Riflessioni sulla Brexit – di Luigi Copertino
In questi giorni sembra che in Europa si sia scatenata l’“apocalisse”. Così l’eurocrazia ha vissuto e sta vivendo la “Brexit”. Queste che seguono sono alcune riflessioni a sangue ancora caldo. Che propongo ai nostri lettori.
- L’Inghilterra – lo si sapeva – da secoli vive nella sua regale ed altezzosa solitudine “isolana”. Già Churchill ammoniva gli alleati che gli inglesi, messi alle strette della scelta tra il continente europeo e gli oceani, avrebbero sempre preferito gli aperti spazi oceanici. Sono un popolo di corsari e colonizzatori. E tuttavia l’Inghilterra non ha mai smesso di tenere d’occhio quanto accadeva sul suolo europeo pur guardando alle vicende continentali tenendosi a debita distanza. Ma non quando ha creduto che la sua indipendenza o egemonia fosse messa in pericolo da questo o quell’attore della scena europea. In tali casi essa, l’Inghilterra, non ha esitato ad intervenire. Lo ha fatto con Napoleone. Lo ha ripetuto per due volte nel XX secolo. Quando la Germania tra il 1914 ed il 1945 è stata sul punto di affermare la sua egemonia politica ed economica sul continente europeo, l’Inghilterra non ha esitato a combatterla nelle guerre mondiali. Detto questo bisogna riconoscere che comunque, in occasione del Brexit, gli inglesi hanno dato agli altri europei una lezione di dignità ammirevole. Una lezione che ora sta agli altri, eurocrazia o meno, imitare. Questo non significa fare la Frexit, la Spagnexit o l’Italexit. Significa, invece, porre all’ordine del giorno la chiara volontà dei popoli per un’Europa diversa, vera, autentica, contro quella delle banche e non dominata dai diktat tedeschi. Su Avvenire di ieri è apparsa una ottima intervista a Giulio Tremonti (di cui è uscito l’ultimo libro “Mundus furiosus”) nella quale l’ex ministro ripropone il ritorno al progetto originario, confederale e sussidiario. Un’Europa dove “sopra” si decidono le cose di necessaria importanza comune – difesa, moneta, politica estera, etc. – e dove “sotto”, ossia a livello di Stati e comunità infra-statuali varie, si decidono le cose di interesse non comune. In modo da smetterla con una eurocrazia che ci inonda di direttive sulla lunghezza dei cetrioli e sul latte da usare nei formaggi. In effetti, se ci si ragiona, il voto inglese non è stato un voto contro la moneta unica perché l’Inghilterra non è mai entrata nell’eurozona ed ha conservato la sterlina. E’ stato un voto contro questa invadenza eurocratica e contro lo strapotere tedesco nell’UE.
- Il modello tecnocratico-tedesco che ha prevalso non corrisponde al progetto europeo originario (quello di De Gasperi, Schuman ed Adenauer) ma è sorto per una serie di circostanze storiche che hanno posto la Germania – senza la quale comunque non si può fare l’Europa – in una posizione di leadership, per via della sua innegabile forza economica. Ma il problema, non di oggi, della Germania sta nel fatto che essa, almeno a partire da Lutero culturalmente anti-romana, non è capace di vera leadership. Il principio guida della politica estera tedesca, ieri come oggi, rimane il “Deutsche über alles”. Comandare, imperare, significa innanzitutto aggregare i popoli intorno ad un comune progetto nel quale ciascuno di essi si senta parte protagonista e non colonia, vassallo, suddito della potenza altrui. Il modello storico della Germania non è asburgico ma guglielmino. La Germania non ha imparato né la lezione guglielmina né quella hitleriana e non ha ancora compreso che se si accetta di essere parte di una comunità di popoli è necessario prendere non solo i vantaggi ma anche gli svantaggi, ad iniziare, nel caso europeo, dal mettere in comune il debito (eurobond) onde fare muro, insieme, alla speculazione finanziaria transnazionale. Troppo facile dire, come dicono i tedeschi, “fate come noi” ossia tagliate la domanda interna e vivete di esportazioni: se così facessimo tutti in Europa chi poi, senza reddito a causa della contrazione interna, comprerebbe le merci altrui? Ciò che propone la Germania può funzionare solo in un assetto asimmetrico come è stato quello europeo fino alla crisi del 2009. Persino uno dei padri della scuola ordoliberale, alla quale si ispira la politica economica tedesca, Alfred Müller Arnack lo sosteneva: i Paesi con surplus – nell’eurozona attuale la Germania – devono rafforzare la domanda interna, ossia aumentare redditi e salari (non comprimerli), per agevolare le esportazioni dei partner in una reciprocità senza della quale non si va da nessuna parte.
- Esaminiamo, ora, il voto inglese avvertendo che i dati sul giovanilismo dei sostenitori del remain, come ricorderemo al punto 8), devono essere presi con prudenza. Ciò non toglie che, pur nei limiti della prudenza, non si possa ragionare sulle motivazioni elettorali dei giovani inglesi filo-Ue. Per la Brexit hanno votato i meno giovani e i ceti meno abbienti. Giovani e ricchi hanno votato per il remain. Questo vorrà pur dire qualcosa o no? I giovani, l’“erasmus generation”, avrebbero voluto il remain e si comprende. Essi sono nati nel mondo globale, non hanno conosciuto il mondo antico, sono stati educati al transfrontielarismo che, ahinoi, non è l’universalismo romano-cristiano. Gli addottorati tra di essi aspirano a lavorare nella City o nella varie sue dependance nazionali e guardano al mondo come ad una rete affaristica e di flussi finanziari. I meno addottorati aspirano a girare l’Europa per fare i pizzaioli o gli idraulici. L’altra sera in tv, in una trasmissione di commento alla Brexit, da Londra, intervistati seduti allo stesso tavolo, c’erano due giovani italiani: uno studente modello della London School of Economics, tutto inappuntabile – occhiali, giacca, cravatta, barba corta e curatissima (dava un senso di tristezza da “bravo ragazzo”: un giovane perfettamente integrato nel santuario del potere finanziario mondiale e senza alcuna ansia o velleità di un mondo diverso!) – ed una giovane proveniente dal Molise che da qualche anno fa la barista nella capitale inglese. Ecco: questo è il volto duale del nuovo mondo che i giovani difendono, un mondo dove le lacerazioni di classe tornano a farsi evidenti e dirompenti. Entrambi i giovani intervistati temevano che, a conseguenza della Brexit, i loro progetti di vita possano andare in fumo. Mi veniva da dire loro: cari miei ragazzi, cosa volete? Questo è il mondo, liquido, che difendete. Ora tocca a voi subirne le conseguenze. Prima di voi le hanno subite tanti lavoratori gettati via come inutili arnesi perché le aziende delocalizzavano. Quanti pianti sui poveri dipendenti della City che perderanno il posto a causa della delocalizzazione delle banche d’affari che abbandoneranno Londra e quanti pianti sui poveri dipendenti inglesi dell’UE che potrebbero trovarsi in mezzo ad una strada. Ma quando in mezzo ad una strada si sono ritrovati operai ed impiegati delle industrie europee, quando David Cameron ha licenziato 700.000 dipendenti pubblici inglesi, quando la Grecia è stata costretta dalla Troika, per salvare le banche tedesche e francesi, a licenziare migliaia di statali ed a svendere le sue aziende, con conseguente disoccupazione di massa, e persino il porto del Pireo, nessuno ha innalzato canti funebri in eurovisione!!! Allora ben venga che anche gli agenti di borsa e i funzionari europei provino un po’ delle “gioie” della globalizzazione eurocratica. Se si guarda la mappa del voto inglese tutta l’Inghilterra, ad eccezione della zona di Londra, ha votato per la Brexit. Si tratta dell’Inghilterra popolare, ex operaia, quella dei distretti industriali distrutti dalla rivoluzione neoliberista della Thatcher e mai più tornati a produrre dato che l’Inghilterra, a partire dagli anni ’80, diventò la nazione europea all’avanguardia nell’economia dei servizi, soprattutto quelli finanziari, e nella deindustrializzazione. Esattamente come due secoli, nella seconda metà del XVIII secolo, fu la prima nazione all’avanguardia nella Rivoluzione Industriale. Le regioni inglesi che hanno votato per la Brexit sono da sempre a maggioranza laburista. Ma il partito laburista si era dichiarato favorevole al “remain”. Questo significa che la base del Labour non ha seguito le indicazioni dei vertici del partito, nonostante che a capo di esso ci sia un radicale come Corbin e non un trasformista come Blair. E’ un po’ come se l’Emilia Romagna, l’Umbria e la Toscana votassero, in Italia, contro le indicazioni del PD, ex PCI. Gli inglesi delle Midlands ex operaie hanno votato seguendo le indicazioni dell’Ukip di Nigel Farage, insieme a conservatori nazionalisti e socialisti nazionali. Non siamo ancora alla riedizione della “Union British Fascist” del laburista sir Oswald Mosley ma poco ci manca. Questo spostamento dei ceti popolari verso i movimenti populisti è un fenomeno che si registra in tutt’Europa (se si osserva bene anche negli Stati Uniti). In Francia il successo del Front National della Le Pen ha origine nelle periferie operaie e nei quartieri piccolo borghesi. Sono i ceti popolari ed i ceti medi, quelli travolti dalla globalizzazione e dalla crisi, a decretare il loro “no” all’UE vista come strada verso la globalizzazione ossia verso la mondializzazione del capitalismo che ha rimesso drammaticamente in discussione le loro conquiste sociali ed il loro status sociale. L’UE modello globalizzazione – nonostante tutto il cianciare di “economia sociale di mercato” e di “modello renano” – si è ampiamente uniformata al dualismo sociale, ben descritto da Picketty, ed ha fatto della estrema polarizzazione tra il vertice e la base della società un portato della “legge di natura”, inevitabilmente riaprendo antichi conflitti anche razziali dato che la xenofobia ha le sue cause nella paura che lo straniero ci porti via il poco lavoro rimasto e quel poco di benessere che ancora possiamo godere. Marx è stato cattivo profeta perché non sono stati i proletari di tutto il mondo ad unirsi ma i capitalisti transnazionali mentre il lavoro è rimasto stretto all’interno degli Stati nazionali con la sola possibilità dell’emigrazione per fare concorrenza agli altri lavoratori autoctoni. Tuttavia è mia impressione che prima o poi il vecchio Marx tornerà culturalmente di moda. Il Marx che legge hegelianamente la storia come scontro escatologico tra due sole classi sociali. E poco importa se si tratta di una lettura inattendibile e viziata filosoficamente perché essa ha già dimostrato di essere capace di mobilitare forze mitopoietiche, attualmente soltanto dormienti ma che possono essere risvegliate non appena se ne presenti l’occasione. Il marxismo era stato sconfitto dalle vicende storiche del XX secolo laddove le società capitaliste erano state costrette, da forze culturali e politiche di vario genere, cattoliche, fasciste, socialiste, a venire a patti con le classi meno abbienti riconoscendo i loro diritti e trasformando gli Stati nazionali in Stati sociali per l’avanzamento sociale del ceto medio il quale si trascinava dietro quello operaio. L’ottocentesca profezia marxiana sulla “fine (comunista) della storia” fu smentita, nel secolo che abbiamo alle spalle, ma proprio il capitalismo, libero dalle sue catene – esattamente come Satana, secondo alcune rivelazioni private, sarebbe stato liberato nei nostri anni per tentare di distruggere la Chiesa – le sta ridando credibilità sul piano globale. Quel che invece più addolora è che i cattolici, a differenza di quanto essi e la Chiesa seppero fare nella denuncia e nel sostegno alla riforma sociale degli Stati nell’epoca nella quale Marx scriveva, sono oggi del tutto, o quasi, silenti su questi problemi. L’aver lavato il loro bucato nel milieu “teo” e “neo” conservatore li ha privati di ogni capacità di incidenza e analisi che non sia quella, certo anch’essa importante, anzi fondamentale, dei “principi non negoziabili”. Ma questi principi non potranno mai essere preservati se avulsi dalla difesa sociale dei ceti meno abbienti e da quella identitaria dei popoli in un rinnovato universalismo cristiano-sociale.
- Scozia: è emblematico l’atteggiamento scozzese di fronte alla prospettiva della Brexit. Certamente l’identitarismo scozzese, come quello catalano, è anch’esso un segno di rivolta contro la globalizzazione. Ma altrettanto certamente gli scozzesi guardano troppo al vicino di casa, da cui vorrebbero anche giustamente, va detto, liberarsi. Tuttavia sembrano affetti da evidente strabismo nei confronti dell’UE. Quando la Scozia votò sull’indipendenza dall’Inghilterra, poco più di un anno fa – in quell’occasione lo stesso media system che oggi incensa la Scozia il cui parlamento vorrebbe bloccare la Brexit era invece ferocissimo contro l’indipendentismo in kilt –, separarsi da Londra significava separarsi anche dalla City. Ora però che senso ha avuto votare per il remain insieme alla City? E che senso ha chiedere di rimanere nell’UE, in questa UE, per separarsi da una Inghilterra – quella descritta al precedente punto 3) – per farsi stritolare dal Leviatano di Bruxelles e Francoforte? Le ragioni identitarie, proprio perché sono importanti, dovrebbero essere meglio calibrate in certe circostanze. Se la Scozia vuol fare bene a sé stessa non deve chiedere sic et simpliciter di rimanere nell’UE ma condizionare la sua eventuale permanenza alla completa rivisitazione di tutta l’architettura europea attuale.
- Giorgio Napolitano, Mario Monti, Martin Schulz ed altri hanno finalmente gettato la maschera affermando che i popoli non devono essere chiamati a votare su certi temi e che devono essere guidati da consapevoli élite. Essi sono esponenti di quella cerchia che Tremonti, non da oggi, definisce degli “illuminati”. E’ in effetti un progetto giacobino e tecnocratico quello di prescindere dalla volontà popolare dacché il popolo è sempre per definizione ignorante, “sanfedista”, e quindi deve essere educato da minoranza attive, le sole che contano nella storia. Quando vi parlano dell’Europa come tutrice della democrazia, dell’Europa nata dal manifesto di Ventotene contro il nazifascismo, pensate a Napolitano, Monti e Schulz.
- Il progetto eurocratico – ci dicono e ci hanno mediaticamente ripetuto accorati durante questo ultimo week end – ha garantito 70 anni di pace in Europa mettendo la sordina alle sovranità nazionali sempre foriere di guerre, le guerre che negli ultimi due secoli hanno insanguinato l’Europa. Questo non è pienamente vero. Non è vero che la sovranità degli Stati porti necessariamente alla guerra. Tra il XVI ed il XVIII secolo, l’Europa aveva inventato, per mettere fine alle guerre di religione, un sistema giuridico-politico, lo jus publicum europaeum, che garantiva ciascuno degli attori sulla scena europea. Le guerre, limitate e controllate e soprattutto non di massa, intervenivano per brevi periodi al solo scopo di regolare questioni di confine o per annettere questa o quella provincia, mentre le alleanze matrimoniali tra le casate regnanti e la diplomazia spesso evitavano il conflitto. Nessuno Stato vincitore pretendeva l’annientamento dell’avversario. E’ stato a partire da quelle napoleoniche che la guerra è diventata ideologica e l’avversario divenne “nemico metafisico”, l’incarnazione del “male assoluto”, con il quale non è possibile trattare o venire a patti. Bisogna solo annientarlo, umiliarlo. Tutto questo ci è stato magistralmente spiegato da Carl Schmitt ne “Il Nomos della Terra”. Quindi non è vero che per fare l’Europa è necessario abbattere Stati o comunità minori. L’errore di Altiero Spinelli è stato proprio questo: non aver compreso che le guerre del XIX e del XX secolo non erano guerre tra Stati ma guerre ideologiche con tutta la loro carica di pericoloso millenarismo. Si illudono, poi, coloro che, come molti cattolici, credono che la fine degli Stati riapra automaticamente ad una realtà comunitaria e sussidiaria restituendoci sic et simpliciter l’assetto organicista dell’antica Cristianità. Il postmoderno è un nuovo universalismo molto diverso da quello romano-cristiano, fondato su altre prospettive che non quelle spirituali del medioevo.
- Consentitemi, a questo punto, anche una nota confessionale. Questa che ha fallito è l’Europa che ha rifiutato di dirsi di “radici cristiane” rispedendo, in modo oltretutto poco garbato, al mittente, ossia a Giovanni Paolo II, la proposta. Non mi meraviglia, perché credo alla Giustizia di Dio, se essa ora è sull’orlo della disgregazione.
- Aggiungo alle mie le ottime riflessioni di una caro amico, il magistrato e storico Francesco Mario Agnoli, che mi ha fatto pervenire via mail in una discussione tra alcuni amici in merito alla Brexit. Ecco dunque cosa ci dice Agnoli paventando la non peregrina possibilità che l’eurocrazia riesca a mettere, alla fine, la sordina alla volontà popolare: «Prendo spunto da un particolare in apparenza secondario. I risultati del referendum Brexit, dopo una nottata di exit-polls a favore del “Remain” (è successo lo stesso in Spagna. dove ha vinto il Ppe di Rajoi nonostante un diluvio di exit-polls favorevoli ai Podemos di Iglesias), si sono concretizzati verso le sei di mattina del 24 giugno. Già nel pomeriggio di quello stesso giorno i telegiornali di tutta Europa (seguiti il giorno dopo dalla carta stampata, appena ripresasi dalla ridicola batosta dei titoli e dei commenti tutti sbagliati del 24 mattina) hanno informato i telespettatori delle caratteristiche generazionali, sociali e culturali degli elettori del “Leave” e di quelli del “Remain”. L’individuazione dei flussi elettorali è un’arte difficile. Gli analisti del voto nelle elezioni politiche e amministrative dei singoli paesi, pur disponendo di numerosi dati di confronto con i precedenti, consapevoli del rischio di fare la stessa figuraccia dei sondaggisti, procedono con i piedi di piombo e di solito aspettano almeno tre o quattro giorni – a volte più – prima di rendere noti i loro risultati. Nel caso della Brexit, pur in assenza di raffronti specifici, sono bastate poche ore per sapere con assoluta certezza che gli elettori favorevoli al “Remain” rappresentano una larga maggioranza fra i giovani, fra i possessori di una laurea, i ceti metropolitani più illuminati, mentre al “Leave” rimangono gli operai disoccupati delle Midlands, gli allevatori di porci (culturalmente molto inferiori agli allevatori di pecore delle Highlands) e gli anziani di ogni categoria (tanto più percentualmente numerosi quanto più avanzata è la classe di età). In realtà l’unico dato certo (ma in Italia pressoché il solo a darne notizia, forse in chiave antirenziana, è stato l’ex presidente del consiglio Enrico Letta) è la scarsa partecipazione al voto degli elettori fra i 18 e 24 anni (36%) e quella altissima degli over 65 (83%). Unica deduzione logica: ai più giovani (la famosa generazione Erasmus) interessano assai poco tanto l’Inghilterra quanto l’Ue, mentre agli anziani interessa molto l’Inghilterra e poco l’Ue, per la quale provano insofferenza ed avversione. Forse ribrezzo. Chi ha amici in Inghilterra (che non lavorano alla City) viene informato di un prevalente clima di soddisfazione e addirittura di euforia nonostante le cattive notizie dal modo della finanza, mentre chi deve accontentarsi dei notiziari televisivi riceve l’immagine di un paese rintronato e in lutto. La notizia più frequentemente ripetuta dalle nostre tv è che tre milioni di elettori inglesi hanno sottoscritto via internet su un sito del governo una proposta di legge per rifare il referendum cambiandone le regole. Il che è come dire che circa un quinto degli elettori che hanno votato per “Remain” (16.141.241) ha un così scarso senso, non solo della democrazia, ma delle regole stesse dello Stato di diritto da ritenere corretto e auspicabile l’annullamento della volontà popolare attraverso l’introduzione di leggi con effetto retroattivo. All’incirca come se duecentomila elettori del candidato piddino Giacchetti chiedessero di rifare le elezioni a Roma perché al ballottaggio la partecipazione è stata scarsa. In ogni caso a uscirne malconci sono i referendum e la democrazia diretta. In Italia, telegiornali e talkshow si sono improvvisamente riempiti di politici, giornalisti, intellettuali, cattedratici tutti impegnatissimi a spiegare che le decisioni davvero importanti non vanno lasciate ai popoli (dove inevitabilmente prevalgono bifolchi e arteriosclerotici), ma riservate a chi se n’intende, personaggi indiscussi e indiscutibili come Napolitano, Monti, Schulz. Come detto, è questa una mera elencazione di quotidiane volgarità politiche sicché non vanno dimenticate le singolari giravolte del Movimento 5 stelle tese a rimediare a una gaffe di Grillo, che, ingannato come tanti altri dagli exit-polls della notte di passione, aveva tentato di riposizionarsi pro-remain. Con qualche imbarazzo il Direttorio ha accantonato la regola fondamentale “una testa, un voto” e dimenticato che al parlamento europeo i pentastellati fanno ancora gruppo con gli indipendentisti di Nigel Farage. Un giro di valzer che ha valso a Grillo la riabilitazione televisiva appena un gradino più in basso di quella concessa alla premier scozzese, Nicola Sturgeon. Quest’ultima ha ben meritato dall’Europa sia con l’attribuire al parlamento della Scozia l’inedito potere di bloccare con un proprio voto la Brexit, sia col riproporre, nella sua qualità di leader dell’Indipendent Scottish Party, il referendum per la “Scotthexit” dall’Inghilterra, bocciato poco più di un anno fa. Adesso raccoglie applausi allora l’iniziativa del suo predecessore era stata demonizzata in tutta Europa e le supreme autorità di Bruxelles avevano ammonito gli scozzesi che in caso di vittoria erano irreparabilmente fuori. Salendo di un piano, è forte il sospetto che la partita non sia affatto chiusa e che a Bruxelles si mediti la rivincita. Al pari di quella euro-asiatica l’Unione Sovietica Europea non rinuncia facilmente alle sue province. A differenza di quanto fecero Nikita Chruscev e Leonid Breznev gli euroburocrati non possono inviare i carri armati a rimettere in riga i riottosi, ma non sarebbe la prima volta che fanno ripetere un referendum con risultato a loro sgradito o che non ne tengono conto (basta ricordare i casi di Irlanda, Francia e Olanda). Senza dubbio questa volta la cosa è più seria e la strada irta di ostacoli perché è dubbio l’assenso del successore di Cameron al governo dalla perfida Albione, ma si tratta di guadagnare tempo e intanto di preparare il terreno, come si è già cominciato a fare con l’unanime aiuto dei mass-media e dei “mercati”, che fanno precipitare la sterlina. Quanto al tempo, ce n’è in abbondanza, dal momento che il premier britannico David Cameron, che deve farsi perdonare l’indizione del referendum, si è dimesso, ma con effetto ritardato a tre mesi, e ha già dichiarato che lascerà al suo successore (ancora da designare) il compito di presentare a Bruxelles la decisione/richiesta di abbandono. Quanto al resto la linea è dettata da Angela Merkel. La Cancelliera, calmati i bollenti spiriti di Renzi e Hollande, fautori di un taglio rapido per ragioni loro (probabilmente la speranza di essere elettoralmente avvantaggiati, come è accaduto in Spagna a Rajoi, dal contraccolpo), ha detto che non c’è fretta. Soprattutto ha precisato che, pur essendo verosimile che il governo inglese ne tenga conto, si è trattato soltanto di un referendum consultivo, quindi di una semplice indicazione, come tale non vincolante, degli elettori inglesi al loro governo. In ogni caso – ha ribadito – occorre una lunga trattativa fra il governo britannico e Bruxelles e nel frattempo “fino a che l’accordo non viene definito la Gran Bretagna resta membro a pieno titolo della Ue con tutti i diritti e i doveri”. Insomma niente esclude che fra due o tre anni i vincitori di oggi si ritrovino col cerino spento fra le dita e si accorgano che nulla è cambiato. In realtà gli altri partiti europei fautori dell’exit dei loro paesi ne sono consapevoli e, come Renzi e Hollande all’inizio prima di venire adeguatamente istruiti, ma per opposte ragioni, vorrebbero bruciare i tempi e promuovere propri referendum o, in via preparatoria, crisi di governo ed elezioni politiche a tamburo battente. Non gli verrà concesso».
- Non dobbiamo, tuttavia, alzare canti funebri se questa UE dovesse ulteriormente sgretolarsi ma sicuramente dobbiamo, nel nostro piccolo, lavorare per lasciare ai nostri nipoti almeno l’eredità culturale di un’altra Europa. Quella tradizionale, quella vera. Il resto è nelle mani dell’Eterno.
Luigi Copertino