REDDITO DI CITTADINANZA. L’EFFETTO PELTZMAN.

di Roberto PECCHIOLI

 

Il titolare di una start-up tecnologica al servizio della galassia Amazon, il colosso della vendita e distribuzione online stabilmente inserito tra le dieci corporazioni più capitalizzate al mondo, ha così spiegato il suo successo: “le innovazioni da noi introdotte consentono di svolgere con 180 dipendenti il lavoro che ne richiedeva 30.000 ai nostri clienti”. Anche ipotizzando che una parte dei posti di lavoro e delle professionalità perdute vadano a ricollocarsi a supporto dell’azienda “vincente”, il rapporto è drammaticamente sbilanciato. Le tecnoscienze applicate al lavoro distruggono, insieme a tante altre cose del vecchio mondo su cui avanzano come caterpillar, milioni di posti di lavoro che non saranno mai recuperati, a differenza delle precedenti rivoluzioni industriali.

Nel loro piccolo, si fa per dire, i centri commerciali azzerano cinque impieghi per ciascuno che ne creano, in genere precario, malpagato ed a bassa protezione sociale. L’epoca nella quale siamo entrati controvoglia può essere definita variamente: Jeremy Rifkin, già all’alba del millennio, parlò di società senza lavoro. Al di là di qualche formula fumosa, tipo “lavorare meno, lavorare tutti”, cara a certi settori della vecchia sinistra, tuttavia, nessuna soluzione convincente è stata sinora proposta. Scartata l’ipotesi luddista, ovvero vietare o distruggere ricerca ed innovazione, respinta la gioia neo liberale dell’uomo-Amazon, secondo il quale quei 30.000 posti, corrispondenti ad altrettante risorse umane senza volto “dovevano essere perduti”, la politica tace e lascia campo libero alla ragione economica strumentale padrona della tecnologia, cioè agli spiriti animali del globalismo. Del resto, in un’epoca abbandonata dalla morale ed appiattita sul pensiero tecnico, vale la legge di Gabor, il fisico ungherese che teorizzò la scissione della scienza e della tecnica dall’etica e dalla stessa politica: tutto ciò che è possibile fare, qualcuno lo farà, senza riguardo ad effetti e conseguenze.

Il sociologo Domenico De Masi, già teorico dell’ozio creativo nella società postmoderna, ha pubblicato recentemente un corposo saggio dal titolo provocatorio Lavorare gratis, lavorare tutti. Prima ancora di estendere i tentacoli a migliaia di figure professionali molto qualificate (ma è questione di pochissimi anni), la rivoluzione silenziosa delle tecnoscienze già dispiega i suoi effetti creando un sistema produttivo in cui il dominio tecnico è così pervasivo e potente da abolire di fatto la più antica delle attività umane, il lavoro. Un fatto rivoluzionario senza precedenti, un sogno antico che si avvera in forma di distopia, l’esito biblico della disobbedienza dell’uomo al comando divino, o del furto di Techne agli dei narrata nel mito greco di Prometeo.

Il fatto è che una società senza lavoro, oltre le immense ricadute etiche, antropologiche, di senso della vita e di utilizzo della massima risorsa della creatura-uomo, cioè l’intelletto, significa, banalmente quanto drammaticamente, generazioni prive di reddito monetario, probabilmente di schiavi con necessità delle catene. Teorici liberali come Von Hajek ed i viennesi avevano intravvisto il problema e suggerito di attribuire forme di sussidio in denaro allo scopo di evitare rivolte popolari. Un’attitudine penosa e strumentale, in linea con il sistema di valori mercantili da essi propugnato. Con maggiore sincerità, Irving Fisher, economista e statistico contemporaneo di Keynes, propose provocatoriamente l’helicopter money, ossia la distribuzione alla folla di banconote, dall’alto ed a caso. Adesso Domenico De Masi ci richiama a suo modo alla realtà, consapevole che questi sono, come quelli di Spengler, gli anni della decisione. Lavorare tutti, ma lavorare gratis? Si riapre il dibattito sull’opportunità – o la necessità- di forme di integrazione o sostituzione dei redditi più o meno generalizzate.

Il governo attuale, more solito, si è limitato a pannicelli caldi come terapia per curare una malattia degenerativa: il mediocre, modesto, equivoco “reddito di inclusione”. Occorre attrezzarsi da subito, riflettere, prendere posizione poiché quello del lavoro mancante e del reddito relativo sarà un tema centrale del futuro prossimo. Tentiamo allora di affrontare qualche aspetto del problema, partendo da una premessa che chiameremo effetto Peltzman.

Sam Peltzamn è un economista e sociologo di Chicago che nel 1975 mise a rumore il mondo scientifico dimostrando, come dire, l’eterogenesi dei fini. Studiò il codice stradale statunitense, il cui articolato era stato fortemente ampliato con minuziose prescrizioni volte alla sicurezza, accorgendosi che le misure prese non avevano minimamente ridotto incidenti, vittime, danni. L’ eccesso di regolamentazione e di tutela non raggiunse i suoi obiettivi. L’effetto Peltzman fu poi osservato nell’ambito delle normative antifumo, nella medicalizzazione di ogni aspetto della vita, nelle restrizioni sull’uso di alcolici e sostanze psicotrope. L’uomo medio diventa meno attento, perde il principio-responsabilità e si adagia, con effetti opposti a quelli sperati. E’ un rischio che diventerà massimo allorché si tratterà di attuare qualcosa che somigli al cosiddetto reddito di cittadinanza. Pure, lo scenario macroeconomico in cui l’aggregato reddito da lavoro avrà inesorabilmente il segno meno, con aspettative ulteriormente negative (l’outlook) e moto accelerato, obbligherà a prendere provvedimenti.

Una delle possibilità è quella di assegnare forme di reddito indipendente dal lavoro prestato. Oltre gli scenari antropologici, esistenziali, morali e spirituali, la decisione non è rinviabile. Si tratterà di stabilire il quantum, i destinatari, i criteri, le forme e le modalità pratiche, ma la via sembra segnata, tracciata dall’avanzata della tecnica. E’ la soluzione, o si rischia un nuovo effetto Peltzman? Diamo per scontata la risposta in termini morali ed antropologici: il lavoro è nel destino dell’homo viator, viandante della vita che modifica la natura fin dal mito di Prometeo. L’uomo è la tecnica, e la tecnica è l’uomo, o meglio lo era. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Eschilo poteva affidare al suo eroe tragico, nel Prometeo Incatenato, un’affermazione potente, oggi anacronistica: “la Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità” (anànke, il destino ineluttabile). Attraverso gli strumenti tecnici, l’uomo si emancipa dalla Necessità e inaugura la storia, o, per dirla ancora con Eschilo, “il tempo che invecchia”.

Oggi la tecnica ha superato chi ne ha scatenato le forze, da mezzo è diventata fine, ed è l’uomo ad essere divenuto mero strumento, un essere trascurabile, fungibile, inadeguato, addirittura antiquato nell’azzeccata espressione di Gunther Anders. Gli strumenti si possono gettare, rottamare, nel migliore dei casi integrare in meccanismi più potenti ed efficaci. Tale sembra il triste destino dell’uomo, superbo dominatore della natura di cui ha scoperto molti segreti sino a restarne avviluppato, dottor Stranamore prigioniero della sua creatura.

Ma trascuriamo le immense ricadute esistenziali o filosofiche del fenomeno, restando sul terreno della politica (il bene comune) e dell’economia. Come specie e come civiltà non possiamo permetterci la fine del lavoro e la preminenza della tecnica. Sotto il profilo della ragion pratica, dobbiamo comunque valutare come riorganizzare la vita della nuova umanità, a partire dalla formazione del reddito. Cominciamo con l’abbandonare le credenze ingenue che strologano di liberazione da obblighi millenari o di gioiosa riconquista di una dimensione da infanzia o età oro dell’umanità. Non esiste, non sarà così e non lo è mai stato.

C’è invece il rovesciamento dell’ipotesi fordista degli alti salari. All’alba della grande industria, un secolo fa, ad operai ed impiegati dovevano essere riconosciute retribuzioni relativamente elevate, a ristoro della gravosa disciplina di fabbrica e soprattutto per incoraggiarne la propensione al consumo. La Ford T, la mitica Lizzie, fu acquistata anche da quelli che l’avevano prodotta in catena di montaggio. La quarta rivoluzione, tecnologica più che industriale, prevede invece di offrire un sussidio, una modesta sinecura per evitare tumulti e rivolte, giacché riconosce in anticipo che milioni di impieghi, una quantità incalcolabile di conoscenze, abilità, saperi e professionalità saranno perduti per sempre.  Dunque, troncare, sopire, come sapeva il manzoniano Conte Zio, e, contemporaneamente, lasciarci ingaglioffire nell’ozio, che è padre dei vizi ed è quindi gradito ai Superiori.

Non produci più, ma consumi almeno un po’ e starai tranquillo. Poi creperai, ed il potere sottintende, come il mago Giucas Casella nei suoi esperimenti televisivi “quando lo dirò io!”. La campagna pro eutanasia è in pieno svolgimento, con grande sollievo dei bilanci previdenziali, assicurativi e sanitari. Jacques Attali, l’oligarca supermassone puparo di Macron in Francia, è stato chiarissimo, nel suo sconcertante pamphlet Breve storia del futuro, affermando che la massima libertà umana è il suicidio. Non produci più, consumi risorse, dunque crepa. Somiglia sinistramente alla descrizione degli ultimi uomini di Nietzsche, tutti uguali, con i matti – o giudicati tali- che corrono spontaneamente al manicomio.

Torneremo in altre occasioni sulla natura cimiteriale del labirinto postmoderno, pensato e cucinato in ambulacri riservati, là dove splendono i grembiulini. Torniamo al reddito senza lavoro. La tesi di De Masi è che in cambio del sussidio di cittadinanza (e di fragile pace sociale), si potrà coltivare, insieme con l’ozio creativo, il bene comune, quindi restituire con una sorta di servizio civile non retribuito (obbligato?) la ri- civilizzazione del nostro mondo. Non convince e non regge, se quadro e cornice sono quelli della dominazione economica, a meno di recuperare la convivialità, lo scambio “vernacolare”, la ricostruzione comunitaria prospettata da pensatori come Ivan Illich.

Ma a chi spetterà il reddito di cittadinanza? A tutti, anche ai semplici residenti stranieri, a che età e per quanto tempo? Sarà un’integrazione, o avrà carattere sostitutivo di salario e stipendio? Potrà essere sospeso, o revocato, magari come misura contro gli oppositori? Che ne sarà delle pensioni, a quali parametri verrà riferito l’importo? Come verrà finanziato? Sono allo studio futuribili robot tax, ma ci vuole altro. Inoltre, dovrà, ragionevolmente, essere una somma inferiore, e non di poco, al salario minimo di chi lavora, altrimenti per molti sarà un comodo incentivo alla pigrizia volontaria, a non impegnarsi nello studio, nella cultura, nella formazione. Un potente effetto Peltzman dai risvolti epocali. Potrebbe persino non essere – in tutto o in parte- costituito da denaro, reale o virtuale, ma da sconti, esenzioni, benefit, buoni, ma questo dispiacerebbe ai signori dei consumi, interessati alla nostra assidua presenza nei centri commerciali.

Soprattutto, importa chi pagherà il reddito di cittadinanza, comunque lo si voglia chiamare. La risposta più ovvia è lo Stato attraverso le imposte dei cittadini e soprattutto delle società di capitali. Rischioso assai, in tempi di delocalizzazione e di scelta dei sistemi fiscali più favorevoli, e comunque, lo Stato non era diventato inutile, inservibile, non all’altezza dei tempi, una reliquia del passato oscuro, troppo piccolo per sostenere le sfide globali, troppo povero ed indebitato per permettersi spese sociali, legato mani e piedi a Bruxelles (UE), Francoforte (BCE), Wall Street (i mercati onnivori ed onnipotenti)?

Troppi interrogativi, forse, ma l’impotenza dello Stato è certificata dai vincoli esterni (fiscal compact, giurisdizioni europee e transnazionali) ed interni, come il vergognoso articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.   Eppure, lo Stato rientrerà dalla finestra dopo essere stato cacciato dalla porta seguendo le ubbie neoliberali, a meno che lo Zelig liberista non riesca ad assegnare a se stesso, alla privatizzazione del mondo anche il sostegno alle masse dei non lavoratori di tutta la vita.

A margine del reddito di cittadinanza, peraltro, dovrà essere stabilito per legge un salario minimo, senza lasciar fare, lasciar passare, come prescrive la grammatica liberista. Una delle innumerevoli leggi della nostra sfortunata repubblica impone, in alcuni ambiti, una paga oraria minima non inferiore a quattro euro. Quattro euro, consentendo così a che ne offre cinque di passare per illuminato benefattore, ma sono, calcolatore alla mano, al massimo 800 euro mensili. Vogliamo continuare così, o ci ribelleremo, con o senza forconi? Nessuno stupore se importiamo disperati ed esportiamo cervelli, competenze, capacità materiali ed intellettuali, con l’approvazione del ministro del lavoro e del presidente dell’INPS. Non eutanasia della nazione, ma suicidio deliberato, esattamente come lo ius soli.

Pure, bentornato Stato! Come farà, però, a finanziare il nuovo carro di Tespi del reddito di cittadinanza senza denaro e con il debito che aumenta ogni minuto, un tassametro impazzito che scatta a motore spento? Eccoci al cuore del problema. Non potremo fare nulla, se non rimanere immobili ad osservare la fine del lavoro, il disfacimento del legame sociale per mano di robot, cibernetica e nanotecnologie, se non recupereremo la sovranità perduta, quella economica e, naturalmente, monetaria. E’ imperativo uscire dalla trappola del debito, l’inganno massimo della finanza padrona, riprendendo in mano il nostro destino. In fondo, la sovranità popolare e nazionale è il rimedio contro l’impotenza. Occorre una nuova volontà, una frontiera da varcare, osiamo chiamarla una rinnovata volontà di potenza contro l’impotenza. Torniamo alla dialettica servo-signore: signori di noi stessi, mai sfruttatori, mai più dominati, eterodiretti. Soltanto allorché riprenderemo il maltolto della sovranità sottratta potremo affrontare l’impervio tornante della storia costituito dall’epocale mutazione del lavoro.

Giacinto Auriti lavorò una vita intera all’idea della moneta- credito, conferita, accreditata alla nascita come corrispettivo della proprietà popolare della moneta stessa, rappresentativa del lavoro e delle capacità della nazione, messa in circolazione e garantita dallo Stato. Quella è la via maestra, pur se altri preferiscono il principio della moneta debito, teorizzata dalla post-keynesiana MMT (Modern Money Theory), in grado di sostenere a debito, appunto, investimenti a lungo termine, infrastrutture, sviluppo, oltre alla spesa sociale, tutt’altro che improduttiva.

La scelta nostra è chiara, nel senso dei principi della scuola italiana di Auriti, ma sarà un tempo entusiasmante quello in cui – da padroni del nostro destino- potremo scegliere tra modelli diversi, tutti radicati nella sovranità. Ci divideremo, finalmente, su qualcosa di giusto e concreto. Quel giorno, se verrà, torneremo ad essere membri dello Stato, affronteremo con speranza di successo i signori del denaro ed i padroni della tecnica che azzera il lavoro. Solo allora non dovremo temere che da regole nuove e complesse, ma inevitabili come quelle connesse al reddito di cittadinanza, si manifesti nelle forme più varie ed impensate l’effetto Peltzman.  Quel giorno del quale non possiamo perdere la speranza potremo finalmente condividere con il sorriso sulle labbra la definizione di un grande rivoluzionario conservatore, Arthur Moeller Van Den Bruck: la democrazia è la partecipazione di un popolo al proprio destino.

 

ROBERTO PECCHIOLI