifiche, un ambito come quello dell’economia esiste al di fuori della consapevolezza che chierici e laici ne hanno, o meglio non hanno, ribadisco la mia convinzione che l’uso del denaro nel Medioevo sia da inserire nell’economia del dono: la subordinazione delle attività umane alla grazia di Dio riguarda anche il denaro. A tal proposito, mi sembra che l’impiego “laico” del denaro sia stato condizionato da due concezioni specificamente medievali: l’aspirazione alla giustizia, che si ripercuote nella teoria del giusto prezzo, e l’esigenza spirituale della caritas. (…). Se il denaro ha progressivamente cessato di essere maledetto e infernale, per tutto il Medioevo esso è rimasto tuttavia quanto meno sospetto. Mi è sembrato infine necessario precisare, sulla scia di importanti storici, che il capitalismo non è nato nel Medioevo e nemmeno si può considerare quest’epoca precapitalistica: la penuria di metallo pregiato e la frammentazione dei mercati hanno impedito che si creassero le condizioni adatte. Quella “grande rivoluzione” che Paolo Prodi colloca nel Medioevo, a mio parere sbagliando, si verificò soltanto nei secoli XVI e XVII. Nel Medioevo né il denaro né il potere economico sono arrivati a emanciparsi dal sistema globale di valori proprio della religione e della società cristiana» (7).
Non è solo lo storico francese, di nota formazione laica repubblicana, ha puntualizzare la falsità della tesi del medioevo culla del mercato capitalistico. Molto prima di lui, un altro grande storico – storico dell’economia –, questa volta cattolico, più conosciuto per la sua vita politica che quale studioso di notevole spessore, parliamo di Amintore Fanfani, ebbe a confutare tale tesi.
«Per Fanfani – scrive Lorenzo Ornaghi citando l’opera dello studioso aretino “Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione del capitalismo” – le origini del sistema capitalistico vanno sì collocate nel momento dell’irrompere della Riforma protestante, ma, per essere comprese sino in fondo, sono necessariamente da inquadrare muovendo dalla fase storica in cui la Respublica christiana viene lacerata. Se per Weber l’affermazione sociale della logica appropriativa capitalista ha come presupposto la diffusione dell’etica protestante, a giudizio di Fanfani la frantumazione della Respublica christiana – e, dopo di essa, l’accantonamento di ogni idea di humana civilitas, vagheggiata per esempio da Dante – è invece l’evento cruciale da cui è provocato l’allentarsi di quelle regole etiche che devono disciplinare e orientare le attività economiche e sociali. Al progressivo separarsi di etica ed economia, il capitalismo aveva così potuto autoproporsi con successo come un sistema guidato prevalentemente o soltanto dal tornaconto individuale e da un’azione economico-sociale non sottoposta ad altri limiti che non fossero la sicurezza e la proprietà altrui» (8).
Sai ben chiaro: nel medioevo non esisteva alcuna realtà sociale idilliaca e la distanza tra dominatori e subalterni, fossero essi i feudatari ed i contadini oppure le borghesi comunali ed il proletariato cittadino, era notevole. Ma Fanfani si riferiva alla concezione ideale per la quale l’economia non era né poteva essere separata dall’etica cristiana che significava soprattutto Caritas. Sicché la pressione ecclesiale e sociale faceva sì che perfino dinastie di usurai, come gli Scrovegni, usassero del maltolto per costruire ospedali, scuole e case di ricovero per i poveri oppure per abbellire la città con opere artistiche da esse commissionate. E questo – attenzione! – non per spirito di filantropia, come fanno oggi molti ambigui personaggi tra i quali ad esempio un Soros – ma per riparare penitenzialmente al male sociale fatto, sperando nella misericordia di Dio ai fini della propria salvezza eterna.
Del resto, Franco Cardini, in un piccolo quanto ottimo e pregevole libro, ha spiegato come le condizioni sociali delle classi subalterne sono sempre peggiorate – soprattutto nel passaggio dal medioevo alla modernità – ogni qual volta il Cattolicesimo ha indietreggiato (9).
Molto ci sarebbe, poi, da dire circa l’immagine idilliaca che Bannon propone del periodo della Belle Époque precedente la prima guerra mondiale. Innanzitutto egli trascura che le cause più autentiche del primo conflitto globale erano tutte proprio nelle pieghe di quello sviluppo capitalista che, presuntivamente improntato al “giudeocristianesimo”, era in procinto di realizzare il paradiso in terra. Bannon dovrebbe ripercorrere la storia delle tragedie della prima e della seconda industrializzazione, le ripetute e gravi crisi finanziarie che hanno accompagnato le due rivoluzioni industriali – si pensi solo a quella disastrosa del 1873/1879 – ed alle quali si credette di poter porre rimedio mediante il gold standard globale che invece, solo per dirne una, contribuì, insieme ad altri fattori, alla grande iper-inflazione tedesca del 1920-23. Per non parlare di come quel capitalismo “giudeocristiano” fosse in realtà costruito sullo sfruttamento coloniale del resto del mondo da parte delle potenze europee che, proprio per questo, in concorrenza tra loro andavano ponendo le basi del futuro deflagrante conflitto. Insomma in Bannon c’è tutta la retorica del capitalismo apportatore di pace, prosperità e benessere universali laddove invece la storia ci parla di altro, di ben altro e, soprattutto, di una altra narrazione che con la Caritas cristiana non ha nulla a che fare.
Bannon, sulla scorta della storiografia di uno Stark, dimentica che la Belle Epoque è stato il periodo nel quale la rivoluzione moderna, iniziata con Lutero e proseguita con l’illuminismo sulla punta delle baionette napoleoniche e nel segreto delle logge massoniche, poteva ormai dichiararsi vincitrice della “superstizione cattolica”, dell’“oscuro medioevo”, mentre la stessa Chiesa, privata del suo Stato in Italia, era diventata del tutto marginale sulla scena della politica mondiale ora orientata verso prassi ed assetti secolarizzati e completamente refrattari ad ingerenze “clericali”.
Un grande Papa, Pio X, ed il suo altrettanto grande successore, Benedetto XV, colsero proprio in quella refrattarietà, all’apporto di Pace della fede cristiana, la remota causa spirituale, teologica ed insieme storica, del “guerrone” imminente, come lo chiamava per l’appunto Papa Sarto.
Quel che però è grave è che a dimenticare queste cose, sull’onda del suo entusiasmo bannonniano-trumpiano, è anche Antonio Socci: perché certe cose da cattolico dovrebbe ben conoscerle.
Bannon, inoltre, dimentica che il periodo fulgido della seconda industrializzazione, nella seconda metà del XIX secolo, – non in controtendenza ma in coerenza con il liberismo riedito nella sua forma austriaco-marginalista dopo che in quella fisiocratica e smithiana aveva trovato nel marxismo un inaspettato figlio, tentato dal parricidio – fu anche quello dello sviluppo dei nazionalismi, volti alla conquista dei mercati, e che fu proprio il nazionalismo, inaugurato dall’imperatore giacobino Bonaparte, ad introdurre, nell’identificazione dell’umanità e della giusta causa solo con quella propria, la nozione del “nemico assoluto”, contigua e non contraria, come ha dimostrato Carl Schmitt, a quella di umanità, in tal modo distruggendo l’ordine gius-internazionale nato a Vestfalia nel 1648 che si basava sugli Stati nazionali intesi quali soggetti giuridici paritari di un globo terracqueo eurocentrico ancora in larga parte coincidente con l’Europa cristiana erede della tramontata Cristianità medioevale. Sicché affermare che i totalitarismi del XX secolo abbiamo rotto l’incantesimo liberale ottocentesco, anziché sottolinearne la loro diretta filiazione anche ideologica, è un’altra colossale balla.
Come, circa le argomentazioni storiche sollevate dal Bannon-Stark-pensiero, ancora, corrispondendo ad una sollecitazione dello scrivente, ha osservato Franco Cardini: «al solito, si sottovaluta o s’ignora o non si comprende l’autentica rivoluzione della Modernità, tra fine XV e XVIII secolo: l’individualismo e il progressivo primato dell’economico-tecnologico in quanto mezzo di procacciamento in tutto il mondo della forza-lavoro e delle materie prime entrambe necessarie all’avviamento del sistema produzione-consumo-profitto e relativa ruota dei dannati (il cosiddetto “scambio asimmetrico” nell’economia-mondo). Tutto ciò ha progressivamente eliminato sia il bisogno di Dio sia il senso del limite: questo è, eufemisticamente, il “processo di secolarizzazione”; questa è – come diceva Giovanni Paolo II – la Grande Apostasia dalla quale è nato tutto il resto; questa è la società prometeico-faustiana. Rodney Stark chiama tutto ciò “giudeocristianesimo” ma il cristianesimo non c’entra: dal tardo Quattrocento, col trionfo dell’Io (quando dalla parola Dio è caduta la “D”, diceva Giovanni Paolo II in italiano) perfezionato nel Settecento dalle piene espressioni dell’ateismo e materialismo pratico, la Cristianità è finita. Che siano sopravvissute comunità cristiane è ontologicamente irrilevante: tanto meglio per i singoli fedeli, ma sul piano della storia immanente del mondo ciò non cambia nulla. Detto ciò, il resto della polemica viene azzerato per obiettiva insufficienza e inconsistenza storica».
Vorremmo aggiungere, alle osservazioni di Cardini, che l’altro grande equivoco sul quale tenta di reggersi il pensiero conservatore anglo-americano sta nella, spesso inavvertita dai cattolici alla Socci, confusione tra la nozione moderna di “individuo” e quella cattolica e tradizionale di “persona”. Mentre quest’ultima trova base addirittura nello stesso dogma cristiano trinitario, sicché l’uomo può dirsi persona proprio perché Persona nelle relazioni intra-trinitarie è Dio, l’individuo è un concetto astratto ed irrelato concepito dal razionalismo moderno in contrapposizione/giustapposizione con lo Stato leviatano. Mentre la persona è sempre definita dal suo essere in relazione con l’altro – relazione familiare, comunale, professionale, nazionale, ecclesiale, etc. – sicché essa è sempre concreta, spirito anima e carne, l’individuo al contrario è solipsista e per questo senza autentica consistenza effettuale.
Questa invalicabile differenza spiega perché mai pur essendo il Cristianesimo fede di salvezza della singola persona, tale salvezza, al tempo stesso, non è conseguibile – salvo gli imperscrutabili disegni di Dio – al di fuori del Corpo Mistico di Cristo ossia al di fuori di quella Comunità gerarchica che è la Chiesa apostolica.
Sin dalla creazione, secondo la Rivelazione, Dio ha voluto l’uomo in relazione con il suo simile, ad iniziare appunto dalla donna, e non in uno “splendido” isolamento individualistico. Un altro motivo, questo, per il quale è insostenibile l’accordo sic et simpliciter tra Cristianesimo e liberalismo. Quanto or ora spiegato rende possibile comprendere perché mai il Cristianesimo, affermandosi, non ha rotto con il comunitarismo sociologico, benché lo abbia rimodulato secondo spirito cristiano, tanto è vero che il pensiero teologico-politico della Patristica, prima, e della Scolastica, dopo, non ha mai negato l’appartenenza, nella relazione inter-personale, del singolo cristiano alle comunità naturali nelle quali veniva al mondo o veniva a trovarsi nelle vicende della vita. La Cristianità, proprio per questo, mentre si adoperava per la salvezza personale dei fedeli, si realizzava sociologicamente parlando come l’apogeo dell’organicismo comunitario. Prima che la modernità, con il mercato e lo Stato livellatore, venisse a sopprimere le concrete libertates medioevali in nome della moderna Libertè astratta.
L’essenza del liberalismo/liberismo non è affatto il “personalismo”, sempre improponibile senza il comunitarismo, ma l’individualismo. L’individualismo non è affatto, né teologicamente né storicamente, la conseguenza della valorizzazione cristiana della “persona umana”, come pensano i liberali. L’individualismo è l’espressione socio-economica di ciò che in filosofia è il “soggettivismo” e che si accompagna immancabilmente al “relativismo” ed al “prometeismo”. L’individualismo è l’estrema frontiera del nichilismo ed è stato partorito, come il suo fratello gemello ossia il collettivismo, dall’immanentismo ateo della modernità.
Stephen Bannon – ci ha fatto notare l’amico Maurizio Blondet – pensa da americano sicché per lui l’Islamismo è il nemico. Anche quando l’islamismo è creato, finanziato, armato dagli stessi tati Uniti d’America, come nell’attuale scenario vicino-orientale ad iniziare dalle primavere arabe. Trump vuole rompere con la precedente linea di politica estera di Obama ma al tempo stesso non sembra, sotto questo profilo, che si possa registrare discontinuità nell’appoggio americano alle dittature religioso-fondamentaliste saudita e qatarita come anche alla protervia di dell’Israele sionista.
Giustamente l’amico Blondet ci ricorda che la politica si fa con le carte che si hanno in mano, sicché si deve comunque dar atto a Bannon e Trump di avere un coraggio tutto “americano” nel demolire l’establishment globalista, senza temere neanche la guerra civile interna. Se, però, è certo che diverse cose della sfrontatezza politica antiglobalista di Trump e del suo consigliere non possono non essere, moderatamente, apprezzate, tuttavia non è possibile far finta che alla radice dell’attuale “New Deal” americano c’è quel tipo di aporetico pensiero che abbiamo sopra esaminato.
Anche Putin ha risollevato le sorti politico-economiche della disastrata Russia post-sovietica facendo leva sulla tradizione religiosa e nazionale della sua patria. Ma, appunto, in Russia tale tradizione nazionale e religiosa esiste ed ha radici millenarie. Negli Stati Uniti no. Putin viene dalla piccola sub-nomenklatura sovietica ed è arrivato al potere maturando, gradualmente, sin dagli anni giovanili, una critica interna al comunismo fino a riscoprire, appunto, le radici spirituali e nazionali della Russia quale unico fondamento di una “giusta” politica ispirata ad una Istanza Superiore senza della Quale la stessa politica non esiste. Gli Stati Uniti, invece, sono uno Stato, federale, privo di radici spirituali, che non siano quelle spurie puritane o, nella versione conservatrice, quelle presbiteriane ossia “anglicane”. Sicché nel caso di Trump stiamo pur sempre parlando di un miliardario che, sì, certo guarda, meritoriamente, più all’economia reale che alla finanza, più all’interesse nazionale che agli interessi delle élite transnazionali, ma che poi sappia o voglia davvero tradurre tutto questo in qualcosa di più concreto per la middle class e soprattutto la working class è ancora tutto da verificare.
Luigi Copertino
NOTE
- Raymond Burke è il cardinale americano conservatore prima allontanato da Roma da Papa Francesco, che lo ha spedito a fare il direttore spirituale dell’Ordine di Malta, e poi estromesso anche da quell’incarico a causa del conflitto che lo ha visto impegnato con la direzione laica dell’Ordine medesimo la quale aveva dato via libera all’uso dei preservativi nelle sue missioni umanitarie nel terzo mondo.
- Marcello Bussi “Bannon, lo stratega di Trump è il killer del politically correct” , in Italia Oggi del 10 febbraio scorso.
- Antonio Socci “Perché tutto l’establishment mediatico internazionale ha lanciato la caccia alle streghe contro Stephen Bannon”; reperibile anche sul blog personale del noto giornalista.
- Rodney Stark “La vittoria della ragione – come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza”, Lindau, Torino, 2006-2008).
- Qui ci sia permessa una breve disgressione. Perché, pur essendo pienamente d’accordo con Cardini sul piano della storia, non possiamo – ben sapendo, come lui stesso sa, che esistono altri superiori piani non tener conto dei quali non si fa neanche un buon lavoro storico sicché questa disgressione non è affatto una polemica verso il noto storico fiorentino – non ricordare che se i giudeo-cristiani sono scomparsi dalla scena storica è troppo semplice imputare tale scomparsa alla repressione, che pure vi è stata, degli “altri cristianesimi” nei primi secoli (anche l’arianesimo o il monofisismo erano cristianesimi alternativi). Come cristiano apostolico, dunque niceano-efesino-calcedoniano, rivendico – e so molto bene che in quanto correligionario, non in quanto storico, Cardini non obietterà – l’identità tra la Chiesa apostolica ed il Suo Fondatore, Gesù Cristo, e la promessa perenne assistenza dello Spirito Santo nel cammino storica della Chiesa. Sicché, senza quella assistenza che ha garantito nei secoli la salvezza e la continuità, inspiegabile sotto il mero profilo storico-umano, della Chiesa apostolica, nonostante le persecuzioni (perché Essa ha subito anche persecuzione e non è stata solo persecutrice, come una vulgata troppo immeritatamente diffusa contribuisce a far credere) e nonostante le periodiche gravi, spesso gravissime, crisi (quelle che puntualmente hanno dato vita ai grandi, molto spesso concitati fino alla violenza, Concili della sua storia), le comunità cristiane alternative, compresa quella dei giudeo-cristiani, si sono dissolte nella storia. Laddove esse fossero state veramente guidate dallo Spirito nessuna persecuzione le avrebbe cancellate. Questa non è altro che la lezione del vecchio e saggio rabbi Gamaliele, il maestro di Saulo di Tarso, che cercava di placare lo zelo farisaico e persecutorio del suo discepolo, ancora ignaro di Chi lo aspettava sulla via di Damasco, ammonendolo, a proposito di Pietro e compagni, che se quegli uomini venivano da Dio nessuno avrebbe potuto fermarli, altrimenti si sarebbe dispersi da sé e sarebbero finti nel dimenticatoio della storia. Ed infatti, nonostante che si continui a ripetere che sarebbe stato Paolo ad inventare il Cristianesimo aprendo lo ai gentili laddove invece i giudeo-cristiani, tra i quali inizialmente anche Giacomo, si opponevano, sicché ci volle il primo Concilio della storia, quello di Gerusalemme, affinché Pietro fosse convinto che Gesù non era venuto solo per gli ebrei, recenti studi hanno dimostrato che, al contrario, colui il quale tra gli apostoli per primo aprì ai gentili, come da sempre testimoniano gli “Atti degli Apostoli” (l’episodio del centurione Cornelio e della sua famiglia battezzati da Pietro, soprannaturalmente spinto a questo passo), fu proprio il primo Papa ossia Simon Pietro. Cfr. “Pietro per primo aprì ai Gentili?” intervista di Giovanni Ricciardi a Fabrizio Fabbrini, ordinario di storia romana e di storia del cristianesimo antico, in “30 giorni”, aprile 2003. Attualmente disponibile anche su www.letterepaoline.it).
- Cfr. Giulio Tremonti “Mundus Furiosus – il riscatto degli Stati e la fine della lunga incertezza”, Mondadori, Milano, 2016; in particolare il capitolo X, pp. 72-76.
- Cfr. Jacques Le Goff Introduzione a “Il mito del Medioevo capitalista”, in Avvenire del 15.10.2010.
- Cfr. Lorenzo Ornaghi “Il capitale del Medioevo” in Avvenire del 12.12.2008.
- Cfr. Franco Cardini “Il cibo donato – piccola storia della carità”, Emi, 2015. L’opera è un’avvincente per quanto sintetica cavalcata nei secoli per scoprire i tanti eroi e le tante eroine della carità, dal “buon Samaritano” evangelico a Madre Teresa di Calcutta. Perché il Cristianesimo è una ininterrotta catena di ineguagliata dedizione al prossimo. Alla domanda che il dottore della Legge ha rivolto a Nostro Signore “Chi è il mio prossimo?” (Lc. 10,29) hanno risposto, nell’Amore di Cristo, in tantissimi, da Basilio di Cesarea che costruiva ospedali ai costruttori medioevali di hospitia per pellegrini e per gli impoveriti, dagli organizzatori delle molte, inedite e creative forme di assistenza sociale nate all’ombra delle cattedrali fino ai santi moderni della carità, Givanni di Dio, Francesco di Sales, Vincenzo de’ Paoli, Alfonso Maria de’ Liguori, Frédéric Ozanam e tantissimi altri. Ora come tutto questo possa essere costretto nel concetto, storicamente falso, catto-conservatore di “giudeo-cristianesimo” è cosa ancora completamente indimostrata. Né Bannon, né Stark, né Novak sono in grado di spiegare, nei termini di un Occidente ininterrottamente “cristiano”, questo vero e proprio, esso sì ininterrotto, miracolo d’Amore nella storia.