Abbiamo appreso dai giornali che l’ingegner Morandi aveva applicato “audaci innovazioni”, usato per trazione il cemento, che lavora per compressione, e da subito fu “ossessionato” dalla sua creatura, il ponte dell’autostrada sopra Genova, già pochi anni dalla costruzione vedeva il degrado tipico del cemento armato, era consapevole del pericolo, consigliava”iniezioni di resine epossidiche e di coprire tutto con elastomeri ad alta resistenza chimica”.
Che dire? Un altro esempio, purtroppo, del rapporto degli italiani con la modernità; l’adozione di una modernità già un po’ arretrata, la mancanza di conoscenze necessarie mascherata con innovazioni arditissime….
Morandi appartiene alla generazione di Pierluigi Nervi e di Gio Ponti, le nostre archistar degli anni ’60, i virtuosi del cemento armato – e virtuosi lo erano davvero, suscitavano meraviglie nelle riviste internazionali realizzando in cemento ciò che in genere, all’estero, si realizzava in acciaio.
Il punto è che l’Italia ha mancato completamente la grande stagione delle costruzioni in vetro e ferro, che nel Regno Unito, in Francia e in Germania già era sorta dal 1830: l’epoca delle grandi Esposizioni e degli edifici per contenerle, il Palazzo di Cristallo di Cristallo, le la Tour Eiffel, il Ballo Excelsior. Nessuna colpa: ci mancava la disponibilità nazionale di carbone per gli altiforni, non avevamo le miniere inglesi e dell’Alsazia-Lorena; ci mancavano le dimensioni industriali enormi delle loro ferriere, il gigantismo industriale che rendeva il prezzo del materiale abbordabile. La nostra piccolezza industriale ci ha mantenuto estranei a quel clima, discutibile ma epico, e alla sua estetica grandiosa, in cui gli ingegneri sostituirono gli architetti e usarono il ferro per costruire padiglioni di dimensioni colossali, a volta appiattita, approfittando della leggerezza dei materiali e della loro qualità fisiche per elevare “le cattedrali profane di dimensioni mai più superate”, come dice Sedlmayr: che ne elenca la “leggerezza del tutto nuova, il carattere aereo, per cui l’edificio poggia su articolazioni mobili, su punti”..
Costruzioni immani ma smontabili come lo fu davvero il Palazzo di Cristallo di Londra, di Joseph Paxton, che finita l’esposizione, fu smontato e rimontato a Sydenham. Serre e mercati (le Halles) dove “la luce entra in masse inattese”, tanto da far pensare a “chiese dove si pratica il culto della Luce”; fabbriche contenute in un “ambiente per la prima volta unico e di proporzioni straordinariamente grandi, quasi cosmiche”.
Tutto questo nasceva da uno spirito specifico. Dostojevski lo illuminò col suo genio diagnostico nel 1864: “Avrà inizio allora una nuova economia elaborata in maniera perfetta e calcolata con precisione matematica..si costruirà un palazzo di cristallo”. L’epica del vetro e ferro si estese all’estero fino oltre l’art déco, basta vedere la coerenza stilistica della Parigi di Haussmann, dove anche l’imbocco delle stazioni del Métro è un Liberty in ferro.
Da noi, l’architettura in ferro è rara. La Galleria di Milano, dove essa è usata solo nella zona aerea dei tetti, che all’estero caratterizzò le prime realizzazioni, fu così sensazionale (e costosa) che venne a inaugurarla Vittorio Emanuele II. Nessuna colpa, s’intende. Ma nel frattempo, questa stagione epica aveva prodotto – nel vasto Occidente – competenze, conoscenze e maestranze specializzate che avevano dato i ponti sospesi e i grattacieli.
Così, la coscienza collettiva italiana non ha trovato nulla di strano quando il Grattacielo Pirelli di Gio Ponti fu esaltato” “coi suoi 127 metri, una delle più alte strutture di cemento armato d’Europa”. Che è un po’ come dire (scusate se esagero), abbiamo costruito l’unico caccia-bombardiere tutto in massello di quercia d’Europa. Perché i grattacieli si costruiscono da un secolo altrove in acciaio, gabbie di putrelle. Quello è un piccolo grattacielino, fintamente moderno. Anche i suoi aedi ammettono che “la stabilità (resistenza al vento) in un edificio in cui il rapporto larghezza/altezza è così piccolo, era un problema senza precedenti per soluzioni in cemento armato”, problema che “Pierluigi Nervi risolse adottando, con una serie di accorgimenti, un sistema a gravità, concentrato nei triangoli rigidi delle due punte, coppie di piloni cavi a parete piena e nei quattro pilastri mediani ugualmente”. Insomma una geniale ed ardita soluzione per problemi che erano dovuti al materiale improprio, e con il ferro non si sarebbero presentati. Ma Nervi era un genio. Morandi palesemente no.
Questo intendo per “arretrato rapporto italiano con la modernità”. Oltretutto, il ferro costa e il cemento è economico. E come negare che Pier Luigi Nervi con esso emulò i miracoli delle “cattedrali di luce” delle Esposizioni e della Belle Epoque?
Ma io da milanese mi rattristo nel vedre a Milano le successive adozioni di “modernità architettoniche” passate di moda, il liberty poi abbandonato, il razionalismo, il gio-pontismo, e adesso la torre di Zaha Hadid, che sta già passando di moda – e che fanno di Milano una città senza stile, senza coerenza urbanistica. E questo Milano, che è la “più moderna”. Guardatevi attorno e vedete questo rapporto arretrato col la modernità, indossata come una maschera, dovunque: in tv come nella pubblicità, nel giornalismo arretrato; e soprattutto grave, nella mentalità dei politici. Il modello che tanto abbiamo avuto sotto gli occhi in questi giorni di tragedia sono i manifesti del “trasgressivo” (da quattro soldi) Oliviero Toscani per United Colors of Benetton, attraverso i quali questi padroni del monopolio da cui ricavano rendite come nel Medio Evo i gabellieri delle strade, ci fanno le lezioncine del moralismo politicamente corretto: non siate razzisti, non siate omofobi, non abbiate “tabù”, non siate religiosi, soprattutto non vi scandalizzate, perché in questo consiste la modernità – altrimenti siete vecchi.
La “Modernità” di Scalfarotto che “sposa il compagno” e si complimenta che il sindaco Sala ha fatto dipinger una stazione della MM con i colori arcobaleno; la modernità della Cirinnà, la modernità di Delrio che si occupa dello jus soli ma trascura i problemi del ponte Morandi. Che, come ha detto un ex amministratore delegato di Autostrade, “era come avere un malato gravissimo in casa, bisognoso di una badante 24 ore su 24”. Infermieri infatti ci lavoravano giorno e notte. Non è bastato, perché il cemento non è adatto a quell’opera, s’era per giunta usurato, era giunto al termine “naturale” del materiale.
La Sinistra è ormai l’incarnazione stessa di questa “modernità” mal compresa, in ritardo, ridotta alla “trasgressività” e all’’”Europeismo” perché crede la UE sia la modernità invece è la vecchiaia, una dittatura debole, dove è vietato mettere in discussione qualunque cosa, perché sennò crolla tutto come il Ponte Morandi. Ma non posso tacere che intravvedo la stessa “modernità in ritardo” in Beppe Grillo,il comico che si crede diventato sociologo e filosofo senza aver studiato, anti-industriale senza aver mai visitato un’industria, pieno di illusioni “tecnologiche” su motori ad aria compressa e simili “ecologismi”, ed ha avuto tanto successo a predicare la decrescita felice in un Meridione dove è mancata prima la crescita, magari infelice ma con piena occupazione, capitalisti avanzati e lavoro qualificato. Nessun “grillino” se la prenda – so già che mi scriveranno furenti – ma ascolti invece e rifletta, ora che essendo al governo, rischia di imporre scelte “avanzate” che sono arretrate e costeranno a questo paese come il Ponte Morandi.
Io, a 74 anni, ho la triste fortuna che non vedrò queste ulteriori modernità. Mi conforta aver rinfrescato le mie conoscenze sul degrado inarrestabile del cemento armato: fra 60 anni al massimo tutta la “modernità” fra cui ho vissuto, dalla Sala Nervi agli orrori dei palazzinari, non escluso il grattacelo Pirelli (ora Regione) sarà crollata, maceria che si sfarina, pulvis eris et in pulvere reverteris.