(Andrea Cavalleri)
La civiltà.
Il termine civiltà proviene dalla parola civis, “cittadino” ed esprime l’attitudine a vivere in città.
Il significato profondo del termine ricalca molto bene il suo significato letterale: una comunità estesa che, travalicando l’interesse del singolo e lo stretto legame di sangue, ha scelto di convivere in nome di ideali condivisi.
Non per nulla l’aggettivo opposto a “civile” è “villano”, abitante delle campagne, termine che evoca lo scenario antico del bruto solitario, della famiglia, o del clan, che si arroccava in un lembo di terra per sostentarsi e difendersi dal resto dell’umanità, considerata con diffidenza e giudicata ostile.
Il cittadino invece utilizza la ragione per confrontarsi con gli altri suoi simili, riflette su di sé e su tutti indagando la natura della persona umana, ne scopre le caratteristiche ricorrenti e decide che può condurre una vita di gruppo, pur nella diversità dei singoli, in nome del comune destino che chiama esseri di pari dignità a mete condivise.
“Il mio futuro non è diverso dal futuro della città”, pensa il cittadino, e nel momento in cui si assume la responsabilità del futuro suo e della città (che in greco si chiama pòlis) nascono insieme la civiltà e la politica.
Non può sfuggire che alla base di questa nobilitazione dell’uomo, da bruto a civile, stia la dialettica dei rapporti umani tesa a evolvere dal principio della forza (kràtos) al principio della legge (nòmos).
E neppure può sfuggire che la concezione della legge informerà tutta la vita della città con le sue realizzazioni concrete: leggi diverse non solo producono relazioni umane diverse, ma persino case e monumenti diversi.
A seconda della genesi della legge seguirà lo sviluppo della civiltà.
Legge che può essere una scoperta della ragione, quindi legge naturale espressione di una religione civile, oppure rivelata, quindi legge divina, espressione di una religione trascendente. Nei casi più virtuosi la legge rivelata coincide con quella naturale.
Certamente le leggi rivelate appaiono come delle meta-leggi che vanno specificate e applicate al dettaglio nella vita della pòlis, ma lo spirito della legge divina getterà una luce costante sulla norma positiva.
In ogni caso, qualunque ne sia la genesi, la regola di vita comune, cioè la legge, sta alla radice del superamento dei rapporti basati forza bruta (o legge della jungla) e quindi all’origine della civiltà.
La corruzione.
Ecco qui sotto un celebre periodo di Platone, tratto dal libro VIII della “Repubblica”:
… Quando un popolo divorato dalla sete di libertà si trova ad aver coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade che i governanti pronti ad esaudire le richieste dei sempre più esigenti sudditi vengano chiamati despoti.
Accade che chi si dimostra disciplinato venga dipinto come un uomo senza carattere, un servo. Accade che il padre impaurito finisca col trattare i figli come suoi pari e non è più rispettato, che il maestro non osi rimproverare gli scolari e che questi si faccian beffe di lui, che i giovani pretendano gli stessi diritti dei vecchi e per non sembrar troppo severi i vecchi li accontentino.
In tal clima di libertà e in nome della medesima, non v’è più rispetto e riguardo per nessuno.
E in mezzo a tanta licenza nasce, si sviluppa, una mala pianta: la tirannia.
L’antico filosofo motiva questa sua previsione (o osservazione) col ragionamento che ogni eccesso produce l’eccesso opposto.
Nel contesto di questo articolo è invece più pertinente osservare che maggiori gradi di libertà corrispondono a minor presenza della legge. Meno norme vengono percepite come maggiori possibilità, cioè maggior libertà.
Ovviamente si prescinde da un approfondito e corretto concetto di libertà, che non è mai un’assoluta assenza di vincoli, e si intende la libertà così come la intende “il popolo assetato” di Platone: la crescita incontrollata di opportunità, senza tenere in conto se queste possibilità siano utili, inutili o dannose.
Se la civiltà si fonda sulla legge, la rimozione delle norme (anche per un malinteso senso di libertà) riporta alla barbarie, al trionfo del kràtos sul nòmos, alla legge della jungla.
Nessuna sorpresa, dunque, che l’esito finale sia la tirannia: non occorre nessuna spiegazione specifica e non serve invocare nessun meccanismo occulto; fuori dalla legge il più forte si impone!
Il prosieguo di questo articolo vuole mostrare come nei tre ordini della società (economico, politico e religioso) sia in vigore il mortifero eccesso di libertà, che ci ha già condotto alla tirannia della forza bruta e ci sta incatenando a un regime incivile di caos senza fine.
L’economia.
E’ ironico che l’addio alla civiltà economica si autodefinisca “liberismo”.
Non potrebbe esistere termine più consono con la tesi di questo articolo del termine “liberista”.
E gli economisti ed operatori di matrice liberista in effetti chiedono “deregulation”, accantonamento della norma, anche se non specificano mai in favore di cosa o di chi.
Nei fatti, il libero mercato è già stato abbondantemente ubriacato dai dispensatori di libertà e presenta alcune caratteristiche significative.
In primo luogo il libero mercato è process-oriented (questo a detta non dei critici, ma dei sostenitori e propugnatori stessi del liberismo). Ciò significa che lo scopo del mercato è interno a se stesso, le (poche) regole che vigono non hanno altro fine che facilitare le operazioni del mercato stesso.
Questa caratteristica evidenzia l’anarchia economico-liberista rispetto agli altri ordini della società (politico e religioso) con una destrutturazione dell’organismo della pòlis che dovrebbe vivere grazie al contributo armonioso di tutte le sue componenti.
Particolarmente raccapricciante è l’assenza di scopi superiori all’attività del mercato, ad esempio il benessere delle persone, in vista del quale il mercato stesso è sorto. I liberisti considerano dannosi i vincoli esterni al mercato, anche se imposti per il benessere delle persone.
Una seconda caratteristica consiste nell’individualismo estremo dell’attività economica liberista.
Sempre a detta dei liberisti, l’egoismo individuale è il miglior stimolo per l’efficienza del mercato, tenendo conto che la concorrenza avrebbe il potere di indirizzare l’individualismo ad un risultato complessivamente vantaggioso.
Anche se i liberisti stessi ammettono che il monopolio è uno degli esiti possibili del mercato (così ad esempio Murray Rothbard) e quindi nessuno garantisce la presenza di una concorrenza efficiente, ad essi basta l’affermazione di principio per insistere con la loro insana dottrina.
Eppure Adam Smith, uno dei padri del liberismo, nel “Abbozzo de La ricchezza delle Nazioni” rileva l’importanza della divisione del lavoro, con l’esempio dello spillo, che se fatto al 100% da un uomo solo gli impegna un anno, mentre una squadra di lavoratori organizzati ne fa 36.000 al giorno.
Fatti i conti, cioè totale spilli prodotti diviso il numero di lavoratori, risulterebbe che ciascun uomo della squadra ha prodotto 730.000 spilli all’anno.
E’ questa la realtà?
No, la verità è che nessuno di loro ha prodotto neppure uno spillo, perché ciascuno ha condotto solo un’operazione, un segmento del processo produttivo.
Dunque l’unica conclusione corretta è che una squadra di 18 elementi ha prodotto 1.314.000 spilli in un anno. Come si può dire che questa sia stata un’operazione individuale? Il fondamento stesso dell’economia è la divisione del lavoro e questo implica che l’economia sia necessariamente, se non proprio socialista, per lo meno un’attività sociale e non individuale.
L’individualismo, al contrario, mina il concetto di squadra, cioè di lavoro collettivo e collaborativo e alla lunga conduce alla perdita della divisione del lavoro, e quindi alla povertà.
Terza caratteristica, sempre affermata dai liberisti stessi, è il trade-off tra equità ed efficienza: tanto più sarà efficiente il mercato tanto meno sarà equo e viceversa.
Qui si capisce a chi sta a cuore la dottrina liberista: se, privo di leggi, il mercato diventa un mare in cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo, sarà lo squalo a preoccuparsi di avere sempre accesso ad ogni zona di caccia.
La tanto vantata “efficienza” che il libero mercato produce, va a vantaggio quasi esclusivo dei pesci grossi, come si nota dallo spaventoso e sempre crescente divario di possessi tra le sparute minoranze più ricche e le immense folle più povere.
Con un’immagine suggestiva si può sintetizzare così la dottrina liberista: i lupi vanno dalle pecore e dicono loro che le devono magiare, per il loro bene, per l’equilibrio del gregge.
Ma è vero che in tanta licenza liberista si sviluppa la mala pianta della tirannia?
Fanno luce i due premi Nobel per l’economia, 1972 e 1998.
Il teorema dell’impossibilità di Arrow afferma che, dati certi requisiti coerenti con l’etica liberale (individualista e utilitarista), non è possibile determinare un sistema di votazione che preservi le scelte sociali.
Successivamente, Amartya Sen ha dimostrato che, in uno stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà, possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti.
Le scelte sociali non sono garantite, ma un unico individuo potrebbe avvalersi di tutti i suoi diritti… come la si può chiamare?
Ai liberisti la risposta.
La politica.
La politica ha compiuto una virata rivoluzionaria, tralasciando l’obiettivo dell’utilità collettiva e passando a occuparsi dei diritti individuali soggettivi.
Il colmo è stato raggiunto con le dottrine iperliberali che definiscono inesistente la società ed ente reale il solo individuo.
Non si capisce bene come possa esistere l’individuo da solo, dato che l’uomo è per natura costitutiva “animale sociale” e che da solo, per altro, non è neppure in grado di nascere.
Ma non c’è bisogno di descrizioni degli esiti di questa rivoluzione politica perché le previsioni di Platone si realizzano ogni giorno sotto gli occhi di tutti.
Un risvolto paradossale è che, in nome dei diritti dei singoli e quindi di sparute minoranze, gli adoratori della democrazia liberale opprimono senza scrupoli le maggioranze schiaccianti, che restano così prive di voce e di rappresentanza.
Anche in questo caso, i politici ottusi che non si curano di salvaguardare l’organismo armonico della città, ma solo di accrescere le presunte libertà per il “popolo assetato” non fanno che mancare al loro compito primario di difendere i deboli, spalancando la porta a vari generi di tirannia.
Si potrebbe dire che vengono concessi i diritti a chi grida più forte, ma la funzione “gridare” non è appannaggio del popolo (le manifestazioni di piazza vengono sempre più ignorate) ma dei media, che “gridano” ciò che vogliono i loro proprietari.
La cosiddetta “opinione pubblica”, che tanto pesa in democrazia, è quindi appannaggio della minoranza dei super ricchi che posseggono giornali e TV.
Se è decaduta la politica, nel senso di creazione della legge, si è corrotta ancor più l’applicazione della legge nel sistema giudiziario.
Il diritto del vecchio ordine si riproponeva di giudicare i fatti conosciuti nella loro verità (ovviamente verità processuale, limitata al documentabile secondo criteri ragionevolmente stabiliti).
Il nuovo ordine, quello anglosassone sempre più diffuso, è invece uno scontro tra parti.
Anche qui si nota la logica della forza soppiantare quella del nòmos, il processo equivale a uno scontro di pugilato, mentre la corte viene ridotta a un ring con il giudice-arbitro.
Non è raro che vinca il più forte e non chi ha ragione; chi può pagare gli avvocati migliori, le perizie più convincenti e talvolta, persino, chi riesce a procrastinare il giudizio finché la parte avversa non si ritira per mancanza di soldi.
Il risultato complessivo delle riforme, politiche e giudiziarie, è la rimozione della legge dalla coscienza civica del popolo. Se infatti la norma è autocratica, soggettiva, transeunte, pressoché arbitraria e non discende dall’ordine morale, ovvio che venga percepita come un intralcio temporaneo, regolato da puri rapporti di forza.
Lo Stato diventa vigliacco, forte coi deboli e debole coi forti.
Il popolo diventa profittatore, fin dove può.
I sostenitori di queste riforme si sono spesso appoggiati al concetto che fossero più civili rispetto ai sistemi passati.
Ma abbiamo visto all’inizio che la civiltà è un’altra cosa: l’esatto contrario.
La religione
La manifestazione più vistosa della corruzione religiosa non sta nella decadenza delle singole religioni, ma nell’affermazione dell’opportunismo religioso.
Esistono due schemi di comportamento: o si sceglie l’azione e si pagano le conseguenze, oppure si scelgono le conseguenze e si paga l’azione.
L’eccesso di libertà ha trasformato la scelta religiosa in una giustificazione a posteriori dell’atto,
un modo per scegliere l’azione e non pagarne le conseguenze (più che altro illudersi di non pagarne le conseguenze).
Ad esempio il giovane vuole fornicare, ma la religione di famiglia glielo vieta. Ed ecco che, in nome della libertà religiosa, egli si reca al supermarket delle religioni e ne sceglie una che gli consenta di fare ciò che gli aggrada. Naturalmente poiché la scelta di una religione presenta molti risvolti e rischia comunque di produrre impegni fastidiosi, il mercato dell’offerta religiosa ha approntato dei prodotti sospensivi, che permettono di temporeggiare senza di fatto scegliere nulla.
Tra i prodotti di questo tipo un grande successo ha la religione “agnostica”.
Dal punto di vista della civiltà questo fenomeno è persino più grave dell’avvento di religioni false, perché rimuove il nòmos alla radice, cioè dall’orizzonte delle finalità.
Il livello religioso, nell’ordine della società, ha infatti il compito di additare le mete, il senso e lo scopo della vita.
Privata delle sue nobili finalità, la vita diventa la corsa di un bruto, tanto più violenta quanto più è frustrante nella sua impossibilità di appagamento. Appagamento che viene negato da due circostanze: il non aver ottenuto le cose desiderate e, seconda e ancor più grave, aver ottenuto le cose desiderate.
Una vita senza scopo è terribilmente triste, ed è l’esperienza che stanno facendo milioni di persone, al punto che nell’occidente (ex) opulento i suicidi sono il triplo degli omicidi.
Anche in questo campo, l’abolizione della legge in favore della (pseudo) libertà, porta alla tirannia.
In un primo momento tirannia di se stessi, delle proprie passioni insaziabili e dei propri capricci, tirannia della noia e poi del nichilismo.
Non per nulla il primo e unico precetto della legge satanica è “fa’ quel che vuoi”.
Ma non è da escludere una successiva e più severa tirannia oppressiva, se si vuol credere alla lettera di Pike a Mazzini: Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni, l’effetto dell’ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria.
Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l’adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell’ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!
A livello di civiltà, o per meglio dire di anti-civiltà, queste poche pagine hanno cercato di prospettare chi siamo e dove stiamo andando.
Forse è il caso di domandaci, come civiltà, quanto ci resta da vivere.