di Roberto PECCHIOLI
Nessuno è più schiavo di chi si crede libero senza esserlo. L’aforisma di Goethe, tratto dalle Affinità elettive, è la sintesi della civilizzazione contemporanea. Drogati di presunte libertà, convinti di vivere nel giardino delle delizie delle opportunità, delle scelte autonome ed individuali, siamo diventati liberi schiavi, burattini in mano a un sistema che ci spreme, dirige e orienta. Il grande meccanismo, la potentissima sovrastruttura dalla quale siamo dominati, è la pubblicità.
Pubblicità in senso proprio, diretta, relativa alle nostre scelte commerciali di esseri obbligati al consumo, ma soprattutto propaganda, induzione a condotte, atteggiamenti, idee, stili di vita, convincimenti; per imitazione, coazione a ripetere, sovraccarico di esempi e modelli comportamentali. Chi comprese la deriva che si andava profilando fu Guy Debord, con il suo fondamentale La società dello spettacolo. Nella quarta tesi del saggio, il pensatore francese, dopo aver accolto l’idea marxiana dello spettacolo come inversione della vita, ne dà la seguente definizione: lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini. Dunque, il potere si serve dell’intrattenimento per trasmettere messaggi attraverso un sofisticato meccanismo di orientamento che possiamo chiamare pubblicità, o propaganda, nel senso introdotto da Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud.
Forme di propaganda, pubblicità o indottrinamento sono presenti dall’inizio della storia, ma non si era mai toccata la capillarità contemporanea, la pervasività che raggiunge ogni gesto della vita, né erano state mai state mobilitate scienze, saperi, conoscenze multidisciplinari, finissime intelligenze, sino a dispiegare un apparato che impregna ogni ambito della quotidianità di miliardi di esseri umani. Un piccolo esempio: già diversi anni fa, degli amici si dichiaravano stupefatti del comportamento del proprio figlio di pochi anni, tutt’altro che teledipendente, infastidito sino a crisi di pianto dall’interruzione dei messaggi pubblicitari televisivi e dalla ripresa della normale programmazione. Un’ inversione: per il bambino, lo spettacolo era la pubblicità. Il mezzo diventa il messaggio, a conferma delle intuizioni di Marshall Mc Luhan, vi si sovrappone sino a sovrastarlo, piegandolo alla volontà di chi lo dirige.
Naturalmente, il figlio dei nostri amici pretendeva con foga di ottenere immediatamente le merci pubblicizzate, confondendo la realtà con lo spettacolo. Bersaglio colpito, dunque, da parte dei signori della pubblicità. In questo senso, la nostra convinzione, che non pretende di essere una scoperta originale, né di assurgere a verità sociologica, ma si pone come constatazione e allarme, è che la pubblicità, nelle sue varie forme, è un potente veicolo di regresso civile, individuale e comunitario.
Partiamo dalle osservazioni di due studiosi assai diversi tra loro, l’antropologo Arnold Gehlen e Konrad Lorenz, biologo, zoologo e fondatore dell’etologia, ricerca comparata sul comportamento animale e umano. Con accenti diversi e muovendo da premesse assai distinte, essi convergono su una tesi: l’uomo è l’unico essere in grado di differire i propri istinti, rimandare, contenere le pulsioni che lo animano, entro certi limiti controllare anche le proprie esigenze più materiali. Gehlen lo chiama esonero (entlastung), con significati per la verità più ampi, ma è un fatto che l’uomo è capace di dettare a se stesso tempi e ritmi delle proprie azioni. Egli non mangia indefinitamente come gli animali, sa rinunciare a qualcosa in vista di un obiettivo futuro o di un principio morale, è in grado di sottomettere il piacere immediato a criteri di opportunità, di etica, esaminando e giudicando le situazioni concrete in cui è coinvolto in base a valutazioni complesse. Sa esercitare, in misura individualmente e culturalmente diversa, la temperanza, l’autocontrollo, sottomettendo a giudizio e, in varia misura, padroneggiando gli istinti. E’ in fondo questo il significato della razionalità umana e il senso della sua natura di animale politico, compresa da Aristotele.
Attraverso l’apparato che chiamiamo pubblicità (spettacolo, intrattenimento, propaganda, ecc.) l’uomo postmoderno regredisce allo stato infantile, un bimbo capriccioso che vuole tutto e subito, non sente ragioni, si muove ed agisce in base all’impulso immediato, alla reazione istintuale, al riflesso condizionato, eterodiretto, azione, risposta e retroazione (feedback), non diversamente dall’animale, come dimostrato da mille esperimenti, a partire da quello di Ivan Pavlov sui cani. La triste lezione di Freud è stata applicata dal nipote Bernays, inventore di campagne pubblicitarie basate sulla persuasione psicologica indiretta, cui si deve l’uso nel significato odierno del termine propaganda.
Riducendo l’uomo alle sue pulsioni animali, il fondatore della psicanalisi riconobbe come unico movente umano il principio di piacere (lustprinzip). La pubblicità prende sul serio la fosca profezia trasformandoci, attraverso un condizionamento massiccio, un bombardamento di immagini, sollecitazioni, ripetizioni, atmosfere tese ad alimentare il desiderio, in esseri volubili, schiavi del presente, regrediti all’istinto. Tutto e subito. Non diverse furono alcune parole d’ordine del 68, da vietato vietare a “che cosa vogliamo? Vogliamo tutto!”. I due slogan erano collegati e fu svelto il capitalismo a cambiare pelle, farsi antiborghese e permissivo al fine di soddisfare i desideri, lavorando per crearne ogni giorno di nuovi.
Con l’avvento dei social media si è enfatizzata la necessità di esibire i propri comportamenti indotti, soprattutto gli acquisti e i viaggi, ma anche il cibo e gli incontri. I “consumi vistosi” analizzati da Thorsten Veblen, da ostentazione dei ceti abbienti si sono trasformati in fenomeno di massa. Il risultato è la banalizzazione triviale di un concetto filosofico di George Berkeley, il prelato irlandese del XVIII secolo: esse est percipi, essere è essere percepiti, o meglio visti, invidiati, imitati come noi stessi imitiamo comportamenti, consumi, attitudini altrui per sovraccarico di propaganda. Un’osservazione di Marcello Veneziani spiega molto del rovesciamento antropologico in atto. La maggioranza segue il vizio con lo stesso conformismo irriflessivo con cui approvava, in altre stagioni, la virtù.
Quasi tutto dipende dai modelli diffusi, il cui vettore è il sistema complesso che definiamo pubblicità. L’esito è scontato se si possiede e indirizza la grande macchina: i più seguiranno i modelli prestabiliti, specialmente se testimoniati dai membri delle classi elevate. Una volta era l’aristocrazia di sangue, poi quella del denaro, adesso bastano i divi dello spettacolo e dello sport. Mimeticamente, essi trasformano il mondo nella direzione voluta dalle cupole di potere, a cominciare dall’abbigliamento, dalle acconciature, dai gusti sino alle condotte di vita sino ai nomi da imporre ai propri figli. Anche in quell’ambito, siamo fuorusciti da ogni tradizione culturale, nazionale e familiare, per finire nella bizzarria esterofila e nel ridicolo. Lo spettacolo più la pubblicità più il globalismo masticato male riempiono l’anagrafe di Jonathan, Kevin, Chanel.
E’ il trionfo dell’immediato, della moda, cioè del bambino viziato attratto dalle luci, dai colori, dall’apparenza. Finti Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden pubblicitario. Come capiva d’istinto il figlio dei nostri amici, oggi è la vita che interrompe la pubblicità. L’intero sistema di intrattenimento globale che forma le coscienze (coscienza, che parola grossa!) è pagato dalla pubblicità, lo sport professionistico, l’offerta televisiva, perfino il sistema tecnologico. Possiamo ottenere connessioni o servizi gratuiti se accettiamo di ricevere annunci pubblicitari, non c’è più bisogno di ricorrere a messaggi subliminali. Ormai ammettiamo, ingurgitiamo, ruminiamo tutto. Un qualunque programma viene interrotto ogni dieci, dodici minuti per bombardarci di spot per almeno cinque, oltre i cosiddetti messaggi promozionali e l’auto pubblicità per le successive trasmissioni. La nostra attenzione fatalmente si affievolisce, ma hanno pensato a tutto: l’audio è più forte, i colori più intensi, i fotogrammi scorrono più veloci.
Mezzo e messaggio coincidono nella forma merce (il nuovo feticismo), ma soprattutto, nell’universo mentale che impongono. Una società senza conflitti, che pare ritoccata al photoshop, dove non ci sono i vecchi (gli anziani della pubblicità non assomigliano per nulla a quelli reali), tutti hanno disponibilità economiche in abbondanza – nel caso, ci pensa il credito al consumo- un paese dei balocchi in cui la pubblicità è l’omino di burro di Pinocchio, falsamente buono, in realtà cattivo e violento, destinato a trasformarci in asini.
La metafora è calzante: asini perché destinati alla soma (produci, indebitati, consuma e poi crepa) e per il fatto che non è previsto il pensiero critico, anzi è abolito sull’altare del gesto sommo, liberatorio ed atteso: l’acquisto, l’acquolina in bocca dinanzi all’oggetto del desiderio e la decisione immediata. Lo voglio, lo compro. Ciò non vale, ovviamente, solo per le merci, ma innanzitutto per i moventi della vita, ridotti – una profezia che si autoavvera per scelta dei potenti- al lustprinzip, il principio di piacere (immediato). Segue una rapida delusione, come nel bambino annoiato dal giocattolo. Una delusione che, prima di assumere la forma della disillusione o della riflessione, va oltrepassata attraverso un nuovo desiderio, una luce più abbagliante.
La ripetizione dei messaggi è un elemento capitale. La mente subconscia “sente” tutto. L’iterazione del messaggio è il cuore della programmazione mentale. La ricerca ha dimostrato che ciò che viene udito più volte produce accettazione e preferenza. Il ruolo della musica è essenziale, i primi ad intuirne l’importanza furono i padri della civiltà occidentale, Platone e Aristotele. Negli anni Sessanta, Jimi Hendrix affermò: “Tu puoi ipnotizzare la gente con la musica, e quando essa si trova nel suo punto più debole puoi predicare al loro subconscio qualunque cosa le vuoi dire.” Buona parte della musica rock odierna è costruita attorno ad un modello di bassi pesanti, molto più forti della melodia. Le vibrazioni prodotte da queste basse frequenze colpiscono la ghiandola pituitaria. Quest’ultima produce gli ormoni che vanno a controllare le risposte sessuali degli uomini e delle donne.
Il Tutto è organizzato da menti finissime, in grado di padroneggiare le neuroscienze, la psicologia, la fisiologia a fini di potere. I persuasori occulti di Vance Packard hanno lasciato il passo a esperti delle più diverse discipline, a partire dagli studiosi del cervello umano. Lo scopo non è vendere prodotti, ma instillare una visione generale dell’esistenza conforme agli interessi di chi comanda. Con il lessico della psicanalisi, occorre abbattere il Super Io e intronizzare l’Es, ovvero le pulsioni, l’istinto, l’animalità per abbattere il senso morale, il pensiero critico, la capacità di tenere a freno il principio di piacere. In termini junghiani, far affiorare l’Ombra, allontanando la Persona, alla ricerca di nuovi archetipi collettivi, come il Consumatore. Se analizziamo questa figura, ci sorprendiamo dei suoi caratteri negativi. Si tratta di qualcuno che esaurisce, disfa, getta e distrugge ciò che ha, ed il suo comportamento è coattivo (la forza dell’impianto-pubblicità-propaganda-spettacolo-intrattenimento) e compulsivo: dopo un consumo via al successivo, come il tabagista che accende una sigaretta dopo l’altra o il drogato bisognoso di dosi sempre maggiori.
Il congegno deve attivarsi senza indugio, compiersi senza pensiero, senza valutazione delle conseguenze, come se sussistesse una sorta di periculum in mora, un rischio nel ritardare l’atto di procurarsi un piacere. E’ una chiara regressione allo stadio infantile attraverso la rimozione progressiva del senso morale, unita alla perdita della capacità di controllare e differire le reazioni. La sottocultura del 68 la chiamò liberazione, ovvero disfarsi dei fardelli costituiti dal bene e dal male, dei comportamenti appresi, delle cautele, delle remore e dei rimorsi. Il viziato contemporaneo non ha pentimenti in quanto non rielabora il passato, non lo sottopone a giudizi etici né lo pone a modello per il futuro. Lo ignora a favore di un eterno presente. Infatti è terrorizzato da qualsiasi accenno a situazioni negative, malattia, povertà, morte, guerra, prendersi cura di qualcuno. Gli stadi intermedi di Homunculus sono la riduzione e semplificazione del linguaggio: le parole che ascolta devono essere elementari, inframmezzate da altre più difficili, arcane, provenienti da linguaggi specialistici o idiomi stranieri.
L’attivazione dei sensi privilegia le sensazioni immediate, “facili”, l’immagine deve superare la parola e ancor più ciò che è scritto. Trionfa un voyeurismo di massa che si accontenta della superficie ma pretende immagini sempre più forti, colori più intensi, sensazioni istantanee. Tutto ciò allontana il pensiero, la critica, il giudizio, per i quali vengono abolite le parole, come disseccate, e i concetti relativi, chiusi nello sbadiglio museale dei dizionari. Il telefono cellulare prima, lo smartphone poi hanno aggravato l’afasia per impoverimento del vocabolario, attraverso l’uso di sigle, acronimi, pittogrammi come gli “emoticon”. Il nome emoticon richiama l’emozione. Sembra questa l’esigenza primaria dell’uomo contemporaneo. Non più sentimenti o stati d’animo, duraturi, forti, pensati, ma semplici emozioni, stati psichici affettivi momentanei consistenti nella reazione a percezioni o rappresentazioni.
La sequenza delle emozioni forma il nuovo senso della vita, ma esse sono in gran parte provocate, indotte, eterodirette. Dunque, sono quelle e non altre in base agli scopi di chi le ha determinate. Nel caso della pubblicità, assistiamo alla caduta delle difese razionali, dei limiti e dei sentimenti morali, alla distruzione del Super Io. Le immagini sollecitano reazioni legate alla sfera del piacere, innanzitutto sessuale, le voci alternano toni euforici a accenti melliflui, intonazioni ipnotiche a espressioni soddisfatte; le frasi, elementari, hanno il compito di accompagnarci rapidamente nell’universo del desiderio anticamera della felicità. I panorami sono sempre belli, gradevoli, monumenti e opere d’arte diventano fondali, “location” per promuovere la forma merce, tutti sono felici, ben vestiti, sani, tranne gli esclusi, i paria, gli intoccabili, coloro che non seguono la giusta via acquistando quel prodotto, trascinando una vita non conforme. Costoro sono rappresentati come brutti, ingrugniti, infelici. E’ una sorta di realtà modificata, in cui vige l’adaequatio rei et publicitatis, una corrispondenza indotta tra realtà e pubblicità: bandito l’intelletto della formula di Tommaso d’Aquino.
L’atto dell’acquisto è sempre positivo, il nuovo è migliore dell’ex nuovo di ieri, invecchiato per tacito consenso e screditato dall’emozione rinnovata, una scossa elettrica per milioni di servi volontari. Chi non ha denaro, pagherà, le rate sono sempre “comode”, differite nel futuro, gli importi piccolissimi. Degli interessi si tace, se non per singoli aspetti favorevoli. Un residuo moralismo ipocrita inibisce la pubblicità al fumo, ma non sfuggono alla reclame l’alcool, le scommesse, il gioco d’azzardo che rovina le famiglie, i profilattici. La pubblicità è l’anima del commercio, tutto è merce, uomini compresi, e deve essere compravenduto, non sono ammessi limiti o zone franche. La pubblicità è l’unica anima rimasta sul mercato. La menzogna non solo vi è consentita, ma raccomandata e premiata attraverso gli istogrammi delle vendite.
Riflettiamo troppo poco sulla verità in un mondo nel quale un unico sistema di potere possiede le tecnologie informatiche e i mezzi di comunicazione; può dunque determinare tutti i fini, ridotti a uno, il profitto unito al dominio per sé, il consumo per noi senza distinguere tra vero o falso, giusto sbagliato, bene o male. La verità prende la maiuscola e cala dall’alto. E’ vero, è bene ciò che lorsignori decidono che lo sia. Il resto è silenziato, ridicolizzato o bollato con il timbro della bugia propalata ad arte dai malvagi di turno. Fake news, il cattivo è immediatamente identificato e smascherato, espulso dal consorzio civile. Un altro aspetto dell’infantilizzazione della società: per il bimbo che non ubbidisce alla mamma, nei panni del Grande Fratello globale, è sempre in agguato il lupo o l’uomo nero.
Una volta colonizzato l’immaginario, far consumare merci, idee, comportamenti, con l’ausilio di alcune parole magiche, opportunità, libertà, scelta (!!!), è un gioco per i signori della pubblicità regresso. Ci hanno persuaso anche della gratuità di molti servizi, scacciando l’idea (altra fake news…) che se qualcosa è gratis, il prodotto venduto siamo noi. Goethe, che dal desiderio ha tratto un capolavoro universale, immaginò il suo deus ex machina negativo, Mefistofele, impegnato a comprare l’anima della vittima. Faust era assetato di piacere e di giovinezza, sì, ma anche di conoscenza. Non erano la libido, né il consumo a muovere la sua scelta. Azzerato ogni principio, obliterata ogni morale, messa da parte ogni utopia o ideologia, il Mefistofele mercatista riesce a farci pagare, indebitare, per realizzare i nostri sogni di consumo.
Ha compiuto un’impresa ancora più ardua, convincendoci che siamo noi a scegliere tra idee, prospettive, modi di vita, sistemi politici diversi. I pochi dissidenti, quel due per cento di autentici ribelli secondo Junger, non infrangono il muro di chi non si accorge che mille sono le tonalità del colore, infinite le variazioni sul tema, ma la musica è unica, uno il quadro. E’ come tra gli scaffali del supermercato, dove tanti marchi diversi offrono nella sostanza il medesimo prodotto. L’inganno mefistofelico è giunto a farci preferire il contenitore, anzi il suo nome e il simbolo (marchio, griffe, brand) al contenuto.
Un regresso drammatico che non tocca solo l’aspetto commerciale, ma ha raggiunto la politica, la religione, l’etica, il senso dell’esistenza. Non viviamo più nemmeno in un mercato, ma in un gigantesco trust, un cartello globale. I suoi signori sanno tutto di noi, attraverso l’uso e l’incrocio dei dati che forniamo attraverso i nostri comportamenti e il traffico degli apparati tecnologici di uso quotidiano, tanto che ormai la pubblicità ci perviene personalizzata. Esattamente come basta assistere a un paio di blocchi pubblicitari di una trasmissione televisiva per capire a quale pubblico è destinata, sul nostro smartphone compaiono “consigli” indirizzati proprio a noi, esclusivamente a noi. Eppure, tutto ciò non ci atterrisce né ci indigna.
Mefistofele è stato astutissimo e ha prodotto un regresso delle nostre facoltà in cambio di un pizzico di comodità. La libertà vera, del resto, è un’idea aristocratica. In compenso, i desideri sono per tutti, e indurli, crearli, costruirli non è mai stato tanto facile, per gli iperpadroni. Si è passati dal feticismo della merce alla sua industria, abbattendo il senso morale, la coscienza infelice di Hegel. Ha vinto con altri mezzi la “furia del dileguare” nella forma dell’abolizione di ogni remora, limite e tabù. La società pubblicitaria vincente ha bisogno di eliminare ogni residuo, qualunque passato o remora che ostacoli la marcia inarrestabile del Nuovo, del Progresso, del Consumo.
Per vincere, ha avuto bisogno di sconfiggere tutte le fonti di senso, le religioni, le ideologie, i principi, i sentimenti morali. Che il processo non sia neutro e abbia avuto bisogno di un’azione di lungo termine è dimostrato da un’utile strumento di giudizio, la cosiddetta finestra di Overton. Si tratta di un modello di rappresentazione delle possibilità di cambiamenti nell’opinione pubblica, che mostra come delle idee, totalmente respinte al loro apparire, possano essere poi accettate pienamente dalla società, per diventare infine legge o obbligo. Qualsiasi idea, anche la più incredibile, per potersi sviluppare ha una finestra di opportunità. In questa finestra l’idea può essere discussa, e si può apertamente tentare di modificare la legge in suo favore. L’apparire di questa idea consente il passaggio dallo stadio di “impensabile” a quello di degna di un pubblico dibattito, sino alla sua adozione nella coscienza di massa e il suo inserimento nella legge.
Non si tratta di lavaggio del cervello puro e semplice, ma di tecniche più sottili, efficaci e coerenti, tese a portare il dibattito fino al cuore della società, per fare sì che il cittadino comune si abitui a una certa idea e la faccia sua. All’inizio è sufficiente che un personaggio pubblico o politico la promuova in modo caricaturale ed estremo, e che poi il resto della classe pubblica e politica smentisca con grande foga. Ma l’idea è nata, e la danza può cominciare. Nella rappresentazione di Overton, le idee evolvono secondo sei stadi: inconcepibile (inaccettabile, vietato); radicale (vietato, ma con delle riserve); accettabile (l’opinione pubblica sta cambiando); utile (ragionevole, razionale); popolare (socialmente accettabile); legalizzazione (nella politica dello Stato).
L’uso della finestra Overton è un fondamento della tecnica di manipolazione della coscienza pubblica finalizzata all’accettazione da parte della società di idee precedentemente estranee e permette l’estirpazione dei tabù. L’essenza del metodo sta nel mutamento perseguito attraverso varie fasi, ciascuna delle quali sposta la percezione ad uno stadio nuovo dello standard ammesso fino a spingerlo al limite estremo. Ciò comporta uno spostamento della finestra, ed un dibattito ben orientato permette di raggiungere la fase ulteriore. La premessa indispensabile è la capacità di controllo dell’opinione pubblica. Non si possono conseguire risultati siffatti senza essere i titolari dei meccanismi di formazione delle coscienze: pubblicità, intrattenimento, spettacolo e, naturalmente, istituzioni.
Chiunque può verificare, assistendo in televisione a un vecchio film nelle ore meno interessanti per i pubblicitari, che i valori, i principi, le idee base, i modi di vivere vigenti e presentati come “giusti” sino a qualche decennio fa erano del tutto opposti rispetto a quelli odierni. I film, i dibattiti, gli articoli dei giornali mainstream (la schiacciante maggioranza), i discorsi dei personaggi che orientano l’opinione pubblica si muovono concordemente nella medesima direzione, quella del libertarismo estremo, del mercato sovrano, della fine della famiglia, della tolleranza acritica, dell’esaltazione di ogni novità imposta dall’apparato tecnologico, industriale e finanziario. E’ questo l’impianto di potere che chiamiamo pubblicità, volto a creare un sentire comune che trasborda la società e milioni di persone a ritenere vero, buono e giusto ciò che fino a ieri era falso, male e sbagliato. Se passano determinati messaggi e si trasformano in patrimonio dei più, non è per caso: si tratta di un’operazione studiata, costruita a tavolino, voluta per scopi di varia natura, riassunti nel termine dominio.
Tentiamo una dimostrazione a contrariis. Immaginiamo di disporre degli strumenti culturali e giuridici, del controllo dei mezzi di comunicazione e delle università. Potremmo decidere di svolgere una campagna per sconsigliare l’aborto, anche senza cambiare di una virgola le leggi vigenti. Potremmo ridicolizzare facilmente l’idea che maschio e femmina non siano una costruzione culturale, come sostiene l’ideologia del genere (gender), ma un dato di natura, ribadendo che la famiglia è formata da uomo e donna. Potremmo diffondere il principio che la sessualità debba essere esercitata in ambito coniugale, o che la privatizzazione di tutto non sia il miglior modo di organizzare l’economia. Avremmo financo la possibilità di avviare campagne con le quali si sconsiglia di credere a tutto ciò che proviene dal potere, comprese le nostre stesse idee. Non ci sarebbe difficile mettere in campo artisti, intellettuali e solidi argomenti volti a dissuadere dall’uso di droghe o alcool. Potremmo revocare in dubbio i dogmi dell’economia e ogni altra idea dominante. In pochi anni avremmo dalla nostra la maggioranza dell’opinione pubblica.
Se il potere fa il contrario, se l’“impianto”, come lo definiva Heidegger, va in direzione opposta, è segno che esiste una volontà precisa , imposta attraverso complessi meccanismi e passaggi, più o meno quelli analizzati da Overton. La massa, tuttavia, specie se interrogata singolarmente, portata a ragionare e prendere posizione, sente o almeno intuisce che così non va. Ma nulla cambia. Il motivo non sta solo nella potenza dispiegata dal nemico, dalla pervasività dell’apparato, ma nella più grande delle sue vittorie: aver fatto passare ciò che accade come ineluttabile, un destino, un dato di natura previsto dal Progresso, confinando pensiero critico, dissenso, ribellione nel recinto dell’anacronismo e dell’ignoranza.
Occorre imparare a non credere, fondare, come esortava Giuseppe Prezzolini, una sorta di Società degli Apoti, quelli che “non se la bevono”. Nello stesso tempo, è urgente che un numero crescente di persone comprenda che il significato delle parole chiave imposto dal potere è la sua menzogna massima. Progresso, libertà, liberazione, tolleranza, democrazia, mercato, significano per lorsignori il contrario preciso di ciò che ci costringono a credere. La pubblicità, nell’accezione allargata che abbiamo tentato di esprimere, è il meccanismo principale attraverso il quale riconvertono i nostri cervelli, appropriandosene, privatizzati come tutto il resto. Se le nostre idee, scelte, gusti sono dirette da loro, significa che non siamo più proprietari di noi stessi.
Progresso è dunque regresso, libertà schiavitù. L’ illuminismo esaltò la ragione e il libero pensiero, contrapposti all’asserita dogmatica religiosa. Altri dogmi si sono sostituiti ai vecchi senza salvare l’uomo, reso più schiavo di prima: delle passioni, degli istinti e, vivaddio, dei “superiori”. Non ci stanchiamo di citare una frase del più liberale dei liberali, Friedrich Von Hajek, ne La via della schiavitù: chi possiede tutti i mezzi, determina tutti i fini. Vogliamo davvero che, attraverso tecnologia e apparato di pubblicità e propaganda, possiedano anche noi? Da antimarxisti di tutta la vita, evochiamo l’autore del Capitale. Lo schiavo di oggi, non diversamente dal proletario del secolo XIX, non ha da perdere che le proprie catene. Il problema è che è non sa di averle. La pubblicità, la società dello spettacolo, la grande macchina la cui anima è l’abolizione della verità, affermano che è libero come non lo è mai stato. Pubblicità regresso, ingannevole, abuso della credulità popolare.
ROBERTO PECCHIOLI