di Roberto PECCHIOLI
Il dibattito elettorale è un baccano di accuse e contro accuse, pettegolezzi e insinuazioni che mascherano a malapena appetiti personali e lotte di cricche autoreferenziali. Pochi programmi o nessuno, fotocopie sbiadite l’uno dell’altro, indifferenza per i problemi reali degli elettori, che infatti si tengono alla larga e probabilmente polverizzeranno ogni record di astensione dal voto il 25 settembre.
C’è, in queste stanche procedure che appassionano sempre meno poiché sempre meno conta la politica, un convitato di pietra: la sovranità. E’ il principio base di ogni ordinamento che sia autonomo; il diritto romano la sintetizzava in una formula che fa arrossire guardando la realtà italiana: auctoritas superiorem non recognoscens. La sovranità è il possesso e l’esercizio del potere che, in un determinato territorio, non riconosce altra autorità che la propria. Imbarazzante il paragone con l’Italia reale che un lavaggio del cervello di lungo periodo descrive come libera e democratica.
Il ministro Cingolani si è dimostrato un fine umorista affermando che l’Italia non subisce alcuna ingerenza esterna: tutte le decisioni, secondo uno dei principali funzionari italiani del globalismo, sono farina del sacco della classe dirigente. Tenuto conto degli esiti – dai frutti li riconoscerete, disse Gesù- parrebbe una confessione di clamorosa imperizia. Come nel Sessantotto, potremmo dire: una risata li seppellirà. Non è così: Cingolani ha ragione. Le classi dirigenti italiane- burocratiche, politiche, finanziarie ed economiche- sono talmente servili e dipendenti da poteri esterni che non hanno bisogno di prendere ordini. Svolgono il loro compito d’iniziativa, come certi maggiordomi inglesi così adusi a servire, tanto compenetrati nel loro ruolo, da eseguire la volontà dei padroni prima che vengano impartite le disposizioni.
Sovranità perduta, dunque, ma addirittura sovranità taciuta, un tema che, per una silenziosa convenzione tra le parti, non viene più sollevato. E’ una costante plurisecolare del nostro carattere nazionale accapigliarci in conto terzi, senza dignità e con la convinzione – smentita dalla storia- di essere talmente astuti da perseguire i nostri interessi (individuali) con la livrea da cameriere o il grembiule unto dello sguattero. Guelfi e ghibellini, ovvero servitori di poteri estranei.
Eppure la sovranità è scritta nell’articolo 1 della costituzione, la cui lettura – alla luce della storia e dell’esperienza- sembra la battuta di un comico involontario. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Non dubitiamo delle intenzioni dei costituenti, ma se ciò che vedono gli occhi è vero, qualcosa non torna. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, recita il secondo comma. La subordinata – “le forme e i limiti della Costituzione” – non ci ha mai convinto. La sovranità non emana da una legge: è l’atto supremo di volontà di un popolo che decide di “costituirsi”, non ha limiti e non accetta vincoli.
Polemiche da pedanti. La sostanza è la fine della sovranità – nazionale o popolare è lo stesso- e il silenzio che circonda tale perdita. Dovremmo, come per il concetto di libertà, parlarne al plurale: le sovranità che, tutte insieme, costituiscono il mosaico comune di un popolo che si fa Stato. In questi termini, il quadro è ancora più fosco: al di là della perdita della sovranità popolare e nazionale, possediamo forse la sovranità finanziaria ed economica, quella energetica, la sovranità militare e alimentare, controlliamo le reti di comunicazione? Siamo padroni della nostre frontiere? I beni comuni essenziali – a partire dall’acqua- sono indisponibili a interessi esteri o privati? Il lavoro su cui sarebbe fondata la repubblica, è tutelato, garantito, messo al centro dello spazio pubblico? Il lettore conosce la risposta.
Ciononostante, la politica tace, glissa e addirittura è messo all’indice chi invoca la sovranità, deriso, vilipeso, considerato un bizzarro residuo dell’oscuro passato. Anche i movimenti che sino a qualche anno sollevavano il tema, sembrano diventati afoni. Occorre dunque prendere atto che la perdita di sovranità è un fatto, un elemento della nostra storia, parallelo alla generale perdita di funzioni degli Stati nazionali.
Va dunque esaminata con la lente dello storico e del sociologo, se possibile con il criterio di avalutatività prescritto da Max Weber. La sovranità, per gli italiani, è probabilmente un impaccio, un fastidio dal quale liberarsi, per la secolare abitudine di dipendere dallo straniero. Del resto, anche il concetto di straniero è profondamente mutato, nell’epoca che privilegia un atto burocratico – la cittadinanza- su un principio comunitario, naturale e immateriale come la nazionalità.
Non è questione di essere nostalgici della sovranità e della dimensione nazionale, ma di esaminare freddamente i pro e i contro. Innanzitutto, conviene la sovranità? Sì, se si è un popolo, se si ritengono prevalenti le ragioni che ci tengono insieme e quelle per le quali noi siamo “noi” rispetto a tutti gli altri. Conviene se si vogliono mantenere e trasmettere i principi, la cultura, l’identità, la lingua “nostri” e non essere una semplice provincia o colonia. E’ un’urgenza assoluta se si intendono tutelare i propri interessi concreti, in particolare rispetto all’invadenza di organizzazioni transnazionali e poteri di fatto, non elettivi e non provenienti dai popoli. Conviene, infine, se si considerano l’indipendenza, l’autonomia, il comandare a casa propria, un requisito essenziale dell’essere comunità.
Temiamo che la storia ci dica impietosamente che non è il caso del popolo italiano (se esiste e ha coscienza di sé). Per questo, sarebbe opportuno – per sincerità e chiarezza- ammettere la fine del simulacro di sovranità e indipendenza formale che restano allo Stato, alla nazione (se esiste ed ha coscienza di sé) alle istituzioni nazionali e statuali, sciogliendoci nel calderone di un’unione euro occidentale in cui siamo un piccolo spazio, una portaerei verso il sud del mondo, una Disneyland turistica, un museo di pietre e reliquie di una grande, ma trapassata cultura.
Con la brutale chiarezza dei padroni, Mario Draghi ha affermato che non c’è più politica, ma il “pilota automatico”, ovvero un’agenda obbligata calata dall’alto che le istituzioni nazionali – quel che ne resta, governi, parlamenti e democrazia formale- devono seguire senza derogare. Fedeli alla linea, come nel vecchio mondo comunista del centralismo democratico.
E’ inutile illuderci: è esaurita la stagione storica degli Stati nazionali, invenzione del liberalismo ottocentesco per sconfiggere gli imperi in nome dell’apertura dei mercati. Finiti, o svuotati gli Stati, restano le nazioni, la cui persistenza era meglio difesa dall’imperium, il cui comando e missione superiore era l’unità nelle diversità, personificata dalla continuità dinastica dei sovrani. Quel tempo finì con la sconfitta degli imperi nella prima guerra mondiale, determinando l’inizio della decadenza europea oltreché l’era dei totalitarismi. Paul Valéry, prima di Spengler e di Toynbee, scriveva: adesso noi, le civiltà, sappiamo di essere mortali.
Agli uomini, tuttavia, alle loro comunità concrete, serve uno spazio pubblico di decisione, identificazione, riconoscimento, responsabilità. E’ questa, nei fatti, la sovranità: rivendicare, prendere nelle mani il destino della propria gente, proiettarlo in un progetto orientato al futuro e su tali presupposti portare avanti principi e interessi della comunità di appartenenza, avendo il coraggio (e la forza) di difenderli da interferenze, appetiti e diktat estranei. Il fondatore della scienza politica, Nicolò Machiavelli, descrive la sovranità come la capacità di uno Stato di battere moneta (sovranità economica e finanziaria) e disporre di un esercito ai propri esclusivi comandi. Due pilastri dell’indipendenza che abbiamo perduto.
Per carità di patria evitiamo di approfondire che l’Italia ha ancora lo status di potenza sconfitta, a quasi ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, nonostante la vulgata corrente lo neghi in nome della liberazione dal fascismo. Non solo i trattati internazionali – e i protocolli riservati- impediscono alla nostra nazione il libero dispiegamento di truppe, la produzione autonoma e il possesso di armamenti- ordini dei vincitori del passato che non passa- ma ci inchiodano ad alleanze il cui scopo era proteggerci da un pericolo finito oltre trent’anni fa.
L’aggravante è che l’Italia ha ufficialmente riconosciuto, attraverso i più alti organi giurisdizionali, la prevalenza delle norme dell’Unione Europea sulle proprie, di fatto azzerando la portata dello stesso articolo 1. La sovranità, nei fatti e in diritto, non è più del popolo italiano. Nessun partito, coalizione o capo politico può realizzare un programma autonomo. Il pilota automatico sono i trattati di funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), le potenti burocrazie dell’Unione, gli amplissimi poteri in materia monetaria e finanziaria conferiti alla Banca Centrale Europea, gli impegni presi (una volta e per sempre?) con la Nato, alleanza militare e politica dominata dagli Usa. Il percorso di qualsiasi governo è obbligato e segnato.
Inoltre, c’è l’enorme potere di organizzazioni transnazionali economiche e finanziarie come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Siamo pieni di vincoli esterni, l’ultimo dei quali è il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), infernale mezzo di stritolamento dell’autonomia politica ed economica, mentre la pandemia ha evidenziato l’enorme potere dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), emanazione dell’ONU in mano ai suoi finanziatori privati, da Bill Gates a Big Pharma.
Alla luce di tutto ciò, risulta persino ovvia la scelta della colonia Italia di essere amministrata dal massimo rappresentante su piazza dei poteri esterni, Mario Draghi. Se agli italiani fosse detta la verità dall’assordante circo mediatico a voce unica, sarebbe chiaro che il compito del banchiere centrale, ex funzionario di lungo corso della più influente banca d’affari del mondo, Goldman Sachs, non è fare il bene del nostro popolo, ma gli interessi delle oligarchie di cui è esponente.
Il dibattito che non c’è- quello sulla sovranità e le sovranità- è il convitato di pietra del baraccone politico ed elettorale e, inevitabilmente, sarà il macigno su cui andrà a sbattere qualunque governo e classe politica. Tuttavia, un dibattito sulla sovranità è ineludibile e passa per la presa di coscienza, da parte della popolazione, di quanto le procedure politiche, lo stesso totem democratico, siano gravate da un’impotenza originaria dettata dall’aver rinunciato a ogni forma di sovranità, dunque ad affermare e difendere l’indipendenza e l’interesse nazionale e popolare.
In particolare, è urgente recuperare quote di sovranità nelle politiche economiche, finanziarie ed energetiche. Per Machiavelli il principe deve essere insieme volpe e leone. Non possiamo invocare leoni inesistenti, ma sarebbe opportuno che il futuro comune fosse nelle mani di qualcuno deciso a recuperare con l’astuzia della volpe almeno gli spazi di autonomia lasciati dagli interstizi, dalle fenditure dei trattati internazionali, specie rispetto alle politiche dell’Unione Europea e della BCE.
Indro Montanelli aveva ragione quando scrisse che i tedeschi e i francesi sarebbero entrati in Europa da tedeschi e da francesi e gli italiani da europei, ovvero dimenticando i propri interessi. Gli spazi sono ristretti, poche le crepe del sistema che ci soffoca, ma la posta in gioco è la sopravvivenza dell’Italia come Stato autonomo e indipendente, ossia sovrano. La domanda è : questo sta a cuore al nostro popolo? Tremiamo a dare una risposta. I prossimi anni saranno quelli della decisione. Finale, probabilmente irrevocabile, almeno dalle generazioni oggi viventi.
L’essenziale sembra invisibile agli occhi dei popoli sviati, accecati, ingannati. E, nel caso nostro, autoingannati, finanche ansiosi di sottrarsi alla responsabilità, al mare aperto della libertà, al duro esercizio della sovranità. Al di là della retorica costituzionale o patriottarda, vogliamo ancora essere sovrani, padroni della nostra casa? Vogliamo ancora essere l’Italia?