La vicenda di Silvia Romano ha creato due schieramenti opposti su una questione del tutto secondaria – l’affiliazione religiosa della ragazza – facendoci dimenticare la domanda fondamentale:
che ci stava a fare questa giovane milanese in Kenya?
Non è una domanda personale, nel senso che anch’io avrei fatto (anzi, ho fatto) cose molto simili nella mia vita, figuriamoci a ventitrè anni.
La domanda riguarda invece l’immenso mondo della “cooperazione internazionale” nel suo complesso.
La totalità del curriculum di Silvia Romano, a quanto ci è dato di sapere, è una laurea breve in mediazione linguistica presso quella che sembra una scuola privata, la CIELS, e un periodo come istruttrice di ginnastica artistica presso la S.G. Pro Patria di Milano.
Una certa Daniela Gelso, di Saronno, che avrebbe
“trascorso in Africa occidentale e centrale, tra Guinea Bissau, Burundi e Costa d’Avorio, come Project manager per conto di alcune delle principali Ong italiane, francesi e portoghesi, prima di rientrare in Europa, in Francia, nel 2017, continuando a lavorare come manager in ambito sociale”
stronca brutalmente l’organizzazioncina che ha mandato la Romano in Africa:
“1) Silvia Romano non è una cooperante. Anzi, per essere precisi, non è nemmeno una volontaria, nell’accezione oggi in vigore nel mondo della cooperazione. Per intenderci, un Volontario delle Nazioni Unite beneficia di un contratto remunerato ed opera all’interno di uno specifico programma di sviluppo. 2) Africa Milele, la onlus con cui collaborava, non è una Ong.“
Ma a questo punto, il giornalista pone una domanda alla Gelso, chiedendo che cosa abbia fatto lei “nei suoi 12 anni in Africa”.
La risposta della Signora Gelso:
“In qualità di capoprogetto, le mie competenze spaziavano dalla gestione di attività complesse alla scrittura progetti nell’ambito di bandi internazionali, dalla rendicontazione finanziaria alla gestione di partenariati strategici, dal team management al reporting ufficiale.”
Ora, possiamo dubitare che un paesino del Kenya avesse bisogno urgente di un’istruttrice milanese di ginnastica artistica con competenze di “mediazione linguistica”.
Ma se io fossi nato in un villaggio del Kenya, avrei sicuramente preferito la giovane, ingenua istruttrice di ginnastica artistica a una esperta di “reporting ufficiale” o di “gestione di partenariati strategici“.
Questo fa venire in mente il libro di Michael Maren, The Road to Hell: The Ravaging Effects of Foreign Aid and International Charity.
Il libro è di diversi anni fa, ma fa capire l’essenziale sulla cooperazione internazionale.
Michael Maren, ventunenne americano con una gran voglia di scoprire il mondo, partì con il Peace Corps (la madre di tutte le ONG serie, in stile Signora Gelso) per lavorare in un villaggio del Kenya – non lontano da quello in cui fu rapita la Romano – come insegnante d’inglese, allo scopo di promuovere il loro “sviluppo economico“:
“Fu un’esperienza sconvolgente, tanto che non ebbi mai davvero il tempo di preoccuparmi dello “sviluppo economico” di chi mi ospitava. Sembravano cavarsela benissimo senza di me.
Ero io che avevo bisogno di aiuto.
Ero io che dovevo adattarmi a vivere senza acqua corrente o elettricità. Ero io che dovevo abituarmi a vivere in un luogo in cui il telefono più vicino era a dieci miglia di distanza.
La gente del villaggio si divertiva enormemente a causa della mia ignoranza dell’agricoltura. Non sapevo come seminare il mais, né come allevare polli. Sghignazzavano quando le mie mani senza calli non riuscivano a tenere in mano una tazza calda di tè.”
La cooperazione internazionale dovrebbe essere una cosa alla pari: un americano va in Africa e prende uno stipendio dieci volte maggiore di quello degli indigeni africani, e insegna l’inglese. In cambio, un keniota viene in America e prende uno stipendio dieci volte maggiore di quello degli indigeni americani, per spiegare come si ammazza un pollo.
“Nei dodici mesi successivi, lottai per sopravvivere.
Ero io che imparavo come si fa ad allevare e uccidere i polli, a far crescere le verdure, a piantare la manioca. Imparai come campare con una dieta fatta essenzialmente di mais e fagioli di vari tipi. Imparai come farmi la doccia e togliermi i parassiti dai piedi con un coltello svizzero. Imparai a parlare lo swahili e passai le mattine con gli anziani a bere tè, ascoltando racconti sul passato.
Questi anziani mi vedevano come una curiosità.
Non è mai saltato in mente a loro che io potessi contribuire qualcosa di valore al villaggio.”
E sospetto che il vero e sanissimo motivo della conversione dell’istruttrice milanese di ginnastica artistica risieda tutta qui: il momento folgorante, in cui scopri di avere più da imparare, che da insegnare.
Maren infatti ha presto scoperto che gli africani non solo sanno fare tante cose meglio di lui, ma anche che non sono fessi.
Infatti, venne a sapere che era finito in quel villaggio, e non in un altro, perché la piccola cricca dei notabili locali – il sindaco, il preside e il pastore evangelico – aveva pagato qualcuno al ministero della pubblica istruzione per far loro avere un insegnante americano, che avrebbe procurato loro un seguito maggiore. E soprattutto, doveva essere un insegnante bianco (il pastore rimase deluso, invece, quando venne a sapere che Maren era ebreo).
Dal Kenya, come Silvia Romano, Maren poi è passato in Somalia.
All’epoca quel paese incredibilmente complesso era governato da un certo Siyaad Barre, che da ragazzo pare avesse combattuto a fianco degli italiani in Etiopia, e da grande aveva deciso di convertire la Somalia al “Socialismo Scientifico“, con enormi manifesti che lo ritraevano accanto ai suoi amiconi bianchi, Marx e Lenin.
Nel 1977, Siyaad Barre cercò di annettersi l’Ogaden, una vasta fetta dell’Etiopia, abitata da nomadi somali: il governo etiope ricorse a russi e cubani che sconfissero i somali, e Barre in pochi giorni si trasformò in un alleato antisovietico degli Stati Uniti.
Un numero imprecisato di abitanti dell’Ogaden fuggirono in Somalia.
Gli Stati Uniti volevano pagare Barre; e lo fecero usando soldi pubblici, soldi della Commissione per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) e soldi di tanti americani facili da commuovere.
Barre si fece pagare in cibo, che serviva per nutrire il suo esercito, per ricattare gli oppositori, per arricchire i propri amici tramite la rivendita. E per farlo, impedì alle poche centinaia di migliaia di profughi veri di tornare nell’Ogaden. Un interesse che coincise con quello degli Stati Uniti di continuare ad appoggiare il suo governo e delle ONG di spillare soldi ad americani commossi.
Ora, noi sappiamo che se non si riesce a creare una statistica magica, l’Uomo Moderno non si commuove.
Per valutare quanto cibo serviva, il governo, le ONG, gli Stati Uniti concordarono sulla cifra del tutto fasulla di un milione e mezzo di profughi. E per questo, le ONG stroncavano ogni tentativo di contare il vero numero dei profughi (un poveretto che provò a fare un conteggio scientifico, non fu nemmeno pagato).
Più erano i profughi, più alti erano gli stipendi dei dirigenti di Save the Children e CARE mandati in Africa.
La distribuzione fu rendicontata (come direbbe la Signora Gelso) da persone calate da mezzo Occidente, che non sapevano una parola di somalo, non capivano nulla di una società incredibilmente complessa, arrivavano per poche ore nel campo profughi prima di tornare in serata ai club per stranieri a Mogadiscio e godersi il whiskey.
Ma erano molto, molto bravi a scrivere progetti e a fare parteneriati strategici, e ogni forma di ammuina.
Diceva Don Milani,
“Un operaio conosce cento parole, il padrone mille. Per questo lui è il padrone”
Ora, un nomade somalo possiede diecimila parole di una lingua straordinaria (anche gli arabofoni si ritirano di fronte all’immensità del somalo), ma di anglorendicontese ne possiede appena dieci.
ONG e militari andavano a caccia di foto dei pochi bambini – scovati tra quelli ammalati per altri motivi – che potevano essere spacciati ai giornalisti per morti di fame, il classico Negretto, insomma.
E lo fanno ancora oggi, trent’anni dopo:
Con la parte di cibo che avanzava all’apparato di Siyaad Barre, i nomadi divennero così clienti delle ONG: una breve pacchia, in cui poterono campare senza lavorare, anzi rivendendo il cibo che avanzava ai “non profughi” del posto, in cambio di dover far finta di seguire corsi di pochi ore per diventare “contadini” (il mestiere più disprezzato, nella cultura somala).
Ma questa pacchia divenne il cuore dell’economia somala, e distrusse in un colpo solo tutte le economie tradizionali – nomade, urbana, contadina.
Perché la Somalia, prima che la colonizzassero gli italiani e cercassero di aiutarla gli altri, era uno straordinario eco/antroposistema, in un contesto ambientale delicatissimo.
Un sistema a cui nessuna ragazzina di Milano e nessuna signora di Saronno ha qualcosa da insegnare (con la differenza che almeno la ragazzina di Milano è disposta a imparare).
C0sì la Somalia è collassata, Siyaad Barre è scappato in Nigeria, gli americani hanno buttato bombe su bombe, le ONG sono scappate.
E sono trent’anni che i somali pagano gli aiuti dei buoni, e i buoni si sentono buoni perché li aiutano.