La Verità, 29 settembre 2016
La sua faccia non sarà rassicurante e a qualcuno ricorderà forse il volto impassibile e glaciale del pugile russo Ivan Drago che sfida Silvester Stallone in Rocky IV.
Eppure, Vladimir Putin è ormai da tempo lo statista più longevo ed incisivo al mondo. Ha preso tra le mani un’ ex potenza allo sbando
e la ha riportata al centro della scena internazionale. Al punto che siamo oggi tornati ad una sorta di guerra fredda tra Usa e Russia, nonostante la Russia odierna sia davvero piccola cosa rispetto all’Urss di soli 30 anni fa.
Eppure nel 1998, pochi anni dopo la presidenza Eltsin, il paese viveva una crisi umana e finanziaria devastante ed era sull’orlo del default.
Ma da dove arriva Vladimir Putin? Il suo passato nel Kgb viene ricordato spesso e volentieri, ma nessuno, o quasi, sembra invece interessato a raccontare un altro fatto: che il maestro di Putin è stato nientemeno che il Premio Nobel per la pace Aleksandr Solženicyn.
Sì, l’autore di “Arcipelago Gulag“, colui che per decenni sfidò il regime comunista, dopo aver sperimentato la durezza dei campi di concentramento, è stato l’uomo che forse ha influito di più sulla visione del mondo dell’attuale presidente russo.
E’ Ljudmila Saraskina, in una monumentale biografia di 1432 pagine dal titolo “Solženicyn”, a raccontare i “frequenti, stretti, ma non sempre pubblicizzati” incontri tra Solženicyn – il grande vecchio, l’eroe del popolo russo nemico del comunismo, ma deluso dai nuovi politici “democratici” – e il giovane uomo politico che sembrava destinato, come tanti altri, ad essere una meteora, con molti nemici, in un paese in decomposizione.
Il primo incontro avviene il 20 settembre 2000 a Troice-Lykovo: sono i coniugi Putin a recarsi in visita a casa dello scrittore. Il giorno seguente Solženicyn, nel programma Vesti, dichiara di aver conosciuto un uomo dall’intelligenza vivace e pronta, “preoccupato del destino della Russia e non del potere personale“. L’ex agente del KGB in visita ad un’ex vittima del KGB! La notizia occupa per molto tempo i giornali russi, che dovranno tornare sovente sul tema, visto che i due continueranno a vedersi per anni, talvolta pubblicamente, talvolta in modo riservato, per sfuggire alle polemiche degli avversari.
Cosa insegna Solženicyn al suo giovane ammiratore? Essenzialmente tre cose: che occorre frenare la catastrofe demografica, che fa perdere alla Russia circa un milione di persone l’anno e che è figlia del nichilismo comunista ma anche di quello occidentale; che bisogna rivedere le privatizzazioni selvagge realizzate nell’epoca di Eltsin, e gestite a vantaggio di pochi, ai danni del popolo; che è necessario impedire che il passaggio dal comunismo alla democrazia liberale segni la morte definitiva dell’anima religiosa russa, traghettando il paese dal materialismo comunista al consumismo materialista occidentale.
Da dissidente anticomunista, Solženicyn ha imparato cosa significhi la dittatura vera e propria, con le sue blandizie (la neolingua menzognera, che trasforma l’essenza delle cose) e la sua incredibile durezza (i gulag, la pena di morte…).
Nei suoi anni negli Usa, invece, si è convinto dell’esistenza di un’altra forma di dittatura, più morbida ma egualmente mortale, quella del pensiero unico imposto dalla “tribù istruita”, dai maître à penser delle televisioni e dei giornali “liberi”. Sono loro, in un paese che appare allo scrittore russo “disgregato” moralmente, spiritualmente “insano”, a decidere cosa la gente debba leggere e cosa debba pensare, generando un conformismo asfissiante e molto simile a quello imposto in Unione Sovietica dal comunismo.
Putin ascolta ciò che Solženicyn gli dice, sul suo paese e sugli Usa, e farà ciò che gli è stato suggerito: limitando il ricorso all’aborto e sostenendo la famiglia; emarginando gli oligarchi e restituendo così allo Stato e ai russi i loro beni nazionali; riagganciando il suo paese alle tradizioni religiose combattute dal comunismo ed anche, in altro modo, in Occidente.
Quanto alla politica estera, per capire la posizione di Putin di oggi, occorre forse ancora una volta ricordare cosa pensava il suo venerato maestro, allorchè, nella primavera del 1999, commentando i bombardamenti a tappeto dell’amministrazione Bill Clinton sulla Serbia, dichiarava: “Non bisogna illudersi che l’America e la Nato abbiano come scopo la difesa dei kossovari… La cosa più spaventosa è che la Nato ci ha introdotti in una nuova epoca… chi è più forte, schiacci“.
Nel 2008, anno della sua morte, Solženicyn avrebbe dichiarato: “Impiantare la democrazia in tutto il pianeta. Impiantare! E infatti hanno cominciato a impiantarla. Prima in Bosnia. Con un bagno di sangue… Un grande successo, in Iraq! Un grande successo della democrazia. Adesso a chi toccherà? Chi sarà il prossimo? Forse l’Iran? … Non vale un soldo la democrazia che è arrivata con le baionette; da dieci anni stanno sviluppando il loro piano spudorato, la cui sostanza consiste nell’imporre in tutto il mondo la cosidetta democrazia all’americana“.
Ecco da dove proviene, almeno in parte, l’ avversione di Putin alla guerra in Libia (paese che, a sentire qualcuno, andava “liberato” dal tiranno), la sua politica in Siria, la sua simpatia per Trump (fiero smobilitatore della Nato), e l’ avversione per Hillary Clinton, la donna che ha votato sì a tutte le guerre per “impiantare” la democrazia.
Chi l’avrebbe mai detto che l’uomo che sfidò l’Urss, che svelò all’Occidente l’esistenza dei gulag, mettendo in crisi il comunismo internazionale, sarebbe poi diventato il consigliere, politico e spirituale, dell’uomo che oggi contende agli Usa il primato nella politica estera mondiale, e che nel contempo si contrappone anche sul terreno ideale della religione, della famiglia, dei cosiddetti diritti civili, alle politiche abortiste e pro LGBT di Obama e della Clinton?
Un intellettuale, al potere, dunque, anche dopo la sua morte? Così scrissero spesso i giornali russi, in quegli anni, paragonando il rapporto tra Solženicyn e Putin a quello tra Nicola I e Aleksandr Puškin. Certamente Solženicyn avrebbe detto di no: uomo coltissimo, si riteneva però un figlio del popolo russo. Considerava gli intellettuali una schiagura: propugnatori del comunismo, in Oriente, corruttori della libertà e della verità, in Occidente.
La Verità, 29 settembre 2016