di Simonetta Badini
La generazione “social friendly”, eternamente connessa sin dalla più tenera età, conosce a menadito gli strumenti comunicativi che “linkano” il mondo contemporaneo. Network che permettono di scovare chiunque, giungere ovunque, e interfacciarsi con i tanto amati “vip”. Le piattaforme più in voga, oggi, sono quelle che privilegiano le immagini al testo, che danno preminenza all’apparenza rispetto a contenuti concettuali. Non a caso il social più diffusamente apprezzato è “Instagram”.
Attraverso detta piattaforma, ognuno può esporre attimi della propria quotidianità, sperando che gli “spettatori”, ovvero i propri follower, ne abbiano contezza immediata e costante, in un arco temporale indefinito, volto a legare saldamente le emozioni di ognuno al giudizio dei propri “seguaci” digitali.
Un giudizio che pesa inesorabilmente sulla propria autostima, come una “spada di Damocle”, sempre vigile e in agguato, inflessibile, prontamente disposta a commentare.
Il rischio del contraddittorio è altissimo e, di questi tempi, è meglio non esporsi al pericolo, per non ledere la propria ben confezionata “parvenza”. Ed ecco che le immagini più ricorrenti sono allora bellissimi paesaggi, piatti succulenti che stimolano sensazioni di piacere, selfie di ogni sorta, tutto rigorosamente articolato e teso alla perfezione, per non alimentare contrasti. Le giovani leve, dunque, si “espongono” principalmente al fine di captare condivisione, compiacimento, esaltazione. Quella approvazione quasi “scontata” , di cui si intuiscono gli esiti addirittura ex ante, già prima della pubblicazione delle proprie “storie”, così si definiscono i “web tale” che parlano di sé, in gergo telematico. Ci si immortala in uno spazio-community virtuale non con l’intento di esprimere libere e sentite opinioni, ma principalmente per ricevere positivi feedback e incrementare i propri “like”.
Una sorta di “politically correct” nella gestione del proprio ego, conformato alla omogeneizzazione del “pensiero unico” standardizzante.
Si tratta di storie fugaci, “usa e getta”, che passano in men che non si dica, tenendo sempre alta l’adrenalina dei protagonisti, nel vortice infinito di un apparire sconfinato.
In questo contesto illimitato e immensamente debordante si insinuano i guru del web marketing, che usano tali canali per dettare nuovi modelli, promuovendo se stessi e i brand che intendono sponsorizzare. Si tratta dei “fashion influencer”, testimonial con milioni di follower che cercano di “catturare” le attenzioni attraverso i loro “post”.
Post che spesso contengono outfit o momenti di vita quotidiana, tutti all’insegna dello sfoggio della bellezza, della perfezione, del benessere, del lusso. I “fashion influencer” rappresentano sicuramente la tendenza più cool del momento, divenendo veri e propri “esempi” per gli adolescenti, che si identificano in quelle “fantastiche” realtà: invidiabili, fatte di piaceri smisurati e opulenza.
Questi nuovi “eroi mediatici” sono spesso entità che dal nulla, in tempi molto celeri, diventano popolarissimi, raggiungendo successi inusitati, che tutti ambiscono a emulare.
Il loro appeal sta proprio nel fantastico mondo che divulgano, mostrando ed esibendo le loro vite, le loro splendide case, ostentando esistenze fatte di sfarzi di ogni genere.
Famiglie “fantasy” che diventano riferimento per i più giovani, affascinati dal loro status, i quali si rendono estremamente disponibili ad assorbire ogni messaggio proveniente da quel mondo.
I social, dunque, diventano strumenti strategici di “indottrinamento”, riuscendo con estrema duttilità a penetrare le menti più vulnerabili e permeabili di milioni di ragazzi, sedotti da quelle esistenze edulcorate, distanti anni luce dagli ordinari problemi della “normalità”, dalle inevitabili sofferenze umane, dalla realtà.
Un vivere parallelo, quindi, che allontana dalle responsabilità, dalla socializzazione “in carne e ossa”, creando atomi “autopoietici”, fluidi, individualistici, il cui fine primo è il personale illimitato benessere, spesso appagato da acquisti compulsivi, da ogni forma di piacere “tout-court”.
Una generazione plasmata, “fantasiosamente modificata”, che ha sicuramente bisogno di “nuove cure”, di quegli antidoti valoriali ed etici in grado di ricondurre gli animi a una dimensione più sostenibile, moralmente accettabile, superando quei condizionamenti, subdolamente trasfusi, che impediscono scelte libere e consapevoli.