di ROBERTO PECCHIOLI
La vita è sogno. E i sogni, sogni sono; così si conclude il capolavoro di Calderòn de la Barca. Il concetto di Stato di diritto appare sempre più un sogno al cui risveglio si resta interdetti al cospetto della realtà. Ma forse la vicenda umana è solo una rappresentazione, un teatro in cui ognuno ha la sua parte, una trama intessuta nel gioco, nel senso descritto da Johan Huizinga nel suo fondamentale Homo ludens. Nella coscienza il gioco si oppone alla serietà della vita, nonostante esso pervada ogni nostra attività. Huizinga mostrò che persino nella sfera del diritto, a prima vista tanto distante, sussiste una certa affinità con il gioco “non appena notiamo che la pratica del diritto (…) possiede al massimo grado il carattere competitivo, qualunque possano essere le basi ideali del diritto. “
Ciò vale anche per l’enorme iato tra teoria (sogno, gioco) e realtà dello Stato di diritto. Questa orgogliosa acquisizione degli Stati liberali ha varie definizioni, ma tutte convergono nel primato della legge scritta, dei principi di generalità ed astrattezza, nella validità erga omnes. Nello Stato di diritto ciascuno sa, o dovrebbe sapere immediatamente ciò che può o non può fare. La divisione dei poteri, teorizzata già da Montesquieu, dovrebbe fare il resto, definire cioè chi ha l’autorità legale per fare o impedire qualcosa, quali sono le procedure da seguire, quali organi di garanzia esercitano funzioni di controllo e quali è possibile adire se si è lesi in un diritto o in un interesse.
E’ il principio di legalità, in virtù del quale i pubblici poteri sono soggetti alla legge, la quale a sua volta ha una gerarchia riconosciuta al vertice della quale dovrebbe stare la Costituzione. Citiamo dalla definizione del dizionario giuridico: “a differenza dello Stato assoluto, in cui la sovranità coincide con la volontà illimitata del sovrano, nello Stato di diritto si afferma il principio della legittimità del potere che si traduce nell’esigenza di assoggettare lo Stato al diritto, eliminando ogni possibilità di un suo agire arbitrario.” Fin qui il sogno, o la teoria; poi vengono i fatti, l’esperienza di chi vive e veste panni. La conclusione per l’Italia è sconfortante.
Una riflessione preliminare lunga, noiosa, ma volta a introdurre un ragionamento complessivo a partire da due fatti diversi uniti da una comune matrice, la confusione di poteri che regna in Italia da almeno 25 anni. Parliamo delle polemiche legate alla caduta del Ponte Morandi e dell’indagine a carico di un ministro in carica, Matteo Salvini, per reati gravissimi, fino al sequestro di persona, nella vicenda del blocco della nave Diciotti, e più in generale di una serie di comportamenti, atti, situazioni in cui l’impressione è che diritto e rovescio si confondano. La confusione è insieme conseguenza e prova dell’erosione di sovranità che l’Italia ha subito al proprio interno e nei rapporti internazionali.
Nel caso dell’iniziativa giudiziaria che riguarda Salvini, è forte la convinzione che si intenda bloccare l’azione governativa in materia di immigrazione, mentre ciò che è emerso finora nella questione del crollo è un intreccio incredibile, una commistione tra governi, istituzioni come il rimpianto Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), i suoi dirigenti, un grumo di potere fortissimo radicato nello schieramento di centrosinistra, nelle grandi banche e nell’economia, con coperture e amicizie ai più elevati livelli transnazionali.
La serietà dei temi è tale che non resta che affrontarli ludicamente, come suggerisce la battuta virale secondo cui è indagato anche il Piave che mormora “non passa lo straniero”. Ironia di strada, ma grottesche appaiono le serissime affermazioni di chi nega ogni responsabilità del crollo (Autostrade, i controllori, chi ha privatizzato al ribasso le infrastrutture stradali), battute o colpi di calore estivo le seccate articolesse di intellettuali di servizio come il celebrato philosophe francese Bernard Henry Levy, mobilitato per attaccare i “populisti” e la loro fastidiosa volontà di individuare i responsabili della catastrofe.
Lo Stato di diritto è sempre più avulso dallo sfortunato paese in cui il potere teoricamente sovrano non può svolgere la propria politica di difesa dei confini – il massimo della sovranità- perché parte della giurisdizione (un potere dello Stato che trae legittimità dalla sovranità popolare) ritiene che le scelte governative siano reati. Nel caso del ponte è emersa la vergognosa politica delle privatizzazioni degli anni 90, e si resta sbalorditi non solo dai fatti, dalle cifre, dalla presenza continua dei soliti personaggi di un potere costruito a porte girevoli, ma dalla presenza nel collegio difensivo della società Autostrade dei Benetton di due ex ministri di giustizia del centrosinistra, Paola Severino, autrice della legge che ha estromesso Silvio Berlusconi, nonché Giovanni Maria Flick, in successione membro e presidente della Corte Costituzionale.
Check and balance, controllo e bilanciamento, è l’espressione con la quale si indicano i meccanismi politico-istituzionali finalizzati a mantenere l’equilibrio tra i vari poteri dello Stato. Barzellette, giochi, evidentemente, o storie edificanti ad uso di chi ci crede nonostante l’evidenza. Altra anomalia italiana, il conflitto di interessi, irrisolto per reciproca convenienza nel caso di Berlusconi, ma diffuso ad ogni livello nel nostro bizzarro Stato di diritto. Controllori e controllati in rapporti tra loro, commistioni, zone grigie, dovunque reti di relazioni inestricabili che forse non costituiscono reato, ma sono un ostacolo enorme per uno Stato di diritto.
Il sospetto non è l’anticamera della verità, né vogliamo unirci ai troppi Robespierre in servizio alternato, inflessibili con gli avversari, permissivi con gli amici, ma troppe cose non convincono. Il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, è magistrato esperto, preparato e equilibrato, ma i suoi ruoli passati in organismi fiduciari di governi di centrosinistra lasciano perplessi al momento di indagare su uno scandalo come quello del ponte. Il potere della magistratura è sicuramente eccessivo, troppe sentenze della Cassazione sembrano costruire frammenti di un diritto nuovo non previsto dalle norme, ma questo è solo un pezzo del problema.
I due corni del dilemma ci paiono lo scarto enorme tra legge formale e sua applicazione, a partire dalla Costituzione materiale che ha ampiamente sostituito quella scritta, e l’accettazione della supremazia del diritto dell’Unione Europea sulla legislazione nazionale. A latere, si consolida il potere di varie burocrazie in grado non solo di bloccare quanto loro sgradito, ma di orientare la legislazione ed esercitare un potere di fatto che rende debolissime le istituzioni politiche e tiene in scacco i cittadini. I grandi temi si infrangono nella dura lotta di ogni giorno, per cui lo Stato di diritto è un sogno allorché si tratta di ottenere una prestazione sanitaria o un’analisi clinica in tempi ragionevoli, viaggiare sui mezzi pubblici puliti, rispettosi degli orari, dove chi paga il biglietto non è un fesso e dove i prepotenti e i disonesti non sono tollerati, vivere in città dalle quali siano cacciati malviventi domestici e d’importazione.
Lo Stato di diritto diventa facezia che non muove al riso nel caso dei ventimila insegnanti di ruolo tornati precari per una sentenza del Consiglio di Stato, poiché in Italia i gruppi di pressione si organizzano e rendono difficile la vita quotidiana e l’azione legislativa. Nel piccolo, lo Stato di diritto è assente allorché milioni di pensionati devono rendere complesse dichiarazioni periodiche per ottenere detrazioni e richiedere diritti che non valgono una volta per tutte. Diventa vano chiedere legalità, al di là delle pompose liturgie del potere, in una nazione nel quale oltre il 90 per cento dei furti resta impunito e spesso non è neppure denunciato, tanto non ci sarebbero indagini se non in casi clamorosi, con grande gioia di farabutti per i quali vige un particolare ius soli, poiché scelgono volentieri l’Italia come patria di elezione. Di rapine e estorsioni impunite siamo maestri per merito delle mafie che, vergogna nazionale, abbiamo largamente esportato.
Il potere reale, si sa, è esercitato dal denaro. Le vessazioni delle banche sono esperienza di tutti. Sappiamo tutti quanto pesano le spese incomprensibili, le difficoltà opposte spesso al prelevamento e all’uso del proprio denaro, per tacere gli ostacoli per prestiti e mutui, le autentiche vessazioni a carico di chi è in difficoltà, senza che esista un’autorità cui ricorrere, un sistema di difesa contro il potere devastante del denaro che svuota la democrazia.
Ma, avverte Karl Popper, viviamo in una società aperta, la migliore possibile nella storia. Tanto aperta che varie leggi limitano il libero pensiero, in barba all’articolo 21 della Costituzione. Negli ultimi anni la stretta si è fatta più soffocante, toccando temi come la cosiddetta omofobia, il divieto di esprimere preferenze o antipatie, ridefinite in blocco discriminazioni. Un’medico, la dottoressa Silvana De Mari, è processata per aver espresso un’opinione clinica sulla pericolosità di certi rapporti sessuali, ogni riunione pubblica di gruppi sgraditi al sottopotere di fatto è un percorso di guerra burocratico che nega clamorosamente il diritto di “riunirsi pacificamente e senz’armi”, un diritto risalente allo statuto albertino del 1848.
Le scarcerazioni di malavitosi incalliti sono facili e frequenti, e non è colpa di magistrati faciloni se le norme esistono. La libertà personale viene negata a qualcuno, ma lasciata con impudenza a stupratori e spacciatori, fino a una sentenza che ne ha liberato uno in quanto l’attività di spaccio è il mezzo di sussistenza di quel gentiluomo. Sicari professionisti, borseggiatori e truffatori sono avvertiti, specie se stranieri. Lo Stato di diritto, infatti, pare applicarsi con maggiore elasticità ai non italiani. Le carceri sono strapiene, tanto da divenire un inferno non per la severità della legge, ma per i posti limitati, con la conseguenza che si promulgano normative e dettano circolari tese a svuotarle, ma non risulta un piano di costruzione di nuove prigioni per rinchiudervi chi lo merita.
Molte leggi italiane soffrono di un difetto che affligge anche le Costituzione: dicono e non dicono, affermano e contemporaneamente derogano. Spesso rimandano a regolamenti che non vengono emessi o contrastano con la norma, per la gioia degli avvocati che, legittimamente, resistono nei processi e dai processi. L’ipertrofia legislativa unita alla scarsa applicazione pratica deve essere un difetto permanente del nostro popolo, se già Dante scrisse “le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” e Alessandro Manzoni citò le grida, ovvero i decreti del tempo dei Promessi Sposi, che nessuno osservava e l’autorità ignorava.
Tuttavia, siamo afflitti contemporaneamente da un eccesso di prescrizione dei reati e da termini abnormi, oltreché da istituti francamente ridicoli, come i 45 giorni annui, tra luglio e agosto, in cui le prescrizioni si sospendono. Summum ius, summa iniuria, il massimo delle leggi si accoppia al massimo di ingiustizia: in Italia nessuno sa con precisione quante norme siano in vigore; accogliamo ogni anno migliaia di regolamenti dell’Unione Europea, emanati da una Commissione non eletta e, in parte, da un parlamento senza potestà legislativa. La recezione è automatica e se le norme nazionali in materia sono divergenti, decadono, in spregio alla sovranità popolare fondamento dello Stato di diritto.
Lo stesso immenso potere della magistratura, che non si riesce a scalfire neppure per separare funzioni e carriere tra chi indaga e chi giudica, traballa di fronte al nuovo diritto privato che si fa pubblico. Tramontato il Trattato Transatlantico, avanza il CETA, la versione in salsa canadese, che metterà gli Stati ex sovrani alla mercé di tribunali civili con poteri esecutivi formati dalle multinazionali. E’ lo Stato del rovescio, con buona pace dell’antico principio che la legge è fatta – o così dovrebbe essere – a tutela dei deboli. Un’idea già messa a dura prova dalle lungaggini, dalle mille trappole tecniche, dai giochi giuridici, oltreché dalla pratica dei danni civili che pesano più di una condanna penale, giacché rovinano immediatamente la parte perdente.
Le istanze cui rivolgersi sono molteplici: oltre all’autorità giudiziaria ordinaria, esiste la corte di giustizia europea, i tribunali amministrativi regionali, la cui massima istanza è il Consiglio di Sato, le commissioni tributarie provinciali e regionali, i giudici di pace. I giudici tributari e di pace non sono magistrati di professione, con tutto ciò che questo implica. Abbiamo personalmente letto dispositivi di sentenze opposte in processi tributari vertenti sulla stessa materia con uguali parti in causa da parte di più commissioni ed assistito all’ingresso in aula di un commissario molto anziano giunto in ambulanza assistito dagli operatori sanitari.
José Ortega y Gasset sosteneva che il merito storico delle democrazie liberali è il rispetto per le minoranze, specie se piccole e deboli. Vero in linea di principio, risibile alla prova dei fatti, a meno che le minoranze non stiano a cuore a chi detiene il potere mediatico e culturale. Lo Stato di diritto, in conclusione, è un bel sogno, o se preferite una splendida costruzione culturale, un gioco che funziona solo per i giocatori più forti, trasformandosi perciò nel suo contrario.
Al risveglio dal sogno, ci accorgiamo di propendere per qualcosa di indicibile, una sorta di dittatura temporanea e controllata, del tipo di quella di Roma repubblicana, in cui, per un periodo dato, tutti i poteri vengono concentrati in pochissime mani con l’unico obiettivo di cambiare alla radice le leggi, ovvero le regole del gioco, al fine di ristabilire un concreto Stato di diritto. Sappiamo di uscire dal terreno dei sogni, o della teoria astratta per transitare nel campo minato di un’utopia pericolosa, giacché spesso i rimedi sono peggiori del male.
Di una cosa siamo però certi: non si ripristina uno Stato di diritto senza esigere il ritorno alla sovranità, o, con il lessico di Carl Schmitt, senza che sia individuato chi decide nello stato d’eccezione. Poiché oggi l’eccezione è diventata norma, occorre ridefinire chi comanda nella normalità quotidiana della vita pubblica trasformata in distopia realizzata, regno del più forte, del più svelto, del più ricco e potente, di oligarchie organizzate secondo la “legge ferrea” di Roberto Michels.
ROBERTO PECCHIOLI