Minima Cardiniana 478/5
Domenica 28 luglio 2024, XVII Domenica del Tempo Ordinario
Santi Nazario e Celso martiri
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Luigi Copertino, Drieu La Rochelle. Il socialismo, il fascismo, il totalitarismo, Solfanelli, Chieti, 2024, euri 12,00
Di Pierre Drieu La Rochelle – uno degli intellettuali più anticonformisti della Francia della prima metà del Novecento – il libro di Luigi Copertino ricostruisce la vicenda politica ed esistenziale di “anarco-fascio-comunista” e di “profeta” della crisi della civiltà europea. Inquieto testimone della decadenza moderna dell’Europa, Drieu ha creduto che il totalitarismo politico, rosso e/o nero, potesse riaprirle la via del recupero della Tradizione attraversando il deserto nichilista della modernità per ritrovare lo Spirito alla fine del percorso. Una speranza che non fu solo sua ma propria della migliore intellighenzia “non conforme” del secolo scorso, al ramo francese della quale diversi anni fa fu dedicato da Tarmo Kunnas, critico letterario e professore finlandese di letteratura, un bel saggio significativamente titolato “La tentazione fascista”.
Infatti quella intellighenzia, della quale Drieu fu uno dei più significativi rappresentanti, è stata certamente tentata dalla soluzione fascista della crisi europea ma non senza ammiccamenti ed incroci ideologici con l’altra Rivoluzione del secolo ossia quella comunista. Non a caso Drieu, approssimandosi il momento del suo gesto estremo del 15 marzo 1945, allorché pose fine alla sua vita reclinando il capo sulle pagine delle Upanishad indù – con un gesto che voleva essere denuncia, rifiuto e contestazione di una modernità sentita come decadenza e vuoto spirituale –, lasciò questo mondo dicendo “Je meurs communiste”. Ma, come è stato notato da Giano Accame, Drieu parlava di un “comunismo fascista”, non del fallito dogma marxista. Del resto la cosa non deve meravigliare se il poeta Robert Brasillach, suo fraterno amico, proveniente dall’Action Française ma come Drieu tentato dal socialismo fascista, ebbe ad esaltare il “fascismo immenso e rosso”.
Brasillach, a differenza di Drieu che con il suicidio si sottrasse ad un vergognoso processo, sarebbe stato fucilato dai “liberatori”. É incredibile come coloro che si dicono dalla parte giusta della storia, ieri come oggi, lo abbiamo infatti visto nel 1944 in Italia con Giovanni Gentile e di recente in Russia con Daria Dughina, sono sempre così solerti nell’ammazzare filosofi, scrittori e poeti.
Pochi mesi prima del tragico gesto, Drieu aveva scritto nel suo Diario: “In ogni caso saluto con gioia l’avvento della Russia e del comunismo […] è meglio questo che il ritorno del ciarpame anglosassone, della ripresa borghese, della democrazia rabberciata” (29 marzo 1944) ed ancora: “Bisogna augurarsi la vittoria dei russi piuttosto che quella degli americani […] I russi hanno una forma, mentre gli americani non ne hanno […] Quando si ha una forma, si ha una sostanza; ebbene i russi hanno una forma” (3 marzo 1943). Per molti il suo fu, dunque, un itinerario verso il comunismo. Eppure Drieu, in uno dei suoi libri più importanti “Socialismo fascista” (1934), aveva già spiegato che: “Me ne frego dell’uguaglianza o piuttosto la detesto come detesto tutte le cose che non esistono. Fin dal 1918 ho intuito nel comunismo russo la fucina di una nuova aristocrazia. Non mi ero sbagliato. E cerco questa nuova aristocrazia nel ‘socialismo europeo’, nel fascismo”. Per Drieu ciò che di valido c’era nella Russia comunista era il suo “dispotismo sacro”, il permanere di una identità profonda intrisa dell’eredità spirituale ortodossa, il neo-zarismo risorgente sotto parvenza staliniana. Dunque lungi da una adesione al comunismo come marxismo, per il nostro si trattava di cercare le vie idonee a ristabilire il primato della Tradizione nel cuore stesso della modernità decadente e nichilista, onde salvare l’Europa dalla dissoluzione che proveniva da Occidente.
Da lettore di Guénon, dei Vedanta, dei mistici sufi come di quelli cristiani e da estimatore del “medioevo delle cattedrali” (benché non fosse cristiano), Drieu era convinto che la Tradizione doveva far propria la Rivoluzione, con i suoi strumenti politici e economici, e quindi operare nel mondo moderno utilizzandone i paradigmi compresi, appunto, quelli socio-economici. Da qui il suo volgersi, che era lo stesso dei fascismi, al socialismo inteso come forma possibile per una società moderna che rigettasse l’individualismo borghese e ripristinasse, in forme nuove, l’organicismo comunitario. In “Socialismo fascista” egli scriveva: “Il fascismo si serve del nazionalismo per imporsi al capitalismo; in seguito turba ed altera il sistema capitalista nella misura in cui le necessità del nazionalismo lo obbligano a fare del socialismo – meno forse di quanto prometteva all’inizio, ma ben presto più di quanto vorrebbe. Di modo che ciò che all’origine unisce capitalismo e fascismo, ossia il nazionalismo, in seguito li divide poiché genera il socialismo”.
Per capire il suo “socialismo fascista” va tenuto conto del clima degli anni trenta, seguenti al crollo borsistico di Wall Street del 1929, che nelle stesse democrazia liberali costringeva alla ricerca di soluzioni statuali di interventismo pubblico nell’economia, in modo da superare il vecchio fallimentare “laissez faire” liberista e ripristinare il funzionamento del sistema di produzione industriale posto in crisi dalla contrazione della domanda, a causa della cattiva redistribuzione della ricchezza prodotta, e dalla prevalenza incontrollata della finanza speculatrice (cose, queste, che avremmo rivisto tornare a partire dagli anni ’90 del secolo scorso). Lo stesso keynesismo va inquadrato in tale contesto epocale ed infatti, pur senza essere economista e senza conoscere l’opera di Keynes, ad una soluzione di quel tipo Drieu guardava allorché, ancora in “Socialismo fascista”, scriveva: “I grandi capitalisti in Germania e in Italia si rassegnano ad essere dei commissari del popolo per l’economia ma commissari lautamente pagati […]. Non sono più i proprietari nemmeno i padroni che la critica marxista denunciava: sono alti funzionari, non per diritto di eredità ma reclutati per cooptazione, che dividono prestigio e influenza con i loro sorveglianti statali. Ecco la piega che le cose sembrano prendere al momento. La conserveranno? I fascisti … dicono di no. Noi galvanizzeremo questo organismo modificandolo – affermano – lo impregneremo del senso dei valori spirituali che abbiamo riconquistato, sostituiremo la molla del lucro con quella del dovere. In fondo essi tendono a una concezione spirituale ed estetica della società”. In sostanza Drieu approvava nel fascismo, come nel comunismo inteso in senso nazional-bolscevico e non marxista, il dirigismo che, come detto, in quegli anni non era estraneo neanche al mondo liberaldemocratico alle prese con la sua crisi.
L’ultimo accenno alla galvanizzazione fascista dei valori spirituali svela cosa in realtà Drieu cercava, dietro le soluzioni politiche fascio-comuniste. Il nostro cercava il ritorno del Sacro senza nostalgie passatiste come quelle dei tradizionalisti o dei romantici. In questo egli è stato uno dei più alti esponenti di quel fenomeno culturale, che generò le rivoluzioni nazionali e sociali del XX secolo, conosciuto agli studiosi come “Rivoluzione Conservatrice Europea”. Una cultura insieme metapolitica e politica sospesa tra l’esigenza di un ritorno alla Tradizione e l’inevitabile confronto con le coordinate politico-sociali imposte dall’epoca moderna. Consapevole, pertanto, delle leggi implacabili dell’economia, ma sempre attento al primato dello Spirito, Drieu additò nella Trascendenza la meta cui volgersi, uscendo dal deserto nichilista della modernità cavalcandone, però, il prometeismo e il titanismo.
Era una soluzione possibile e praticabile? Copertino sottolinea che lo stesso Drieu intuì il problema. Nel momento dell’esaltazione per le speranze, poi rimaste deluse, del 6 febbraio 1934 (una data mitica e simbolica nell’immaginario dei “non conformisti” d’oltralpe) quando sembrò concretizzarsi la Rivoluzione nazionale e sociale – allorché maurrassiani e comunisti si ritrovarono insieme nell’assalto alla sede del parlamento francese travolto dagli scandali finanziari e dalla corruzione nella quale naufragava la République borghese – Drieu, nel romanzo più noto “Gilles”, mette in bocca a Carentan, immagine dell’antico “sapiente” iniziato a conoscenze mistiche ed esoteriche, le seguenti parole rivolte al protagonista del romanzo, e suo alter ego, entusiasta per gli avvenimenti del secolo, onde raffreddarne le illusioni: “La politica, come la intendiamo da un secolo, è una ignobile prostituzione delle alte discipline”. In altri termini sembra che Drieu abbia intravisto la manipolazione, la “demonizzazione”, del Sacro che i totalitarismi, nei quali egli pur aveva risposto le sue speranze per un ritorno alla Tradizione, stavano mettendo in scena.
Una intuizione che diventò più concreta negli ultimi anni della sua vicenda terrena, come dimostra un suo saggio del 1939, ripubblicato in contemporanea al libro di Copertino dall’editore Solfanelli con il titolo molto appropriato di “Le radici giacobine dei totalitarismi – Bolscevismo, Nazismo, Fascismo”. In detto saggio Drieu – che da direttore della “Nouvelle Revue Française” si adoperò coraggiosamente per salvare i colleghi intellettuali perseguitati dagli occupanti tedeschi pur senza per questo disdegnare di prendere parte alla delegazione di scrittori francesi nel 1941 invitata in Germania da Goebbels – chiarì e dimostrò, innanzitutto a sé stesso, non tanto la stretta parentela ideologica di fascismo e comunismo, risalente al giacobinismo settecentesco, che egli aveva già intuito, quanto l’“immoralità”, come non esita a scrivere, della politica totalitaria. Negli anni tragici della guerra questa “immoralità” apparve in tutta la sua evidenza a Drieu, che infatti nel 1943 si dimise dall’incarico di direttore dell’importante rivista culturale parigina per dedicarsi soltanto alla ricerca spirituale mentre osservava, ormai con disincanto, il consumarsi definitivo della tragedia della “Finis Europae”. Ma Il crollo delle illusioni, quando il totalitarismo mostrò il suo vero volto travolgendo la speranza, in sé onestamente coltivata da Drieu, di un ritorno dello Spirito, non fu per lui una resa o una accettazione della democrazia liberale giacché proprio nella chiosa del suo saggio del 1939, sul giacobinismo, il nostro ci ha lasciato una profetica ammonizione sulla sempre aperta possibilità di un ripresentarsi del totalitarismo.
Copertino mette in evidenza questa ultima “profezia” di Drieu, non adeguatamente notata dai suoi estimatori. Il libro, infatti, ripercorrendo l’inquieto percorso esistenziale e politico dello scrittore francese, vuole essere, nella parte finale, anche l’occasione per disincantare le illusioni del dopoguerra, in particolare di quelle del cattolicesimo liberale, quando mancò l’intuizione, che invece come detto fu propria di Drieu, per la quale il “totalitarismo” non è solo quello statuale, conosciuto nella modernità, sicché esso è capace di assumere forme libertarie e virtuali, non per questo meno oppressive, più adatte al post-moderno. Forme nuove ed inedite, quelle della “quarta rivoluzione industriale”, magnificata, con i toni dell’apoteosi millenaristica, dal potere finanziario apolide, che si riunisce ogni anno a Davos, e dai media al suo servizio. Forme nuove che, tuttavia, sono l’esito ultimo e maturo delle vecchie forme. Si tratta del “totalitarismo della dissoluzione”, additato per la sua pericolosità dal filosofo cattolico Augusto Del Noce, molto più capace di domino dei precedenti hitleriani e staliniani. Un neo-totalitarismo in veste liberale, libertaria e globalista che coincide con la “società liquida” dei nostri anni. Ed è forse in questa conclusione che sta il valore profondo del libro di Luigi Copertino, ossia nella capacità dell’opera, sulla scorta di Drieu, di disincantare la retorica del liberalismo occidentale il quale si presenta come il parto migliore della storia dell’umanità laddove invece è soltanto la maschera di poteri totalizzanti ormai globali ed incontrollabili.