All’interno della sinistra di matrice keynesiana è attualmente in corso un acceso dibattito tra “sovranisti” ed “europeisti” che vede da un lato i sostenitori della sovranità monetaria nazionale, il cui obiettivo è l’uscita ragionata e controllata dall’euro, e dall’altro lato i sostenitori della moneta europea, e del sistema di cambio fisso che essa comporta, ma da riformare secondo un approccio “brettonwoodiano” per il quale la moneta unica dovrebbe diventare moneta comune legata alle monete nazionali (euro-lira, euro-pesetas, euro-franco, euro-marco, etc.) con un rapporto di cambio fisso però oscillante all’interno di una fascia di flessibilità concordata.
Visto sotto un profilo filosofico-politico e storico il dibattito in questione assume il volto della controversia tra “nazionalisti” e “(con)federalisti” e suggerisce, per l’appunto, alcune considerazioni storico-filosofico-politiche.
Il nemico di entrambi detti schieramenti, interni alla sinistra, è l’attuale sistema eurocratico a trazione tedesca. Un sistema che ha le sue radici nell’ordoliberalismo o, secondo alcuni, nell’applicazione che dei postulati di detta scuola avrebbe malamente fatto la Germania liberalconservatrice. Per ordoliberalismo deve intendersi un (neo)liberismo radicale, di matrice mercantilista, unito ad un rigido controllo statale sul rispetto dei postulati del paradigma economico liberale di mercato, ad iniziare dal pareggio dei bilanci pubblici, “consacrati” nella stessa carta fondamentale dello Stato ossia la Costituzione.
Un dibattito come quello di cui sopra non è affatto nuovo nella storia della sinistra. Un suo antecedente immediato è l’analogo dibattito che divise la sinistra europea a cavallo tra XIX e XX secolo tra “socialisti nazionali” e “socialisti internazionalisti” e che in Italia, nel 1914/15, assunse il volto dello scontro politico tra “interventisti” e “neutralisti”.
Al momento del profilarsi della Grande Guerra il mito internazionalista del marxismo, a dispetto della presunta unità transnazionale di classe del proletariato, ebbe una totale smentita dall’adesione dei diversi partiti socialisti europei alle rivendicazioni, anche economiche, delle rispettive nazioni. Se la socialdemocrazia tedesca aderì, perfino entusiasticamente, alla guerra del Kaiser in difesa della kultur nazionale germanica contro le democrazie borghesi occidentali, il partito socialista francese non disdegnò la sirena del revanscismo per l’Alsazia-Lorena fino ad aprire alla collaborazione di classe con la borghesia nazionale per l’avanzamento sociale del proletariato, in nome dell’ideologia “produttivista”, ossia dell’unità tra tutti i produttori, imprenditori ed operai, che più tardi Mussolini avrebbe ripreso quale bandiera del primo fascismo socialista. Una analoga adesione alle ragioni nazionali ed antitedesche del proprio Paese manifestò il Labour Party, già di per sé ben inserito, quale ala riformista, nel sistema istituzionale parlamentare inglese.
In quei frangenti storici forse solo in Italia la sinistra non fu compatta nell’aderire alla guerra nazionale suddividendosi tra la corrente interventista, che nella guerra nazionale vedeva l’occasione per una trasformazione rivoluzionaria anche in senso classista ossia antiborghese della nazione, e quella neutralista, che si opponeva alla avventura bellica in nome del rifiuto internazionalista a combattere la guerra delle borghesie nazionali (1).
Nel primo dopoguerra proprio in Italia e, successivamente, in Germania, benché l’una nazione vincitrice e l’altra nazione sconfitta, la sinistra socialista nazionale riuscì a conquistare il potere, mediante un parziale compromesso con le forze conservatrici, instaurando regimi autoritari/totalitari caratterizzati da una forte connotazione di massa, modernizzatrice e di avanzata trasformazione interclassista della nazione, non sempre e non comunque favorevole al capitale finanziario-industriale.
Sovranità monetaria, pubblicizzazione o nazionalizzazione della banca centrale, protezionismo (con tanto di surrogati per le merci di importazione), intervento “keynesiano” dello Stato in economia attraverso l’IRI, l’IMI e l’Agip (l’antesignana dell’ENI di Enrico Mattei) – tutte riforme che poi aprirono la strada al decollo economico del secondo dopoguerra – caratterizzarono, infatti, le politiche attuate, dopo il 1929, dal fascismo in Italia, per rispondere alla crisi. Non per caso, dunque, Franklin Delano Roosevelt inviava i suoi tecnici in Italia per imparare dal regime fascista come lo Stato potesse intervenire e pianificare l’economia in senso dirigista. Solo chi non conosce le radici socialiste, in quei frangenti tornate a riaffiorare, del fascismo (che rappresentò una forma di democrazia autoritaria giacobina, dal forte consenso di massa) può non rendersi conto che anche Keynes, quando indicava quale fattore da privilegiare nelle politiche economiche la domanda aggregata “interna”, era figlio del suo tempo, ossia del tempo nel quale lo Stato nazionale ottocentesco stava trasformandosi nello Stato sociale novecentesco.
Se questa trasformazione ebbe connotati democratici in America (tuttavia Roosevelt fu un inflessibile decisionista che ruppe con la tradizione conservatrice americana, tanto è vero che entrò in forte contrasto con la Corte Suprema roccaforte del conservatorismo liberale) altrove la medesima trasformazione, per ragioni storiche e nazionali, seguì appunto la via della mobilitazione di massa attuata dai regimi dirigisti di tipo fascista, ispirati al mix ideologico, “eterodosso” rispetto alle matrici originarie, di socialismo e nazionalismo.
Quando, nel dibattito attualmente interno alla sinistra keynesiana, un Sergio Cesaratto confronta l’illusorio internazionalismo di Marx (l’unità mondiale l’ha realizzata il capitale, in particolare quello finanziario, non i proletari) con il realismo dell’economia politica dirigista e nazionale proposta da Friederich List, fino a definire l’europeismo come un errore storico della sinistra, non fa altro che, forse senza neanche rendersene conto, ammettere le ragioni di quello Stato nazionale e sociale considerato “fascista” dalla sinistra marxista proprio perché capace di comporre nazionalmente il conflitto sociale (2). Lo stesso Cesaratto non esita, infatti, a simpatizzare apertamente con l’attuale neoperonismo argentino, quello della Kirchener, erede di quell’esperimento di socialismo nazionale che fu il peronismo anni ’40, quasi contemporaneo del socialismo nazionale arabo di Nasser.
Quando un Alberto Bagnai, anche apprezzando le posizioni nazionali di un liberale come Ernesto Galli Della Loggia, rivendica allo Stato nazionale la sovranità sul cambio, in base alla, per altro veritiera, motivazione per la quale storicamente la classe lavoratrice ha ottenuto notevoli progressi sociali soltanto nella cornice istituzionale dello Stato nazionale, non fa altro, forse con maggiore consapevolezza di altri (3), che difendere e, soprattutto, unire insieme Classe e Nazione esattamente come fecero i settori “nazionalisti” del socialismo all’inizio del secolo scorso. Bagnai, dunque, ritiene una necessità attuale far ricorso alla stessa “politica autarchica” degli anni ’30. Infatti, in quel periodo storico, autarchica, nel senso della priorità della domanda interna a sfavore delle importazioni, non fu solo la politica economica del fascismo italiano ma anche il New Deal americano.
Ora, ci sembra che nelle discussioni come quella in atto a sinistra, tra “sovranisti”, “europeisti” ed addirittura “globalisti”, venga al pettine l’irrisolto nodo politico e storico della sinistra medesima: perorare ancora l’internazionalismo, oggi il globalismo, oppure difendere il lavoro dentro lo e con lo Stato che, per sua natura e storia, è la forma politica moderna della Nazione?
Torniamo, quindi, come si diceva, esattamente allo stesso dibattito che animò la sinistra europea, a cavallo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, sospesa, come era, tra massimalismo rivoluzionario (la cui punta avanzata era nel sindacalismo rivoluzionario, poi confluito nel “fascismo di sinistra”) e riformismo alla Turati. I socialisti massimalisti finirono per incontrarsi con la Nazione e videro nella prima guerra mondiale l’occasione storica per la trasformazione sociale, modernizzatrice, dei rispettivi Paesi. Non a caso, come detto, i socialisti francesi e la socialdemocrazia tedesca finirono per scendere in campo a favore della guerra. Non a caso, bisogna aggiungere, Lenin, alludendo a Mussolini, rimproverò i comunisti, esuli nel 1924 in Urss, per essersi lasciati sfuggire l’unico socialista capace di fare la rivoluzione in Italia (4).
Altri, cruciali, tempi, senza dubbio. La storia non si ripete mai identica a sé stessa. Però spesso idee e dibattiti, quelli sì, tendono a riproporsi in forme neanche tanto dissimili. Appunto, come accade ora all’interno della sinistra tra “europeisti/globalisti” e “sovranisti”. Chi vincerà? Ai posteri l’ardua sentenza …
Luigi Copertino
NOTE
- Questa suddivisione non fu propria della sola sinistra ma coinvolse anche i cattolici ed i liberali. Infatti alcuni settori del mondo cattolico, tra i cui esponenti di rilievo va in quelle circostanze annoverato anche don Luigi Sturzo, operavano già da tempo per il superamento del “non expedit” e quindi per un riavvicinamento tra Chiesa e Stato liberale nato dal Risorgimento. Questo comportava per i cattolici, impegnati in tal senso, una prudente e comunque sempre parziale accettazione di una certa “nazionalizzazione ecclesiale” tale da presentare la porzione italiana della Chiesa universale quale fedele allo Stato unitario ed alle sue leggi, a condizione però che quest’ultimo revocasse la legislazione e la prassi anticristiana, di matrice liberal-massonica, con cui aveva, unilateralmente, creduto di risolvere il problema religioso. Il ripristino dei cappellani militari nel regio esercito e l’appoggio, perfino entusiastico, di parte del mondo cattolico alla guerra di Libia del 1911 (Sturzo in quell’occasione scrisse articoli “infuocati” di passione nazionale) furono segni del riavvicinamento in atto, che più tardi sfocerà nella Conciliazione del 1929. Sicché se ufficialmente la Chiesa, al momento dello scoppio della prima guerra mondiale, mantenne, doverosamente, una posizione neutrale e super partes, e lo stesso Benedetto XV denunciava l’“inutile strage” per il disappunto dei belligeranti ed in particolare dell’Italia che impose alla Conferenza di Pace l’allontanamento della delegazione vaticana, d’altro canto molti settori cattolici appoggiarono, più o meno apertamente, la “patria in armi” magari anche con pretesti confessionali (benché questi, mentre potevano essere fatti valere contro il Reich Guglielmino, in parte protestante, non potevano esserlo contro l’Austria-Ungheria nostra diretta avversaria sui campi di battaglia). Anche i liberali dovettero scegliere tra la fedeltà sabauda alla causa nazionale, di cui il primo conflitto mondiale costituiva in tale ottica la “quarta guerra di indipendenza”, e il più generale, ed anche generico, pacifismo umanitario di matrice liberal-cosmopolita. La maggior parte di essi preferirono la fedeltà sabauda nazionale.
- S. Cesaratto “Fra Marx e List – sinistra, nazione, solidarietà internazionale” sul blog personale dell’autore “Politica&EconomiaBlog” ora disponibile anche sul sito www.sinistrainrete.it.
- Per constatare detta consapevolezza invitiamo alla lettura della sferzante e realistica critica che A. Bagnai fa a coloro che si illudono sul globalismo, benché di segno terzomondista, in goofynomics.it “Il troskista ed il vandeano” 14.03.2012.
- Lenin, che era stato esule per anni in Svizzera, aveva avuto notizie, dalla socialista rivoluzionaria ebrea Angelica Balabanoff amica, forse amante, e collaboratrice del futuro Duce, circa il giovane socialista rivoluzionario Benito Mussolini anche lui esule, per motivi politici, nella Confederazione Elvetica negli stessi anni nei quali il capo del bolscevismo russo vi soggiornava pur senza incontrarlo di persona. D’altro canto è nota l’ammirazione di Lenin per il D’Annunzio dell’impresa fiumana che fu caratterizzata dal tentativo di instaurare nella città istriana una repubblica democratica e socialista fortemente sbilanciata a sinistra, benché i primi seguaci del Poeta pescarese fossero nazionalisti irredentisti. A questi, però, ben presto si aggiunsero repubblicani e socialisti mazziniani, come Alceste De Ambris, e sindacalisti rivoluzionari che portarono l’esperimento verso posizioni apertamente di sinistra. Alceste De Ambris fu l’elaboratore della “Carta del Carnaro”, la Costituzione del Libero Stato di Fiume, poi ritoccata in senso più aulico da D’Annunzio in persona, la quale, anticipando di decenni altri testi costituzionali compreso quello attuale della Repubblica italiana, introduceva concetti come quelli della “funzione sociale della proprietà”, della presenza statuale e sindacale in campo economico nonché del forte autonomismo comunale, su un modello “neomedioevale” condiviso con diversi esponenti del sindacalismo rivoluzionario italiano quali Sergio Panunzio. Fu per questi caratteri socialisti assunti dall’“impresa dannunziana” che Lenin inviò presso il Vate il proprio commissario Cicerin nella speranza di fare di Fiume una città rivoluzionaria internazionale dalla quale far partire l’incendio della rivoluzione mondiale. Sui rapporti tra Lenin, Mussolini e D’Annunzio si vedano gli studi di Renzo De Felice nella sua monumentale biografia di Mussolini edita, in quattordici volumi, per Einaudi.