Come l’ideologia dell’austerity sta stritolando l’Europa
di Dino Greco –
membro della direzione del Partito Rifondazione Comunista.
Luciano Gallino definisce molte delle convinzioni radicate nel “senso comune”: “idee ricevute”, vale a dire forme ideologiche che funzionano come postulati della fisica.
Queste non posseggono né dimostrazione né verità, ma si impongono per la forza ripetitiva con cui vengono inculcate con il supporto di un’incalzante offensiva mediatica.
Esse esercitano una funzione disciplinare sui nostri pensieri e sulla nostra fantasia.
E servono essenzialmente a persuadere che non esiste alternativa all’ordine di cose esistente.
L’acronimo T.I.N.A. (“There is no alternative”, “Non c’è alternativa”, appunto) è la sintesi letteraria esemplare di questo effetto coattivo.
Il copyright della formula appartiene al primo ministro conservatore inglese Margareth Thatcher, formula poi ampiamente adottata da altri politici (per esempio da Gerhard Schroder, ex primo ministro tedesco, che tradusse la frase in tedesco: “Es gibt keine Alternativen…”).
Con T.I.N.A., oggi si intende identificare quella linea di pensiero che considera il neoliberismo come la sola teoria economica dotata di scientificità e la formazione economico-sociale capitalistica come un prodotto “naturale”, metastorico, la sola realtà pensabile.
Non c’è operazione più efficace, per quanto fraudolenta possa essere, di quella attraverso la quale si persuadono le classi subalterne che la loro condizione di soggezione non è frutto di un sopruso, ma rientra in un ordine immutabile.
Essa produce infatti passività, rassegnazione, autocolpevolizzazione, rinunzia ad agire per cambiare le cose.
Compito essenziale è dunque quello di rivelare (dimostrare) il carattere ideologico di queste teorie, di “decostruire”, come usiamo dire oggi, la struttura arbitraria di quel pensiero, funzionale all’egemonia delle classi dominanti, per produrre una “nuova narrazione di senso comune”.
Questo è oggi essenziale se vogliamo evitare l’eurocapitolazione della sinistra di fronte al potere dispotico organizzato attorno all’oligarchia finanziaria europea.
Non basta invocare l’astratta bontà di un’Europa democratica: nel vuoto della sovranità della politica questo si traduce in un canto alla luna, perché il solo potere vigente ed operante è quello della finanza che governa se stessa.
L’Europa odierna esiste soltanto in virtù di un dogma monetario, di un patto liberoscambista che esautora ogni vincolo costituzionale.
Il monetarismo nella versione europea è il substrato ideologico dell’austerity, una pseudoscienza che sostiene la versione politicamente e socialmente più aggressiva – ma anche, come vedremo, più stupidamente autolesionistica – del liberismo, del capitalismo nella fase della sua superfetazione finanziaria.
Si tratta in realtà di una vera e propria guerra, sebbene combattuta con altri mezzi: un colossale processo predatorio che viene esercitato in forma violenta (considerati gli effetti sulla vita reale della maggior parte della popolazione) da parte di un’oligarchia di proprietari universali.
Il monetarismo – e la sua diretta applicazione strategica, l’austerity – è stato adottato e “costituzionalizzato” dall’Ue a trazione tedesca nell’obiettivo, sempre occultato, ma altrettanto manifesto, di smantellare il welfare, il giuslavorismo frutto delle Costituzioni e delle conquiste sociali realizzate nel secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del nazismo e dei fascismi.
Oggi il grande capitale agisce ritenendo che i rapporti di forza siano tali da consentirgli di venire in chiaro, in modo esplicito e diretto, sulla questione, affermando che il capitolo delle conquiste sociali, di impronta socialista, affermatesi nel corso del Novecento, dev’essere definitivamente archiviato.
Così, è proprio una delle più importanti banche d’affari del mondo, la statunitense J. P. Morgan (considerata dallo stesso governo Usa responsabile della crisi dei subprime) a scrivere, in un documento di 16 pagine del 28 maggio 2013, che “i sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione”. Perché lì “è forte l’influenza delle idee socialiste”. E cita, tra gli aspetti problematici, la tutela garantita ai diritti dei lavoratori e il mantenimento del welfare state.
Il suo “consiglio” ai governi nazionali d’Europa per sopravvivere alla crisi del debito è molto chiaro: liberatevi al più presto delle vostre costituzioni antifasciste.
Più precisamente ancora, la stessa democrazia parlamentare, con il suo sovraccarico di democrazia, è vista dal ghota capitalistico mondiale come un impedimento serio, dunque da rimuovere, in favore di una concentrazione del potere negli esecutivi, secondo le ben note linee programmatiche della Trilateral commition e del Gruppo Bilderberg.
Quello che nella modernità si squaderna davanti a noi non è altro che l’irriducibile conflitto fra capitalismo e democrazia.
La sola funzione delegata alla politica è di carattere gregario, ancillare rispetto a scelte che si compiono nei ben fortificati templi della finanza.
Una delle condizioni di questo mutamento nell’assetto dei poteri è la retrocessione della “mano pubblica” e il trasferimento della sovranità ai mercati, al capitale finanziario che governa senza intermediari, attraverso il proprio personale, che opera nel Fmi, nella Banca mondiale, nella Bce, nel board della Commissione europea.
Ricordate come Mario Monti, ormai prossimo alla conclusione del suo mandato di presidente del consiglio, descrisse il proprio compito di fronte al gotha della finanza Usa, a New York?
“Io sto lavorando per fare sì – disse – che chiunque governi dopo di me sia costretto a farlo entro i binari tracciati.
E’ la teoria del “pilota automatico”, che guida un gigantesco processo di privatizzazione e di mercificazione, il cui senso generale è la confisca e la messa a mercato di tutto ciò che può acquisire i caratteri e il valore della merce.
I bisogni, anche quelli primari, inscritti nella tavola dei diritti costituzionali (lavoro, istruzione, sanità, assistenza) non saranno più rivendicabili come tali.
Ma allora, cosa saranno? Saranno – appunto – merci acquistabili sul mercato. E, ovviamente, sarà onorata soltanto la domanda solvibile, cioè pagante.
Una sola merce sarà acquistata a prezzo politico: il lavoro, perché il suo valore, frutto dei rapporti di forza fra le classi– è declassato ai livelli più bassi.
L’era dei diritti tramonta inesorabilmente.
In Europa, per scelta deliberata dei governi nazionali, la cessione di sovranità nazionale è pressoché completa: dalla moneta alla politica economica, dalla politica industriale alla legislazione sociale.
In questa operazione, Mario Monti, mallevadore Giorgio Napolitano, ha svolto un ruolo fondamentale.
Monti ha inaugurato la fase più delicata del trapasso verso un governo a gestione condivisa, bipartisan, a sottolineare la perfetta intercambiabilità fra governi di centrodestra e di centrosinistra, ormai accomunati dal comune approdo al liberismo.
Il combinato disposto: costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (che ha mandato al macero l’articolo 3 della Carta e messo fuori legge il keynesismo) e fiscal compact hanno trasformato l’assetto politico ed economico-sociale del paese.
Disposizioni cogenti (Two pack e Six pack) hanno sancito regole severissime di monitoraggio delle politiche nazionali di bilancio e stabilito sanzioni automatiche per i paesi che ne violano l’applicazione.
Le conseguenze sociali sono molto chiare.
Nel mirino entrano la previdenza (pensioni), la sanità, l’istruzione e il lavoro (salari, contrattazione collettiva, mercato del lavoro, statuto dei lavoratori e, in particolare, l’articolo 18), nell’esplicito intendimento di indebolire il potere di coalizione dei lavoratori.
Una così pesante manomissione, per potersi realizzare, ha infatti bisogno di annichilire ogni capacità di difesa e di replica dei lavoratori organizzati.
Monti spiegherà che l’articolo 18 rappresenta una remora per gli investimenti esteri. Peccato che dopo la sua sostanziale abolizione (con la sostituzione del reintegro con la tutela risarcitoria) la disoccupazione (giovanile e non) ha tranquillamente galoppato e gli investimenti (esteri e non) sono crollati ai minimi storici.
L’abolizione delle pensioni di anzianità;
l’aumento dell’età pensionabile;
la modifica (in pejus) del tasso di sostituzione (vale a dire, il meccanismo di rivalutazione del montante su cui si calcola l’importo della pensione);
il passaggio dal regime retributivo a quello contributivo (a capitalizzazione);
la decontribuzione/sottocontribuzione di tante delle tipologie di un mercato del lavoro ridotto ad un discount delle braccia;
la conferma del sistema delle deroghe a contratti e leggi dello Stato introdotta dall’articolo 8 della legge Sacconi (nell’ultimo governo Berlusconi)
hanno completato lo sradicamento delle conquiste sociali accumulate lungo un trentennio di storia sindacale.
Poi è arrivato Matteo Renzi, con il suo Jobs act, a togliere di mezzo ogni paravento ornamentale e a sancire la piena libertà di licenziamento dei lavoratori. Il contratto unico a tempo indeterminato viene espunto dalla legislazione.
Non vi è più tutela “reale” dai licenziamenti.
Al suo posto c’è solo una previsione risarcitoria.
Il diritto del lavoro, frutto di una straordinaria stagione di lotte sparisce e viene sostituito dal diritto commerciale, quello che regola la transazione fra cose, poiché nel rapporto di lavoro il prestatore d’opera, il lavoratore non entra più come persona, ma come merce che produce altre merci.
Il sogno di ogni capitalista si invera: “libero padrone in libera impresa”, come “libera volpe in libero pollaio”.
Come si vede, Renzi è perfettamente organico alla Grande Riforma, di stampo limpidamente ottocentesco, sul cui modello il capitale intende plasmare la modernità.
Del resto, Renzi aveva già dichiarato le proprie intenzioni in un’intervista al Corriere della Sera del 2008, collocando in un suo ideale pantheon tre figure: Tony Blair (il distruttore del welfare britannico), Luigi Zingales (neo-mercatista friedmaniano della scuola di Chicago, autore di un libello molto reclamizzato intitolato “Manifesto capitalista”) e Pietro Ichino (il liquidatore del moderno diritto del lavoro).
Renzi ha poi dichiarato la piena adesione ai trattati europei (tutto il filotto, per intenderci: Maastricht, Lisbona, Pareggio di bilancio, Fiscal compact, Six pack, Two pack).
Occupiamoci ora dell’impalcatura, dell’architrave che regge l’edificio monetarista europeo.
Le due ganasce della tenaglia sono:
il deficit al 3% del pil
il rapporto debito/pil al 60%
Oggi il rapporto debito/pil è in Italia al 135%, con un eccesso di oltre il 60% rispetto al diktat europeo, pari a 1.000 miliardi.
Il fiscal compact impone la restituzione di questa cifra in 20 rate annuali.
Per raggiungere questo obiettivo occorrerebbe tagliare la spesa pubblica, ogni anno, a partire dal 2016, di 50 miliardi, oltre a tenere in pareggio il bilancio di esercizio.
Qualcosa di inimmaginabile, che condannerebbe l’Italia ad un regresso sociale di proporzioni immani.
Inoltre, i salassi al welfare e ai salari riducono drasticamente il potere d’acquisto e i consumi; la contrazione della domanda aggregata deprime la produzione e gli investimenti e il riflesso negativo sull’occupazione che ne consegue è micidiale.
Il saldo finale è il calo del pil che “aritmeticamente” fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre: è il cane che si morde la coda, un vero e proprio circolo vizioso che condanna ad una recessione senza scampo e brucia un’intera generazione di giovani europei.
Paradossale la “scoperta”, fatta con sorpresa e toni sensazionali dei media, che siamo in recessione.
Ora, per dimostrare che la moneta falsa del monetarismo, spacciata per ferrea legge di natura , non è altro che un imbroglio reazionario, non serve essere marxisti.
Prendiamo gli Usa, certo non inclini ad influenze bolsceviche.
Ebbene, nel momento più acuto della crisi, l’amministrazione Obama decide che il problema non è il deficit, non è il debito, non è l’inflazione, ma la disoccupazione.
Il presidente della Fed (Ben Bernankee) stampa moneta a più non posso e inonda il mercato di dollari al ritmo di 85 milioni al mese!
Per farne cosa? Per acquistare titoli del debito Usa sul mercato aperto, anziché darli alle banche, riaprendo così il credito a famiglie e imprese e lasciando che il rapporto deficit/pil salga a quasi il 12% (4 volte quello ritenuto invalicabile nell’eurozona), provocando una svalutazione competitiva del dollaro che sospinge le esportazioni.
Risultato: il pil aumenta del 4% all’anno e l’occupazione di 200 mila posti di lavoro al mese; le borse raggiungono il loro record storico.
Ovviamente c’è molto da discutere. Perché riparte un modello simile a quello pre-2007: i profitti sono al massimo storico dalla seconda guerra mondiale (l’11% del pil!), mentre le tasse pagate su quei profitti scendono del 5%, per cui l’America dei lavoratori (della classe media, come usano dire loro) ricava una fetta alquanto modesta da questo “bengodi” del capitale. E Obama, giustamente, paga ora elettoralmente dazio.
Evidentemente, siamo in un dominio capitalistico, ma quello che è interessante ai fini del nostro ragionamento è che l’Amministrazione Usa fa l’esatto opposto di quello che con immarcescibile pervicacia continua a fare l’Europa.
Seguendo la stessa pista, il governo conservatore del Giappone, esattamente come Bernankee, stampa moneta e quell’economia esce da vent’anni di stagnazione.
Il monetarismo europeo suscita critiche e persino ilarità negli economisti “liberal” statunitensi, da Joseph Stiglitz a Paul Krugman, che così commentano la pseudoscienza in auge nell’eurozona:
“Le regole dell’Ue impediscono qualsiasi seria politica industriale; l’Italia si condanna alla recessione”;
“Voi avete rinunciato a gran parte della vostra sovranità entrando nell’euro, la vostra è una sovranità limitata”;
“Voi non capite che il 12 per cento di disoccupazione è il vostro vero fallimento”.
E sui tagli:
“E’ come la medicina medioevale che pretendeva di curare i malati a colpi di salassi”;
“ Guardate che l’austerity non funziona neppure per l’obiettivo che si prefigge di ridurre il debito pubblico”.
E così via.
Del resto, c’è un’evidenza incontestabile.
Le banche italiane hanno ottenuto dalla Bce 263 mld di prestiti all’interesse dell’1%, ma il credit crunch, vale a dire la stretta creditizia per cui si negano prestiti e finanziamenti a imprese e famiglie, è persino aumentato.
Perché? Perché le banche hanno usato quei soldi per ripianare le proprie perdite e per reinvestire quei quattrini in titoli del debito, lucrando sul tasso di interesse, di quasi 5 punti più alto.
In altre parole, le politiche della banca centrale pongono le basi per un’ulteriore espansione della sfera finanziaria e per la generazione di nuove bolle speculative.
C’è una grande quantità di denaro in giro: peccato che non va dove servirebbe, ma dalla parte sbagliata. Perché? Perché non c’è un governo politico. Ormai è la finanza che governa se stessa.
Si badi, le critiche che di là dall’Atlantico vengono rivolte alla politica economica europea sono anche più dure.
Queste ultime hanno per protagonisti i teorici della cosiddetta Modern monetary theory, i cui esponenti di punta sono James Galbraith, Randall Wray, Stefany Kelton, Bill Mitchell, delle università di Yale, di Berkeley, del Mit.
La loro impostazione culturale è diametralmente opposta a quella della scuola di Chigago di Milton Friedman (le cui teorie improntate alla privatizzazione integrale furono esportate ed applicate dai Chicago Boys nel Cile di Augusto Pinochet dopo il colpo di stato del 1973), ma anche al mercatismo radicale dei nostri bocconiani (la premiata coppia Alesina-Giavazzi), o a quel Luigi Zingales autore di un libro dall’eloquente titolo: “Manifesto capitalista”.
Bene, costoro hanno bollato la teoria economica adottata dall’Ue come “ciarpame ideologico”, “puro feticismo religioso privo di qualsiasi fondamento scientifico, mascheratura di interessi predatori”.
Per la “Nuova teoria economica” americana bisogna spazzare via il feticismo delle cifre, le tavole della legge che impongono il deficit pubblico al 3%, il pareggio di bilancio, il fiscal compact, definiti “pure assurdità concettuali”.
La tesi è che non esistono tetti razionali al deficit e al debito sostenibile da parte di uno stato, perché le banche centrali hanno un potere illimitato di finanziare quei disavanzi stampando moneta. E questo “non solo è possibile, ma necessario”.
I tagli sono dunque l’opposto di ciò che si deve fare.
L’attacco frontale è rivolto contro la tesi pedestre (anche se ammantata di apparente buon senso) tanto cara ad Angela Merkel secondo cui il bilancio di uno stato deve seguire i criteri del bilancio di una famiglia, per cui non si può spendere più di quanto si dispone.
Il fatto è che una famiglia non può stampare moneta e che le regole che presiedono ad un’economia allargata non sono le stesse di un’economia familiare.
Si tratta di un neo-keynesismo radicale che da noi è stato, letteralmente, messo fuori legge.
E’ interessante segnalare come il Fmi sia stato per lungo tempo ispirato dalle teorie di due economisti, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, i quali avevano ritenuto di potere dimostrare inoppugnabilmente che l’austerity è la via maestra da seguire poiché “se il debito pubblico supera il 90% del pil diventa un ostacolo insuperabile alla crescita”.
Poi, uno scrupoloso dottorando, tale Thomas Herndon scopre, nell’algoritmo elaborato dai due premi Nobel, marchiani errori di calcolo, oltre al fatto che Reinhart e Rogof avevano non proprio innocentemente escluso dalle nazioni esaminate paesi come Canada, Australia, Nuova Zelanda, dove la crescita non era affatto penalizzata da un alto debito.
Ne seguì un vero terremoto, scuse e autocritica dei due autori. E persino il Fmi dovette rinculare su posizioni più prudenti.
Negli ultimi mesi, la scossa all’ideologia liberista viene da un economista francese, Thomas Piketty, autore del best seller internazionale Il capitale del XXI secolo (2013), che riprende i temi dei suoi studi sulla concentrazione e sulla distribuzione della ricchezza negli ultimi 250 anni.
La tesi di Piketty è che, nei paesi sviluppati, il tasso di rendimento del capitale è stato sempre maggiore del tasso di crescita economica, una circostanza che porterà in futuro ad un aumento della diseguaglianza in termini di concentrazione della ricchezza in sempre meno mani.
Piketty propone la tassazione progressiva e globale della ricchezza privata. E afferma che chi crea moneta deve poter decidere quanta va alle imprese e ai cittadini e quanta nei circuiti meramente finanziari.
Come si vede, ancora una volta il problema è politico e riguarda la composizione sociale, la natura e gli obiettivi del potere.
Ora, il Q.E. varato dalla Bce sembra in qualche modo correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
Anche la Banca centrale si è cioè decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali sul mercato secondario.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, ma anche la diga eretta per scongiurare il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è difficile prevedere che i suoi effetti si riveleranno piuttosto modesti.
La truffa del debito pubblico e il caso italiano
Fino al 1981, grazie all’intervento della Banca d’Italia, lo Stato finanziava la propria spesa a tassi di interesse inferiori al tasso di inflazione.
Se avesse continuato così, il rapporto debito-pil sarebbe stato, nel 2007, al 29% (!).
Persino se lo Stato avesse pagato tassi di interesse pari al tasso di inflazione maggiorato del 2%, avremmo avuto un debito pubblico di poco superiore al 48%.
Invece cosa è accaduto? E’ accaduto che nel 1981 Beniamino Andreatta (ministro del Tesoro del governo Craxi) e Carlo Azeglio Ciampi hanno deciso di separare la Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, sicché lo Stato, da lì in avanti, ha dovuto approvvigionarsi direttamente sui mercati finanziari.
Da quel momento il debito pubblico è esploso a causa degli interessi usurari che lo Stato paga alla speculazione.
Chi ha investito in titoli di stato ha guadagnato un 4,2% netto ogni anno, anche in anni di alta inflazione.
Questa truffa, cominciata con la lira, è continuata con l’euro e con la Bce. Su un debito superiore ai 2000 mld lo stato ne paga 80 di interessi!
Fate i conti: sono il 5%.
Se lo Stato potesse prendere il denaro in prestito dalla Bce pagherebbe interessi dello 0,15%, visto che questo è il costo del denaro ufficiale praticato dalla Bce: lo 0,15% di 2.000 mld sono 3 mld, non 80, corrispondenti al fardello che abbiamo sulle spalle!
Lo Stato regala dunque agli speculatori 77 mld l’anno perché ha deciso di approvvigionarsi dagli strozzini (Ferrero).
Proseguiamo.
Dal ’92 il bilancio dello Stato comincia ad avere un avanzo primario (che è l’avanzo di bilancio che lo Stato ha al netto degli interessi).
Da quel momento, la spesa pubblica diventa più bassa delle entrate: lo Stato spende meno di quanto gli entra.
Contemporaneamente, Giuliano Amato, Presidente del consiglio, blocca la scala mobile, azzera le regole della contrattazione, decide la svalutazione della lira (nella misura del 25%) e vara una manovra da 92 mld, fra nuove entrate e tagli che ledono profondamente il welfare pensionistico.
Da oltre 20 anni l’economia gira al minimo perché la benzina è deviata nei serbatoi della finanza internazionale (Ferrero).
L’intera operazione, come è lampante, ha un significato interamente politico.
Cosa fare?
La Lega cerca di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista.
Il M5S cavalca l’onda, con un profilo più basso, facendo della pura e semplice propagandistica uscita dall’euro (il referendum) la chiave di volta della situazione.
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), per proteggere i salari, per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, per pubblicizzare banche e asset nazionali.
Tutto il contrario.
Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
E noi?
Noi nel congresso abbiamo detto: disobbedire ai trattati! Fare leva sulle contraddizioni del monetarismo Ue a trazione tedesca, sottrarsi al ricatto del moderno “mago di Oz”, di un’Ue che gioca con carte truccate.
Ma cosa vuol dire, in concreto, disobbedienza?
Come si declina questa linea, al centro ed in periferia, vale a dire nelle regioni, nei comuni, nelle politiche di bilancio e fiscali?
Ancora: cosa vuol dire opporsi al patto di stabilità che impedisce persino ai comuni “virtuosi” di spendere risorse disponibili?
Ebbene, noi non l’abbiamo ancora detto, col risultato che la nostra proposta rimane chiusa in quella parola, non si traduce in una politica e in una mobilitazione.
Dunque “non morde”, “non si vede”, “non seduce”. E rimane in una “terra di mezzo”, priva di realtà, vaso di coccio fra vasi di ferro.
L’analisi da cui dovrebbe in realtà prendere le mosse ogni scelta politica razionale non può accontentarsi di una critica rivolta al liberismo “in generale” e ad un processo di unificazione europea che non avrebbe portato a compimento il suo più ambizioso progetto politico, perché rimasta a metà del guado e perché diventata, via via, preda degli spiriti animali del capitalismo. Per cui oggi si tratterebbe di costringere il manovratore a venire a più equi patti, introducendo qualche variante negli ingranaggi esistenti, qualche artifizio economicistico, qualche espediente di tecnica monetaria, capaci di mutarne l’indirizzo di fondo.
Per capire compiutamente di fronte a cosa ci troviamo non sarà inutile partire…da noi, vale a dire dalla Costituzione italiana del’48.
Ebbene, la C.I. non accoglie né il modello dell’economia di mercato, né il generale principio della libera concorrenza. Anzi: l’articolo 41 dice con chiarezza che la libertà d’azione dei soggetti economici privati trova il suo limite nei “programmi” e nei “controlli” necessari affinché tanto l’attività economica pubblica quanto quella privata “possano essere indirizzate a fini sociali”.
Dunque, la C.I. – in termini di principio e prescrittivi – affida alla legge (e dunque all’autorità pubblica) il disegno globale dell’economia, esattamente per la ragione che Palmiro Togliatti espose nel dibattito alla prima sottocommissione dell’Assemblea Costituente (1947) intorno al tema delle “Relazioni economico-sociali” e a quello che diventerà poi il Titolo III della Carta. E cioè che “il non intervento dello Stato in una società capitalistica equivale ad un intervento a favore della classe dominante”. Vale a dire “al riconoscimento che chi è più forte economicamente può dettare le condizioni di vita di chi è economicamente più debole”.
Ciò di cui si incarica la C.I. è di porre un limite cogente all’asimmetria di forza fra capitale e lavoro.
Ebbene, la decisione di sistema enunciata dall’ordinamento comunitario è radicalmente opposta (antinomica, direbbe il filosofo) rispetto a quella contenuta nella nostra Costituzione.
Perché i trattati sottoscritti a Maastricht nel 1992 e tutto quello che ne è seguito mirano a costruire uno spazio economico senza frontiere interne ispirato al “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Aderendovi e applicandone i dispositivi in via esecutiva il parlamento italiano ha sovvertito la gerarchia delle fonti del diritto, generando “norme distruttive ed eversive della stessa Costituzione”.
Non occorre essere fini costituzionalisti per capire che l’antinomia fra le due architetture di sistema condurranno ben presto alla totale liquidazione dell’articolo 41 della Costituzione, trasformandolo nel suo rovescio.
L’esigenza di una nuova lettura della Costituzione nel senso del primato del mercato non può non risolversi nello spostamento delle finalità dell’intervento pubblico “dalla funzione programmatoria alla funzione di rimozione degli ostacoli al funzionamento del mercato, nella subordinazione dei fini sociali a quelli della remunerazione del capitale (cioè del profitto).
Esattamente come nella teoria liberale classica, lo Stato ha la funzione di assicurare e proteggere da ogni e qualsiasi turbativa la proprietà e il modo capitalistico dell’accumulazione privata.
Così stando le cose, tutti i diritti sociali storicamente conquistati dalle classi lavoratrici diventano, nella loro integralità – primo fra tutti il diritto al lavoro – come altrettanti limiti all’esercizio stesso del diritto di proprietà.
Il diritto alla tutela contro il licenziamento ingiustificato, a condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose, la protezione in caso di perdita del posto di lavoro cessano di essere “giuridicamente vincolanti”.
Si spiega così la vicenda ormai famosa della lettera che il presidente entrante e quello uscente della Bce indirizzarono al governo italiano il 5 agosto 2011 (un vero memorandum) in cui si subordinava il sostegno ai nostri titoli del debito all’adozione di varie misure fra cui, in particolare, una riforma della contrattazione collettiva che permettesse di “ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende” e “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti (…) in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi”.
Ogni diversa soluzione implicherebbe infatti un’interferenza inammissibile rispetto all’obiettivo di “un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” che è l’unico possibile assetto compatibile con le finalità stabilite dall’articolo 3 del TUE.
In conclusione: mentre la nostra costituzione rifondeva le tradizioni cattolica-comunista-socialista allo scopo di collocare lo Stato – e in esso il lavoro – in una posizione di primazia, attribuendogli potestà rilevantissime in ordine alle decisioni circa cosa, come e per chi produrre, i trattati europei, secondo il dogma liberista, hanno inteso costruire uno spazio retto dalla libera concorrenza.
La C.I. pretendeva di stabilire un proprio ordine entro il quale costringere la libertà degli affari, l’Ue impone un ordine di libertà per il compimento degli affari.
Il fatto è che l’Unione europea è prima di tutto la forma politica di un rapporto sociale e, precisamente, di un rapporto sociale imperniato sul dominio del capitale finanziario: l’architettura monetaria che esso ha posto al suo fondamento (e che trova nell’euro non già un sottoprodotto fenomenico, ma il proprio funzionale apparato strumentale) serve appunto a stabilizzare il potere dell’oligarchia liberista che governa l’Europa.
La complessa impalcatura monetarista si configura cioè come la specifica risposta strategica del capitalismo continentale (a trazione tedesca) alla caduta del saggio di profitto e la condizione, dentro un quadro politico-sociale in rapida mutazione reazionaria, per riplasmare l’economia nella conservazione di rapporti capitalistici di produzione fortemente compromessi dalla crisi.
L’ambizioso progetto è quello di liquidare in radice il welfare novecentesco, ridurre strutturalmente i salari a livello di sussistenza, consegnare alla marginalità le forme di aggregazione sociale e politica di impronta classista, con l’obiettivo di rendere strutturale l’estrazione di plusvalore assoluto dal lavoro vivo, condizione necessaria in una fase storica in cui la composizione organica e la stupefacente concentrazione del capitale hanno raggiunto un livello tale da non riuscire ad offrire agli investimenti un adeguato rendimento.
Siamo cioè di fronte ad una vera e propria ristrutturazione della formazione economico-sociale capitalistica (nell’accezione marxiana) che coinvolge la struttura economica, cioè il modello di accumulazione, i rapporti sociali e di proprietà, la sovrastruttura politica, i modelli istituzionali ed elettorali e l’ideologia che tiene insieme l’impasto:
il modello di accumulazione, attraverso la costruzione di un paradigma che produce e riproduce il capitale finanziario, parassitario e speculativo;
i rapporti di proprietà, attraverso la spoliazione della proprietà pubblica, la privatizzazione integrale, la messa a profitto di tutto ciò che può assumere i caratteri della merce, la reductio ad unum delle 4 forme di proprietà previste dalla Costituzione repubblicana (statale, privata, comunitaria, cooperativa);
la superstruttura politica e giuridica, attraverso la sterilizzazione del parlamento e l’annichilimento della democrazia rappresentativa in favore della concentrazione di tutto il potere negli esecutivi; lo stravolgimento del modello elettorale in funzione maggioritaria, bipartitica e in forma tendenzialmente presidenziale;
la superstruttura culturale e ideologica, sostenuta da un imponente apparato mediatico, che ha sradicato nella coscienza di larghe masse ogni anelito solidaristico per sostituirvi la concezione individualistica e iper-competitiva della borghesia liberale classica.
L’Europa odierna è tutto meno che uno spazio neutro, più efficace per la lotta nello stato nazionale.
Non è vero che lo spazio statuale più grande, quello europeo, sia il modo migliore per collocare controffensiva di classe al livello del capitale; esso lo è solo quando consente alla classe dominata di esprimere la propria autonomia politica. Quando il dominio di classe assume forma nazionalistica si deve essere internazionalisti, europeisti e in qualche caso autonomisti. Quando invece, come succede in Europa, quel dominio passa proprio attraverso la distruzione dello stato nazionale, si deve elaborare un nazionalismo democratico orientato verso una nuova Europa confederale.
L’Europa non è un soggetto politico che aiuta il multipolarismo e contiene l’espansione Usa, considerato che siamo alla vigilia della sottoscrizione del devastante trattato di libero scambio transatlantico che consegnerà alle multinazionali, ai più rapaci players economici internazionali, il potere – con tanto di legittimazione giuridica e tribunali al seguito – di subordinare all’attesa di profitto ogni aspetto delle legislazioni nazionali, mettendo la mordacchia ad intere Costituzioni nazionali.
L’Europa non è neppure un’entità sovranazionale che riequilibra le legislazioni e prepara un assetto federativo.
La costruzione forzosa di un’unica area valutaria aumenta la divaricazione fra i paesi perché impone una moneta unica ad economie del tutto diverse. E perché questa moneta “incorpora” le “virtù” del marco: deflazione, indipendenza della Bce e stabilità monetaria, i tre dogmi su cui è costruito l’euro, le tre cause, o concause, della distruzione dell’unità europea.
L’euro serve anche a rendere stabile la gerarchia fra nord e sud, fra paesi creditori e paesi debitori.
Il comportamento del creditore nord-europeo è solo apparentemente illogico. Perché incaponirsi in politiche che riducendo la domanda dei paesi debitori, riducono il mercato per i prodotti del nord, considerato che il 70% delle esportazioni di quei paesi avvengono nell’area europea? Per due motivi: perché diminuire il salario dei lavoratori del sud, in buona parte terzisti del nord, significa diminuire i prezzi dei prodotti del nord stesso; e perché la generale deflazione del sud abbatte il costo del patrimonio industriale ed immobiliare dei paesi colpiti. La logica che guida queste scelte è una logica semi-coloniale, che punta a costruire un sistema industriale ed un mercato del lavoro duali, concentrando la proprietà nelle mani del nord e trasformando il sud in un mare di mano d’opera a basso costo.
La logica dell’euro è la più cocente smentita di chi crede che l’Unione europea sia terreno più favorevole per la lotta di classe.
L’Europa è oggi un meccanismo non democratizzabile perché distrugge deliberatamente, con metodo, il solo soggetto che potrebbe democratizzarla: il lavoro.
Non è forse superfluo ricordare la lettera a firma congiunta con cui Draghi e Trichet intimavano a fine 2011 – di mettere mano a pensioni, salari, diritti del lavoro e privatizzazioni e come Napolitano abbia investito poi Mario Monti del ruolo di esecutore testamentario di queste direttive; o il documento con cui J.P. Morgan, nel maggio del 2012, ribadiva lo stesso concetto, con un taglio, per così dire, più sistemico, dove ad essere messe all’indice erano le costituzioni antifasciste troppo venate di socialismo; o – per tornare a casa nostra – la determinazione con cui il compito demolitore del giuslavorismo moderno è stato mirabilmente interpretato da Matteo Renzi.
Uno sguardo alla Grecia nell’imminenza delle elezioni politiche in quel paese
Ha ragione Emiliano Brancaccio: le ricette della troika saranno ricordate come uno dei più colossali inganni nella storia della politica europea.
La Grecia le applica già da 4 anni con enormi (e crescenti) sacrifici per la popolazione:
Rispetto al 2010 la pressione fiscale è aumentata di 8 punti percentuali rispetto al pil e la spesa pubblica è diminuita di quasi 4 punti, corrispondenti ad un crollo di 30 mld;
i salari monetari sono caduti di 12 punti percentuali e il loro potere d’acquisto è precipitato in media di 14 punti, con picchi negativi di oltre 30 punti in alcuni comparti.
La Commissione europea ha sempre sostenuto che queste politiche non avrebbero depresso l’economia. Ma le sue previsioni sull’andamento del pil greco sono state totalmente smentite: per il 2011 la Commissione previde un pil stazionario, che in realtà crollò di 7 punti; per il 2012 annunciò addirittura una crescita di un punto, e fu sconfessata da una caduta di 6 punti e mezzo; nel 2013 la previsione fu di crescita zero, e invece il pil greco precipitò di altri 4 punti.
Anche per il 2014 si registra uno scarto fra le rosee previsioni di Bruxelles e la realtà dei fatti ad Atene.
La verità, che ormai riconoscono a denti stretti persino al Fmi, è che le ricette della Troika rappresentano la causa principale del crollo della domanda e della conseguente distruzione di produzione e occupazione avvenuta in Grecia: negli ultimi 5 anni, ben 800.000 posti di lavoro in meno.
Né si può dire che tali ricette abbiano stabilizzato i bilanci: il crollo della produzione ha implicato un esplosione del rapporto fra debito pubblico e pil, aumentato in 5 anni di 30 punti percentuali.
Questi soggetti – osserva ancora Brancaccio – stanno ottenendo quello che volevano: perché dovrebbero mutare la loro posizione a seguito di una vittoria di Tsipras? Al limite offriranno un’austerità appena un po’ mitigata, un piatto avvelenato che – se accettato – condannerebbe Syriza alla stessa agonia che ha ridotto ai minimi termini il Pasok di Papandreu.
Il rigetto di una parte del debito accumulato sarebbe una soluzione logicamente razionale. Un problema, tuttavia, esiste: la disapplicazione unilaterale del Memorandum, il ripudio anche solo di una parte del debito indurrebbe la Bce a bloccare le erogazioni e determinerebbe una nuova crisi di liquidità.
A quel punto la Grecia e il suo nuovo governo di sinistra sarebbero costretti ad abbandonare l’euro per tornare a stampare moneta nazionale.
Il Qe e la mossa di Draghi
Ora, il Qe varato dalla Bce è stato rappresentato come il tentativo di correggere – di fronte al generale scivolamento deflattivo – lo sciovinismo economico rigorista di marca tedesca.
La Banca centrale si è infatti sì decisa – sia pure in una forma edulcorata, cioè scaricando la parte di gran lunga più cospicua dei rischi sulle banche centrali dei paesi membri – a stampare moneta per l’acquisto massiccio di titoli del debito nazionali. Peccato che gli acquisti di titoli di Stato non avverranno – a differenza di quanto avvenuto negli Usa e in Giappone – rastrellandoli sul mercato primario, direttamente dagli organi emittenti, cioè dai ministeri del Tesoro dei singoli stati. Gli acquisti saranno fatti sul mercato secondario, cioè dalle grandi banche della zona euro. “Si tratta, quindi – come osserva Domenico Moro – dello stesso meccanismo già deciso da Draghi nel 2011, e basato sull’offerta di liquidità a tassi ridottissimi alle banche affinché acquistassero titoli di Stato. Una mossa che non ha sortito alcun effetto positivo sull’economia e sull’occupazione, che hanno continuato a peggiorare. Infatti, la liquidità erogata dalla Bce non si tradusse in prestiti alle famiglie dei salariati, agli artigiani e alle piccole imprese, ma rimase nelle banche”. “Ad avvantaggiarsene – continua Moro – furono le banche stesse che guadagnarono sul differenziale tra i finanziamenti a tasso zero della Bce e gli interessi pagati dallo Stato. Il risultato fu che i bilanci delle banche, gravati dalle perdite della crisi del 2007-2008, migliorarono notevolmente, grazie alla crescita degli utili. Un meccanismo simile si verificherà anche questa volta. Di fatto, l’operazione è a carico delle singole nazioni. Insomma, dove sta la svolta, dov’è la solidarietà e l’azione finalmente combinata a livello europeo? Il rischio sovrano si è internalizzato ancora di più, con sollievo della Germania. In terzo luogo, gli acquisti verranno effettuati non selettivamente, in base alle difficoltà dei singoli Stati nel finanziare il proprio debito, ma in modo proporzionale alle quote di capitale detenute dai singoli stati nella Bce. Dunque, la Germania, che paga già interessi reali già negativi sul suo debito, verrà “beneficiata” da questa operazione in proporzione come la Grecia che paga alti tassi d’interesse”.
Si tratta di segni piuttosto evidenti che l’ingranaggio è in crisi, che le misure adottate non fanno che confermare il carattere organico della crisi capitalistica e che la diga eretta per scongiurare il cedimento rischia di rivelarsi alquanto fragile poiché la manovra rimane pur sempre incardinata sull’impalcatura monetaria che ha prodotto l’austerity e non è difficile prevedere che i suoi effetti si riveleranno del tutto modesti.
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