La Divina Commedia “ha un evento soprannaturale alla sua origine”, una “visione reale” e diretta dell’aldilà, analoga forse alle esperienze di pre-morte di molti pazienti richiamati in vita nelle sale operatorie. E che il cristianesimo che intesse l’opera di Dante è una realtà che noi, anche noi che ci crediamo cattolici, non conosciamo più: “Il capolavoro di una civiltà sconosciuta e per noi incomprensibile”. Queste mi paiono le due affermazioni primarie di Antonio Soci nel suo libro “Amor Perduto – L’Inferno di Dante per contemporanei”, Piemme 227 pagine, 18 euro.
Son due affermazioni non solo profondamente vere; sono anche state già intraviste o anche dichiarate da personalità diverse come Dante Gabriele Rossetti, il pittore primo dei preraffaelliti, da Giovanni Pascoli, e soprattutto da Luigi Villani (Roma 1878-1931), il critico e poeta a cui dobbiamo la dimostrazione – molto convincente – che i “Fedeli d’Amore” di cui Dante era esponente e forse magister, era una confraternita segreta di stampo ghibellino, che impartiva ai suoi adepti una pratica ascetica specifica, rituali e canali di grazia con la quale ritenevano di poter giungere alla “illuminazione”, o stato ontologico di realizzazione spirituale.
La Chiesa come Pietra
Era anche una setta ostile al Papato corrotto di allora, la Chiesa chiamata “Pietra” nel linguaggio convenuto dei settari. E’ la Chiesa spostata ad Avignone, la Chiesa che ha distrutto l’ordine monastico dei Templari e mandato al rogo i suoi gran maestri; per il Dante delle “rime petrose” e i suoi Fedeli d’Amore, irati DISPERATI ed agghiacciati, è una pietra tombale che tiene prigioniera la Sapienza Santa, ed impedisce a i fedeli la salvezza eterna. Tu “Ch’eri già bianca ed or sei nera e tetra – aprimi, petra, sì ch’io Petra veggia – che il cor mi dice che ancor viva seggia – petra è di fuor che dentro petra face”: invettiva ben chiara a chi vuol capire: fa’, o detestata Petra, chi’o veda sotto la tua pietra Pietro, ché tu ormai rendi “pietre” i fedeli e veri cristiani, non fai giungere a loro la grazia santificante. Impressionante accusa, nata da un’esasperazione che anche i cattolici veri d’oggi conoscono, dove si accusa la Chiesa non da posizioni laiciste, ma da una fede cristiana autentica e potente; una fede e una ascetica superiore che può accusare la gerarchia clericale, lo stesso Papa, di tradimento metafisico, e di usurpazione del potere temporale – inteso come Impero, ossia un potere sacrale, essenziale anch’esso perla salvazione umana.
Del resto, l’Alighieri non faceva mistero della sua esperienza mistica reale. “Perché appressando sé al suo disire [Dio Amore]/ nostro intelletto si sprofonda tanto/che retro la memoria non può ire”, dirà nel primo canto del Paradiso. E nell’epistola a Can Grande della Scala, spiega che questi versi alludono alla stessa esperienza del passo di San Paolo ai Corinti, dove parla di uno [Paolo stesso] che fu “rapito a questo modo al terzo cielo, se nel corpo o senza il corpo, lo sa Dio”. E se gli invidi (invidiosi) non credono ciò possibile, “leggano Ricardo di San Vittore, e non invidieranno”.
Riccardo di San Vittore (1100-1173) fu amico di San Bernardo – colui che scrisse la regola per i Templari – ed autore di testi di ascetica che mirano a portare il fedele alla visione diretta del divino – l’apice spirituale dove “non sono più io che vivo”, dove l’amante si identifica con l’Amato – tanto che fu chiamato Magnus Contemplator.
Questa informazione va collegata alla strana affermazione con cui Dante chiude la Vita Nuova: dopo aver raccontato della morte della sua Beatrice e di come egli sia certo che stia in Paradiso, dice che di ciò “non è convenevole per me trattare”, perché farebbe di “me laudatore di me medesimo”.
In che senso la morte di Beatrice è qualcosa di cui lui, Dante, potrebbe vantarsi? Assurdo, se si continui a credere che lui stia parlando di una signora fiorentina che fu moglie di Folco Portinari e morì giovane. Ma se si legge Riccardo di San Vittore, la cosa di chiarisce. Il gran mistico e maestro spiega – del resto sulla scorta di Agostino – perché Rachele, la moglie amatissima di Giacobbe, deve “morire” perché possa nascere “Beniamino”.
Come si leggeva l’Antico Testamento
E’ una impressionante dimostrazione di come sant’Agostino, e i cristiani medievali, leggevano le storie bibliche, e come “dovremmo” leggerle anche noi. Invece noi leggiamo (in Genesi 30) come un fatto più o meno reale di come Giacobbe vide al pozzo Rachele, sua cugina, e se ne innamorò; di come la chiese in sposa allo zio Labano, il quale disse: te la do se resterai a farmi da servo per sette anni. Il fatto è che, alla fine dei sette anni, nella notte di nozze, Giacobbe si trova nel letto Lia, la sorella maggiore, brutta e dagli occhi cisposi, che l’astuto Labano ha sostituito con la bella; consuma il matrimonio, e quando il mattino, infuriato, protesta da Labano,quello gli dice: altri sette anni al mio servizio, e Rachele sarà tua.
Il punto è che quando finalmente Giacobbe si congiunse alla seconda sposa, Rachele non restò incinta; la non amata Lia invece era fertilissima e gli diede sei figli. Allora Rachele, odiando la sorella, disse a Giacobbe: «Ecco la mia serva Bilha: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch’io una mia prole per mezzo di lei». Giuseppe si unì a Bilha e ne ebbe due figli. Poi Lia, momentaneamente avendo cessato di figliare, mise nel letto del marito la schiva Zilpa, che generò un figlio. Infine rimase incinta anche Rachele – ma morì nel parto.
Di questa storiaccia ebraica di letto e rivalità fra sorelle, che serviva a “spiegare” ai giudei come sono nati i capostipiti delle 12 tribù, Sant’Agostino fa una scuola di ascetica. Il suocero Labano (nel cui nome è l’idea di “bianco”) configura il processo della dealbatio, del diventar bianco dell’anima umana (Giacobbe) nell’espiazione-purificazione dai peccati nella salita alla realizzazione spirituale. Lia è la vita attiva e insieme la “volontà conforme a giustizia”; la sua serva Zilpa la sensualità, come la serva Bilha di Rachele, “l’imaginativa”. I figli che Lia genera via via sono Ruben, “timor di Dio”; il secondo, Simone, “dolore della colpa”; il terzo, Levi, “speranza”; poi Giuda, “l’amore”. L’acquisto delle virtù che sono la scala per cui si sale alla salvezza e visione.
E’ per questo che (dice Riccardo di San Vittore) appena “nato l’amore delle cose invisibili”, anche Rachele arde dal desiderio d aver figli anch’essa. Perché Rachele è la vita contemplativa, “e chi già ama vuol conoscere”. . Solo che l’anima è ancor troppo rude – grossa, direbbe Dante – per elevarsi alla contemplazione; si deve sforzare con l’immaginazione delle cose celesti, che è la serva Bilha.
Alla fine, Rachele genera, il che significa che l’adepto è giunto alla grazia della contemplazione: questo significa la nascita di Beniamino, suo unico figlio. E avverte Riccardo, amico di Bernardo: “Né siavi chi creda potersi alla contemplazione levare se Rachele non muore”: E come mai è necessario che Rachele muoia?
“Perché come la mente è rapita sopra se stessa, si sorpassano i limiti di ogni umana argomentazione: e non appena si vede, nell’estasi, il lume divino, la umana ragione soccombe. Tale è il morir di Rachele dando vita a Beniamino”. Così il mastro e guida dei cavallereschi asceti, i cuori gentili in cui “repara sempre Amore”.
Ecco perché Dante fa capire che potrebbe vantarsi della morte di Beatrice: perché lui ha raggiunto quello stadio, la contemplazione intellettuale pura, descritta come traguardo da Riccardo, la specifica santità delle anime nobili, capaci di prendere la via diretta. Lui ha percorso i sette cerchi dell’inferno, e salito le sette balze del Purgatorio, come Giacobbe ha servito per sette e sette anni, diventando da scuro, bianco. Lui incontra la sua Beatrice in Paradiso, nello stesso trono che divide con Rachele : è la “sua” Beatrice – beatificatrice – che è poi la Madonna Intelligenza di cui si dichiara innamorato l’altro fedele d’Amore, Dino Compagni.
La faccio breve, perché temo di aver già annoiato a morte tante ”anime grosse” che frequentano il web e vogliono esercitarvi la loro dittatura della pochezza; e suscitato contro di me l’accusa di “esoterismo gnostico” di certi cattolici wahabiti e talebani che pretendono si segua una fede ossificata e impoverita. Quanto all’esoterismo gnostico, magari rivolgano l’accusa a Agostino e a Riccardo di San Vittore, perché sono loro che non si attengono al senso letterale della storiaccia di Giacobbe e delle sue mogli e sorelle e concubine-serve…
Gli altri pochi che mi ha seguito fin qui, misurino la Chiesa di oggi con quella di Riccardo di San Vittore. Provino a pensare se simili insegnamenti pratici di ascesi se li potrebbero aspettare da un monsignor Paglia che ci assevera quanto è “spirituale Pannella”, e si fa ritrarre da un invertito trionfante in un affresco sacrilego. Da un generale dei Gesuiti che non sa bene quel che ha detto Gesù, perché non c’era il registratore, o da un Papa che s’impanca a porci come compito la lotta al riscaldamento globale e l’Europa Unita e il mondo globalizzato come traguardo degno del cattolico moderno. Qui si vede benissimo come la “loro” chiesa sia infinitamente lontana da quella che aveva a cuore la salvezza delle anime e le istruiva , oltre che assisterle e nutrirle coi sacramenti; è un’altra Chiesa, irriconoscibile rispetto a quella. Anche un laico, oggi,può forse intuire dunque almeno la disperata rabbia che alcuni pochi cattolici rivolgono a Bergoglio: temono che essa faccia definitivamente – dell’antico Pietro – la Pietra tombale che non dà più mezzi di salvezza soprannaturale – che ha ricevuto e getta nel fango
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