Antonio de Felip
Se abbiamo veramente a cuore la scuola, ricostruiamola
di Antonio de Felip – Pubblicato il 16 dicembre 2022 su Ricognizioni
Raffaello – Scuola di Atene – Stanza della Segnatura, Vaticano
Alla degenerazione della scuola pubblica è difficile ormai mettere un freno. Tanti e tanto grossi sono i danni già causati, e le prospettive per il futuro non promettono nulla di buono.Però in Italia ci sono ancora molti bravi insegnanti, ricchi di esperienza e di conoscenze, interpreti preziosi di un rigoglioso patrimonio culturale. Questo bene non va dissipato, ma messo a frutto prima che sia troppo tardi.
L’associazione ContiamoCi! ha intrapreso un’iniziativa che ritiene utile quanto flessibile: alcuni docenti stanno elaborando i programmi scolastici per i vari ordini e gradi di scuola, dalle elementari fino alle superiori (liceo classico e liceo scientifico), materia per materia. Ciascun programma sarà corredato di testi e materiali di riferimento, scelti con la cura necessaria.
Si tratta di un lavoro impegnativo, che si propone di offrire una traccia solida e ragionata per tornare a fare scuola davvero, perché la scuola è una cosa seria e non si può improvvisare.
Non si sa mai, al contempo, che anche qualche pezzo della politica, più sensibile alla sorte delle nuove generazioni e all’esigenza di conservare un’eredità di valore inestimabile, non prenda coscienza della china imboccata da quel sistema di istruzione a cui dovrebbe essere affidato un compito fondamentale: quello di trasmettere a chi ci succede il meglio di ciò che possediamo, e nella forma migliore.
Con questo spirito, e sulla scorta delle idee che abbiamo sintetizzate nel documento che segue, speriamo di rendere un servizio capace di fare del bene.
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Nel rispetto della libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione, ContiamoCi! mira a dare vita a scuole autonome che preservino i ragazzi dagli effetti della degenerazione dell’istruzione pubblica e, al contempo, mira a fare pressione sul mondo politico affinché acquisisca consapevolezza dello stato dell’istruzione pubblica stessa, recuperando la sensibilità per il suo fondamentale fine specifico.
PER UNA SCUOLA CHE RITORNI A ESSERE SCUOLA
a cura di Elisabetta Frezza, Gavino Piga e Paolo Di Remigio
Nel tempo dell’omologazione diffusa, delle idee effimere e della digitalizzazione pervasiva, è diventato più che mai necessario ripensare la scuola, affinché essa torni a essere luogo di formazione culturale e umana dove i giovani siano messi in grado di acquisire quella preparazione organica che consente di sviluppare liberamente le proprie risorse intellettuali e morali.
Decenni di riforme hanno smantellato pezzo per pezzo un sistema educativo che aveva il grave difetto di funzionare a dovere. A indurre il degrado della istruzione italiana sono state vecchie (ultracentenarie) teorie pedagogiche di stampo anti-cognitivo, imposte agli insegnanti sotto la suggestione della innovazione e del progresso e custodite con zelo dalla rete burocratico/istituzionale che dal ministero si irradia fino agli uffici dei dirigenti. Queste teorie, che sono formulate in odio al logos (alla ragione e alla parola) e si esprimono attraverso un gergo “esoterico” offensivo del senso estetico prima ancora che del senso comune, hanno già ampiamente dimostrato di produrre esiti fallimentari: scolari ignoranti, docenti depressi, famiglie rassegnate.
Mentre il principio della cosiddetta “autonomia” spezza l’unità del sistema scolastico, le scuole italiane, pur di procacciarsi iscrizioni e finanziamenti con cui sopravvivere nel mercato, fanno a gara nell’offrire agli studenti attrazioni ricreative – progetti usa e getta, per lo più ad alto tasso ideologico, spesso appaltati a “esperti” esterni al corpo docente – sacrificando i contenuti dell’insegnamento e interrompendo la trasmissione della cultura, a partire dalle conoscenze fondamentali – le tanto demonizzate nozioni (nosco non è altro che l’atto del conoscere).
Nel nome del primato della prassi sulla teoresi, del tangibile sull’astratto, dell’utile sul necessario, del soggettivismo sull’oggettività e la logica, dell’interesse strettamente privatistico sulle finalità di ordine generale e superiore di edificazione individuale e sociale, la scuola-azienda ha promosso il depauperamento delle materie disciplinari nella speranza di estinguerle, con l’effetto collaterale che approssimazione e dilettantismo vengono ormai interiorizzati dai giovani come metodo di lavoro e plausibili stili di comportamento.
Ci si avvia così verso una società analfabeta, cieca verso le proprie ricchezze artistiche, dimentica della propria cultura.
La scuola delineata dal “Quadro di riferimento europeo sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente”, figlia di quella devastante pedagogia progressiva, si prefigge obiettivi ambiziosi soltanto a parole: essa, in realtà, punta a standardizzare i sistemi di istruzione nazionali per renderli tutti egualmente in grado di far fluttuare forza lavoro nello spazio globale, assecondando i desiderata di multinazionali, gruppi industriali, fondi di investimento, oligopoli mediatici – secondo il modello neoliberista.
L’individuo, in quest’ottica, diventa a vita un oggetto il cui profilo si presti a essere modellato o rimodellato a seconda delle esigenze di manovalanza, come una scatola vuota da riempire con le istruzioni di volta in volta più funzionali alla bisogna, sicché è sufficiente che possieda semplici abilità di base e d’immediata spendibilità pratica.
Da qui la sostituzione dei contenuti con l’acquisizione di generiche strutture mentali e comportamentali, cioè la famigerata didattica per competenze, traduzione dell’ideale di flessibilità (precarietà) permanente, trasportato di peso nella scuola dai modelli di management aziendale: la definizione di mission e vision, la misurazione degli obiettivi pianificati e delle prestazioni attese, la mappatura dei ruoli, la distinzione fra competenze dichiarative e competenze procedurali, la riduzione delle conoscenze a skills, l’enfasi sulla motivazione, l’individualizzazione della didattica e l’idea del “successo formativo” sono parametri impropri per il contesto scolastico, ma ormai ampiamente penetrati nell’immaginario di docenti e studenti.
Il docente, del resto, è ridotto al ruolo di coordinatore e facilitatore, chiamato a inventare soluzioni che agiscano sulla motivazione dei suoi studenti – in obbedienza alle più classiche strategie manageriali – e deve a sua volta interiorizzare il mito del successo formativo in termini di risultati emotivi e numerici, con l’aggravante del ricatto occupazionale.
Gli studenti, d’altra parte, finiscono in una spirale di de-responsabilizzazione, di infantilizzazione a oltranza: cullati nell’illusione di una libertà puramente consumistica e di un ribellismo di maniera, sono invitati a vivere la scuola come un safe space a metà fra il centro ricreativo e il centro commerciale.
È l’istituzione stessa, ormai, che fornisce loro gli argomenti per sostenere un’idea dello studio essenzialmente ludica: rivendica l’abolizione delle gerarchie; flessibilizza l’attività d’aula in nome di una presunta inclusività; moltiplica le distrazioni fino a sommergere e marginalizzare la didattica; promuove l’uso dei dispositivi digitali non in quanto mezzi, ma in quanto forme specifiche di apprendimento.
Sullo sfondo, poi, la famiglia: uno dei tanti stakeholder a cui rapportarsi in termini di soddisfazione del servizio. Come il cliente viene illuso di avere un ruolo attivo proprio mentre è deprivato della propria autonomia critica, la scuola simula un coinvolgimento dei genitori – attraverso servizi di vario tipo, comitati o patti di corresponsabilità – proprio mentre questi cedono all’istituzione statale parte della propria specificità sociale, che è appunto quella di essere prima e fondamentale agenzia educativa.
Da una parte, dunque, i genitori sono portati ad esigere il successo formativo dei figli in quanto clienti in diritto di essere gratificati, e dall’altra s’intendono legittimati ad ingerirsi, talora pesantemente, laddove i risultati attesi non vengano raggiunti. Proprio così, tuttavia, finiscono con l’abdicare, perlopiù inconsapevolmente, al loro ruolo di educatori, delegando alla scuola dinamiche e problemi che evidentemente non sono più in grado di gestire.
Tutto questo ha portato a un regresso generalizzato e inarrestabile delle giovani generazioni in termini di maturazione personale, autonomia, risorse espressive, consapevolezza storica, capacità mnemonica, abilità di scrittura, ragionamento e calcolo: l’esasperazione del ruolo educativo dell’istituzione scolastica, unita alla crisi della famiglia, al paternalismo diffuso, alla povertà degli stimoli esterni, alla virtualizzazione dell’esistenza e alla censura del dissenso, ha decostruito ogni possibilità di critica, ogni spazio di pensiero autonomo.
Laddove la scuola diventa agenzia vocata a trasmettere valori più che saperi – o, meglio, valori senza saperi – si traccia la strada per fare delle aule il primo anello di una catena di trasmissione ideologica, il fondamento di una costruzione omologata e autoritaria.
E invece l’istruzione va rivalutata nel suo significato originario, come acquisizione dell’attitudine e dei mezzi necessari alla conoscenza disinteressata e all’arte: nessuna azione razionale può essere infatti compiuta senza una conoscenza oggettiva; la libertà stessa implica il sapersi emancipare da visioni parziali, settarie, per abbracciare la realtà nelle sue opposizioni necessarie. E la scuola è l’istituzione a cui spetta questo specifico compito, dal cui adempimento dipendono la cultura e la civiltà.
Ecco perché crediamo vada innanzitutto recuperato un modello di scuola delle conoscenze. Un modello che, attraverso una istruzione ben impartita e uno studio serio e rigoroso delle discipline, sia capace di stimolare una adeguata attitudine critica insieme all’amore per una conoscenza non superficiale delle cose; sia capace, cioè, di fornire agli studenti gli strumenti cognitivi e speculativi indispensabili per indagare la complessità del reale, interpretare il presente, affrontare il futuro. Al di là di etichette fuorvianti, è proprio in questo processo che si realizza la vera “educazione civica”.
Siamo altresì convinti che, nel perseguimento di tali obiettivi, sia essenziale una impostazione diacronica, in quanto è attraverso la prospettiva storica che l’uomo riconosce e comprende se stesso: la sua indole, la sua vocazione e il suo destino. Riconosce e comprende, anche, le costanti e le varianti della sua natura.
In seno alla nostra civiltà sono stati infatti elaborati i sistemi concettuali e le forme di pensiero capaci tanto di ordinare e regolare il vivere comune, quanto di rispondere alle esigenze spirituali profonde dell’uomo di ogni tempo; sono fioriti la filosofia, la matematica, l’arte, il diritto e la politica, l’etica e l’estetica, la poesia e la letteratura, la scienza e l’economia, e la teologia cristiana: tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che l’onda montante della barbarie travestita da progresso sta oggi annientando sotto i nostri occhi.
Crediamo quindi che la didattica debba tornare ad essere progettata attraverso programmi, che è quanto dire attraverso la declinazione di conoscenze necessarie.
Stiamo perciò lavorando alla definizione di bozze che ricostruiscano, disciplina per disciplina, un modello di pianificazione dei contenuti, insieme a un adeguato sistema di monitoraggio e verifica dei risultati scolastici.
La programmazione che immaginiamo verterà attorno a coordinate irrinunciabili come, ad esempio:
- centralità dell’alfabetizzazione, ossia del linguaggio, della lettura e della scrittura, dalla calligrafia alle abilità argomentative (per un superamento del rovinoso naturalismo pedagogico);
- centralità delle conoscenze disciplinari (per un superamento del rovinoso formalismo pedagogico);
- preferenza per i testi originali e loro selezione sulla base del contenuto scientifico e del valore estetico;
- disincentivazione delle attività extracurricolari: meno dispersione e più approfondimento;
- apprendimento sicuro della grammatica come strumento generale di comprensione e produzione dei testi e reintroduzione dell’insegnamento della lingua latina nelle scuole medie;
- sicuro dominio del calcolo, così da liberare l’intelligenza all’autentico ragionamento matematico e logico-deduttivo;
- insegnamento della geografia come materia autonoma dalla storia;
- valorizzazione della musica e del teatro come arti applicate, a fianco dell’insegnamento curricolare della storia dell’arte;
- valorizzazione dell’educazione fisica come spazio dove favorire uno sviluppo armonico del corpo e sperimentare una sana competizione.
Il nostro è un progetto ambizioso, che chiede la collaborazione di una comunità quanto più possibile vasta. Ci rivolgiamo perciò ai tanti docenti insoddisfatti – spesso silenziosamente – di ciò che la scuola è diventata, affinché possano aiutarci in questo tentativo di ripensamento e ripristino degli strumenti della didattica. Su questa base è possibile cominciare a ricostruire il tessuto formativo che, solo, può restituire menti adulte e strutturate.
Com’era per l’antica paideia, laddove il processo educativo aveva il compito di portare i più giovani all’altezza della polis di cui entravano a far parte, vorremmo tornare insomma a formare l’uomo e, con l’uomo, il cittadino. Quello capace di non essere suddito.