di Roberto PECCHIOLI
L’intervista di Davide Casaleggio alla Verità dà ragione, una volta di più, all’intuizione di Carl Schmitt secondo cui le categorie del politico sono concetti teologici secolarizzati. Il pensiero del figlio ed erede di Gianroberto, ideatore del Movimento 5 Stelle, prima forza politica italiana, ne è la conferma. Un misto di utopismo, ambiguità, confusione, silenzi e banalità con al centro un concetto fuorviante e molto post moderno: la politica è un fatto tecnico, anzi un problema tecnico, che può essere risolto con appositi algoritmi.
Il suo pensiero è articolato, ma si è tentati di dare ragione a Carlo Calenda, il rampante oligarca in quota PD, che a proposito di Casaleggio junior, conosciuto nell’evento semi riservato tenuto a Ivrea, ha commentato che gli è parso più “un ragazzino sprovveduto che un Darth Vader”. Premesso ad uso di chi ignora la saga di Guerre Stellari che Darth Vader è l’eroe negativo dal mantello nero, i giudizi liquidatori sono in genere frutto di arroganza. Il nuovo titolare della Casaleggio & Associati ci appare piuttosto una persona priva di cultura politica, dunque assai pericolosa, tenuto conto del suo ruolo e del controllo che esercita, attraverso la piattaforma informatica Rousseau, sul primo partito italiano.
Il brano dell’intervista che ha suscitato le reazioni più negative è quello in cui teorizza il superamento della democrazia rappresentativa a favore di quella partecipativa incardinata nella Rete. Non sappiamo se sia stata una scelta dell’abile intervistatore, Mario Giordano, ma scrivere rete con la maiuscola ci ha colpito. Sostiene Casaleggio che “Internet che deve essere inteso come un diritto essenziale a cui tutti i cittadini devono avere accesso.” La portata epocale di Internet non sfugge ad alcuno, ma uno strumento non può essere un diritto essenziale. Grazie alla Rete e alle tecnologie, prosegue Casaleggio, possediamo strumenti di partecipazione più efficaci in termini di rappresentatività del volere popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile. Il giovanotto si spinge a profetizzare che tra qualche lustro il parlamento non esisterà più.
Per lui, dunque, la formazione del consenso e la conseguente decisione politica si risolvono in un fatto essenzialmente tecnico. La democrazia partecipativa è migliore non in sé, ma in quanto più facilmente in grado, grazie alla connessione informatica, di fondare la volontà generale. Non è per caso che l’invenzione dei Casaleggio, la piattaforma Rousseau, ha questo nome. Noi consideriamo il pensatore ginevrino uno dei personaggi più negativi della filosofia politica moderna. La sua influenza resta uno degli elementi degenerativi più insidiosi da due secoli e mezzo. I capisaldi del pensiero di Jean Jacques Rousseau passati per osmosi a Casaleggio sono il mito dell’uguaglianza naturale, l’utopia della democrazia diretta e l’inganno della volontà generale. La volontà generale russoviana non coincide con la decisione maggioritaria, ma è la realizzazione dell’ambiguo “io comune”, ovvero il volere collettivo degli individui suppostamente costituiti in corpo unico, senza garanzia alcuna per il dissenso e le minoranze. Una teoria dell’acclamazione (eterodiretta).
Nella realtà, la volontà generale si trasforma facilmente nella legge del più forte, o con le parole di Roberto Michels, del più organizzato. “La legge sociologica fondamentale (…) può suonare così: l’organizzazione è la madre del predominio degli eletti sugli elettori, dei mandatari sui mandanti, dei delegati sui deleganti. Chi dice organizzazione dice oligarchia.” La tanto decantata rete, nel Casaleggio pensiero è il luogo nel quale “non servono baroni dell’intellighenzia che dicono cosa fare, ma persone competenti nei vari ambiti che ci chiedano verso quali obiettivi vogliamo andare e propongano un percorso per raggiungerli”. Dunque, tornano “i competenti”, gli illuminati, color che sanno, specialisti non nella soluzione dei problemi, ma nella formulazione delle domande giuste, la cui risposta è già nel quesito. Una tecnocrazia di tipo nuovo, tutt’altro che una presa del potere da parte del popolo.
Ci si chiede se Casaleggio abbia una scarsa cultura politica (la tesi estremizzata di Calenda) o sia il consapevole banditore di un’era post politica e post ideologica fondata sulla tecnica, non diversa dalle premesse poste da Bernays o Lippman, con mezzi più pervasivi, la rete appunto. Tutto diventa questione tecnica da risolvere tecnicamente, come aveva compreso Martin Heidegger definendo gestell, impianto, ossatura essenziale della società contemporanea, l’imposizione della tecnica ancella della scienza, strumento di potere, mezzo di dominazione.
Casaleggio è tutt’altro che un rivoluzionario. Nessuna messa in discussione del sistema socio economico vigente, nessuna analisi critica del neoliberismo tecnologico, accolto come fatto compiuto, indubitabile datità unica del secolo XXI. Quali sarebbero dunque i compiti della democrazia partecipativa a base di clic, se non si discute l’” impianto”, base del sistema? Su questo punto, l’imprenditore tecnologico, piccolo Mark Zuckerberg de noantri, tace. In compenso, interrogato sul ruolo futuro dei robot e sull’intelligenza artificiale che minaccia, insieme con milioni di posti di lavoro, l’umanità come l’abbiamo conosciuta finora, la risposta non è diversa da quella di ogni progressista e materialista: è un’opportunità, né vede o coglie controindicazioni, in termini morali, antropologici e politici.
Al contrario, sembra inclinare verso un transumanesimo light, giacché “stiamo assistendo a un’evoluzione incredibile sul fronte della computazione dei processori e nello studio del cervello umano. Credo più in un’estensione delle capacità umane (…) che nella creazione di robot umanoidi come quelli che vediamo nei film”. Le preoccupazioni non sono che indici di arretratezza culturale, incapacità di antivedere, tanto da fargli affermare che “l’innovazione tecnologica consentirà la nascita di un nuovo umanesimo”. Nessuna critica ai giganti della new economy, i suoi modelli. Essi sono diventati tali per essere stati i più lesti a cogliere le opportunità, generando, udite udite, “profitti e lavoro diretto e indotto per milioni di persone. “Nessun accenno al lavoro distrutto e alla qualità infima di quello nuovo, la triste gig economy. Anche rispetto ai social media, Casaleggio non vede problemi o controindicazioni: basta saper scegliere.
Ma quale pensiero critico insegna a distinguere tra vero e falso, giusto e sbagliato, se tutte le carte sono in mano ai colossi della tecnologia, che controllano ormai il nostro cervello, sanno letteralmente a che stiamo pensando in questo momento? Il buon giorno dato da Cristiano Ronaldo via Internet scatena in pochi minuti quattro milioni di “like”. L’intera popolazione della Croazia cui “piace” il saluto di un calciatore e lo dimostra con il gesto dell’invio sulla tastiera. Casaleggio addirittura nega che le nuove tecnologie ci rendano più controllabili. Taglia corto con un infastidito “direi che il tema risieda altrove”, un luogo che si guarda bene dall’identificare. Del resto, non si può chiedere a un attore dell’economia tecnologica di andare contro i propri interessi. Preoccupa molto, tuttavia, poiché la piattaforma Rousseau forma, determina e mette a tema il pensiero politico del maggiore partito italiano, peraltro con poche decine di migliaia di partecipanti attivi, smentendo la narrazione sulla democrazia diretta.
Casaleggio ha imparato dai politici di vecchio stampo la capacità di non dire, di rimanere nel vago su temi decisivi. Alla domanda se abbia paura di un mondo in cui la tecnologia permetterà di cambiare i geni dell’uomo con un clic, ci fa sapere che “il metodo Crispr di editing (!!!) del DNA è sicuramente rivoluzionario e le sue applicazioni dovranno essere valutate dal punto di vista bioetico come altre innovazioni mediche del passato.” Non è così, giacché le vecchie scoperte mediche non ambivano a mutare l’essenza umana, ma si limitavano a curare specifiche patologie. Desta turbamento che non prenda posizione su questioni centrali: ciò che si può fare tecnicamente fare, si faccia, sembra concludere, magari dopo l’opportuna convocazione della piazza informatica, a cui i “competenti” avranno formulato la domanda nella forma più adatta per ottenere la risposta voluta, con il corollario, forse, delle consuete FAQ (le domande più frequenti) predisposte da chi controlla il sistema e fornisce, chiavi in mano, domanda e risposta.
Il rischio più grande, nel sistema di pensiero di Davide Casaleggio, è avere ridotto tutto a questione tecnica, la cui soluzione sta nel pensiero semplificato, binario tipico della tecnologia informatica, gestell, impianto, contenitore e contenuto. La risposta è sì o no, apertura o chiusura, a reazione immediata, in “tempo reale”. Non è questo l’uomo, con le sue variabili, i chiaroscuri, le complessità che non si possono risolvere nel “mi piace, non mi piace” inventato da Mark Zuckerberg, né è sostenibile un individualismo senza principi condivisi, o banalmente quantitativo, fondato sulla figura del consumatore/ elettore/ decisore perennemente connesso.
Bontà sua, Casaleggio ammette che il famoso “uno vale uno” teorizzato dal padre non significa uno vale l’altro, ma la dichiarazione d’intenti non va oltre, naufraga nel fumo di un contratto sociale alla Rousseau in cui prevale l’umore immediato, la facile demagogia, l’egalitarismo programmatico, l’indistinta volontà generale da giacobini fuori tempo massimo, per cui “dal momento che la purezza è un valore positivo, ben vengano i più puri che epurano i meno puri. “Sotto le mentite spoglie della volontà generale del visionario di Ginevra, risorge una forma corriva di società etica che dovrebbe fare orrore innanzitutto al pensiero liberale.
Inoltre, la questione della piattaforma. Casaleggio la considera una comunità (virtuale, dunque non comunità…) che “attraverso strumenti di intelligenza collettiva e di democrazia diretta, sia in grado di definire e condividere il concetto di cittadinanza digitale”. Su questo punto ci arrendiamo senza combattere, poiché l’oscurità del concetto è superiore alle nostre forze di uomini del millennio passato. Ci spaventa l’accenno all’intelligenza collettiva, ci pare un sinonimo pericoloso di demagogia organizzata dai padroni degli strumenti tecnici su cui si basa. Quanto alla cittadinanza digitale, somiglia ai tanti concetti vaghi, retorici di facile suggestione ad uso delle masse “digitali” per celare una dominazione di tipo nuovo, realizzata attraverso meccanismi più potenti e totalizzanti di quelli di ieri.
La domanda resta la solita: quis custodiet custodes? chi ci garantisce un uso corretto, imparziale e volto al bene comune della Rete (maiuscola, per fare contento Casaleggio), se l’idea di Stato, di potere pubblico, sovranità resta indeterminata, un fondale rimovibile nel quale sguazzano i colossi transnazionali deterritorializzati? Chi sceglie i soggetti autorizzati a formulare le domande su cui i nuovi liberi cittadini digitali dovranno pronunciarsi, con un sì o un no perentorio entro il termine prefissato per la chiusura del sistema? I parlamenti, le assemblee reali, le discussioni concrete di uomini e donne in carne e ossa, pur con tutti i loro limiti, difetti e espedienti di potere, restano il mezzo migliore per alimentare il dibattito, conoscere i problemi nei loro risvolti, scoprire gli interessi in ballo, misurare le idee, infine, come disse un rispettabile politico del passato, Luigi Einaudi, “conoscere per deliberare”.
Davide Casaleggio ci appare come un volto in più del sistema dominante, dall’ approccio benevolo, mite, un tecnocrate dal volto umano, un simil Zuckerberg senza maglietta grigia, ma con le stesse convinzioni, identica visione della vita e del futuro. Persino rispetto allo scandalo della compravendita dei dati personali, egli difende a spada tratta Facebook ed il sistema di cui è parte integrante. La vendita fu indiretta, perbacco, e alla domanda se condivida i timori sulla possibilità di influenzare in modo subdolo le elezioni o il pensiero di massa, il silenzio vale più di qualsiasi acrobazia verbale.
Non intendiamo coinvolgere un intero partito nel giudizio negativo, ma Casaleggio figlio di Gianroberto e proprietario della piattaforma Rousseau, la cui sede coincide con i suoi uffici privati, ma solo perché, ribadisce seccato, i tempi non sono all’altezza della tecnologia e costringono a indicare un luogo fisico, ci sembra un esempio pericoloso di un mondo nuovo che assomiglia sinistramente a quello vecchio: potere smisurato a chi lo ha già ( i protagonisti della rivoluzione digitale), un giudizio positivo sul mondo che hanno creato, una democrazia diretta che sa tanto di finta o di rinnovata presa in giro per gli utenti digitali di “mi piace-non mi piace”.
Il neoliberismo tecnocratico imperante può dormire sonni tranquilli, la rivoluzione non arriverà da Casaleggio, né verranno poste domande di senso, indicati progetti che cambino la direzione di marcia. Un nuovo elemento di stabilizzazione del sistema è in pista. I suoi sostenitori potrebbero non gradire e pretendere davvero il cambiamento, a partire dal modello di società. Ma “i competenti” permetteranno che la domanda venga posta? Più semplice, sicuro e innocuo lo sfogatoio della Rete, il nuovo diritto offerto graziosamente dai dominatori. Alla fine, un bel referendum a base di clic incontrollabili non si nega a nessuno. Temiamo di dover rimpiangere persino i pessimi parlamenti partitocratici della fallita democrazia rappresentativa, se l’alternativa è una piattaforma Rousseau generalizzata, gestita da un’azienda privata che tira i fili del primo partito postmoderno.
Non avranno il nostro “like”, la nostra Patria non sarà mai la Rete. Casaleggio ci sembra la declinazione postmoderna dei pilastri della società di Ibsen, banditori del nuovo per convenienza. Ci vuole ben altro per opporsi al modello tecno-liberista nemico. Stabilizzatore del sistema, teso a cambiare qualcosa perché poco cambi ai piani alti, come il Tancredi del Gattopardo, al secondo Casaleggio si attaglia il commento sprezzante di un monatto al povero Renzo Tramaglino, scambiato per untore della peste.” Va, va, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano”. Purtroppo.