15 Ottobre 2008
Alla radice della civiltà occidentale Sparta e Atene si contrappongono come archetipi. Atene è il dibattito, Sparta il silenzio. Atene ci ha lasciato il Partenone, l’Eretteo, i rilievi di Fidia; Sparta poche pietre mute (non aveva altre mura, come si diceva, che i petti dei suoi cittadini).
Atene è l’agorà della disputa politica, Sparta è un sistema autoritario, dove ciascuno appartiene allo Stato. Atene è la libertà, Sparta la disciplina militare. Atene dà in certo senso inizio alla modernità e alla visione secolare dell’uomo, specula sugli dèi e ne dubita – mentre Sparta resta immobile in un civismo liturgico e guerriero. Atene è abitata da individui, Sparta da una falange arcaica e concorde.
Soprattutto: Atene ha prodotto una quantità e qualità prodigiosa di parole – logos, dialoghi, filosofia, sofismi, insomma ciò che noi chiamiamo «cultura», «storia», «espressione», «critica»; Sparta un silenzio enigmatico e monolitico: qualche ritmico canto di guerra, dell’antiquato Tirteo.
La vulgata democratica conferisce ovviamente ad Atene il primato della civiltà, e vede in Sparta l’assenza di spirito, sente il suo silenzio come inarticolata, brutale ottusità.
Ma se era davvero cosi, come spiegare che Socrate, il più vivamente loquace, il più curioso degli ateniesi, fosse filo-spartano? E il suo discepolo più nobile ed intelligente, Platone, per cui comincia la filosofia – e comincia in forma di dialogo – guardasse a Sparta come al vero cuore spirituale ellenico?
Perché fu cosi: la fazione democratica, la «sinistra» ateniese sospettò Socrate e Platone di lakonizein, parola pregnante che significa tutt’uno imitare i laconici nella concisione, riconoscere all’ordine spartiate un primato culturale sulla Grecia, e in senso politico parteggiare per Sparta, essere insomma «di destra»: il che era proibito in Atene.
Certo non è semplice spiegare perché l’entourage di Socrate – il gruppo umano più culturalmente rilevante mai esistito – pur vivendo nelle libertà ateniesi, guardasse a Sparta come a un modello di prestigio impareggiabile: soprattutto perché è imbarazzante per la democrazia ammettere che la cultura «alta» nasce, in Occidente, da una visione reazionaria.
Ma la spiegazione è a portata di mano per chi non nutra pregiudizi progressisti.
Basta ricordare che Socrate parla, dialoga e disputa – e Platone scrive in forma di dialogo e disputa – non per una nativa volontà di espressione discorsiva, ma per reazione ad altri parlatori. Essi controbattono instancabilmente i sofisti: questi tecnici dell’opinione e della comunicazione, questi avvocati di ogni causa, che si vantavano di saper convincere una folla di qualunque tesi e della tesi contraria e – peggio – di poter insegnare a chiunque a fare lo stesso.
L’apparizione e il successo dei sofisti non fu visto in Atene come un «progresso», ma per quello che denunciava: il sintomo di una crisi etica che investiva la società (1). Il trionfo del cinismo e del relativismo, della manipolazione di sentimenti collettivi in qualche modo insita nella democrazia, la negazione della verità e il primato dell’opinione. In un certo senso, coi sofisti irrompono nella storia non solo la dialettica ma la chiacchiera, la babele dei «secondo me» e il rumore di fondo della cronaca, che assedia la nostra attualità.
Gorgia, il quale sostiene che «il giusto è l’utile del più forte» (2), è fin troppo moderno: pianta il germe per tutti coloro che in futuro s’inchineranno al potere di fatto come unica verità. Ha inizio un itinerario a cui Hegel darà la sistemazione teorica più concisa e universale: «Tutto ciò che è reale è razionale».
Socrate il laconizzante scende dunque nella piazza, imitando i sofisti nella tecnica dialettica, per difendere un principio che è stato leso, una verità che non è più comunemente accettata in silenzio concorde.
Sintomatica è la sua tecnica: più che parlare, fa domande. E le sue domande mirano a indurre gli interlocutori ad ammettere che si, dopotutto, la giustizia non può essere ridotta alla convenienza di chi comanda, che la forza non è identica alla giustizia, che la giustizia – ancorché in questo mondo empirico non appaia se non debolmente, episodicamente – è tuttavia più reale della forza e dell’utile del più forte, tanto che l’uomo autentico con se stesso è obbligato a riconoscerle una superiorità senza compromessi.
Ma com’è noto, Socrate si contenta di portare gli altri ad ammettere che la giustizia «non» è questo, non è quello, non è quell’altro; non dà mai una sua definizione del «giusto». Si rifiuta di fornire una formula, e non solo per il buon motivo che occorre difendere la Verità sottraendola alla presa della dialettica – la quale è apparsa ormai nel mondo come tecnica precipua di ritorcere gli enunciati nel loro contrario.
Nel senso più profondo, Socrate non fa che scandagliare i confini di un silenzio che contiene la verità, a cui egli attinge – e insegna ad attingere – al di là del discorso.
Come spiegare che questo silenzio olimpico da cui Socrate e Platone traggono le loro parole inesauribili è precisamente il silenzio di Sparta?
A tutta prima, piuttosto, viene a mente l’esclamazione negativa, inarticolata, con cui le Upanishad affermano l’Identità suprema – neti, neti, «non è questo, non è questo». O la cruda frase con cui Buddha (figlio di re, stirpe di kshatrya, di guerriero: uno spartiate indiano, non dimentichiamolo) tronca le dispute che le sue asserzioni dottrinali più radicali fanno sorgere tra i suoi allievi: «Non è opinione questa, nel Beato; questa è visione nel Beato».
Il punto è questo. Anche nella Grecia di prima dei sofisti la conoscenza è chiamata invariabilmente un «vedere», rispetto al quale le conoscenze che si ottengono con tecniche discorsive, il dibattito, non sono che mutevoli e leggere opinioni: la chiacchiera sviante dei sofisti. La «visione» come conoscenza suprema era, aggiungiamo, il corrispettivo di un essere prerogativa di un tipo umano (non di chiunque) che per di più è capace di trasfigurazione.
Alludiamo qui all’iniziazione, ai «misteri» di Eleusi a cui accedevano i nobili ateniesi. In essi, testimonia Ippolito, si mostrava «a coloro che erano ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero di visione: la spiga di grano mietuta in silenzio» (3): e Platone si riferisce di continuo a ciò che simboleggia questa enigmatica «spiga di grano», al punto che s’è potuto sospettare che »la teoria delle idee (platoniche) fosse un tentativo di divulgazione letteraria dei misteri eleusini» (4) – e su cui l’adepto doveva mantenere il silenzio.
Ancor più, alludiamo all’oracolo di Delfi: il centro sacro ad Apollo Luminoso, cosi intimamente legato all’arcaica cultura dorica – di cui Sparta rimase gelosa custode, mentre gli altri mutavano – che «Licurgo» (5), per il volgo il legislatore originario, il padre dell’ordine politico spartiate, era in realtà il nome di un grado sacerdotale spartane soggetto a Delfi.
Cominciamo a capire in qual senso profondo, extra-politico, Socrate e Platone fossero filo-spartani? (6)
Perché traevano le loro parole da quel silenzio che custodiva Sparta: lungi dall’essere una caserma, la città senza mura era un ordine sacro e militare i cui individui – asceticamente rinunciando a sé, prendendo il pasto comune, portando le armi come doveva aver fatto la banda originaria degli «eguali», degli etairi indoeuropei alla conquista di nuove terre – si mantenevano «originali», vicini all’origine e fedeli alla certezza che viene dalla «visione», alla cultura che è anteriore alla dialettica: quella che coltiva «la spiga mietuta in silenzio».
Che l’ordine di Sparta fosse incentrato sull’addestramento militare significa due cose: indicava che la conoscenza non si ottiene con le acutezze volatili della mente, ma lo sviluppo dell’essere, del carattere (7); e che la verità che non può essere detta va difesa con la forza contro il caos che vuol cancellarla (8).
Anzi questo è l’unico uso legittimo della forza – la forza che impone il silenzio al rumore di fondo – e finché durò, la «visione» non fu del tutto obliata nei cuori degli uomini.
Non abbiamo evocato due archetipi perenni. Sparta e Atene sono. In ogni tempo la cultura è sofistica oppure è platonica. E se oggi dilagano la cronaca, l’attualità, il pettegolezzo, il chiacchiericcio impotente, vorremmo che le nostre parole non fossero una semplice aggiunta al rumore di fondo che cela, o intorbida, ogni certezza.
Abbiamo sempre cercato parole che diradano la nebbia in cui il caos delle opinioni ci fa vivere, che mettano in luce i duri poteri che il rumore dialettico e giornalistico ci nasconde.
Parole che non rispettano gli idoli del foro perché s’appoggiano, senza dirlo, a un silenzio forte.
1) La crisi, è noto, si produsse alla fine delle guerre persiane: come in ogni vittoria, emergono alla ribalta «la gente nova e i sùbiti guadagni», gli ambiziosi, gli arricchiti e i senza scrupoli.
2) Quest’asserzione è confutata nel Teeteto.
3) La testimonianza è di Ippolito {Confutazione, 5,8,39-40): «Gli ateniesi, nell’iniziazione di Eleusi, mostrano a coloro che sono ammessi al grado supremo il grande e mirabile e perfettissimo mistero visionario di là: la spiga di grano mietuta in silenzio».
4) Cosi Giorgio Colli, La Sapienza Greca, I, Milano, Adelphi, 1977). Tra gli innumerevoli passi allusivi di Platone, si può citare il Fedro (248 b-c): «Tutte le anime poi, con questo tormento, se ne vanno senza essere state iniziate alla visione di ciò che è, e allontanatesi si nutrono con il cibo dell’opinione».
5) Licurgo è nome connesso a «Liceo», l’appellativo di Apollo che allude alla Luce (ciò che dà la Visione) e al Lupo, il totem dell’arcaica religione iperborea, della «luce del Nord».
6) Ma anche Aristotele stabilisce una gerarchia «tra ciò che appartiene all’insegnamento e ciò che appartiene all’iniziazione. Il primo giunge agli uomini attraverso l’udito, la seconda invece quando la capacità intuitiva stessa subisce la folgorazione, il che appunto fu chiamato anche misterico, e simile alle iniziazioni di Eleusi». (Sulla Filosofia, fr.15).
7) Che la conoscenza autentica non sia per tutti, ma per una natura umana qualificata, è detto nel Simposio platonico (209e): «A queste dottrine d’amore, orbene, anche tu forse, Socrate, potrai essere iniziato; ma al grado perfetto e visionario dei misteri d’amore (…) non so se tu sarai capace di esserlo». Confronta anche Aristotele: «Gli iniziati non debbono imparare qualcosa, bensì essere recettivi (pathéin) ed essere in un certo stato, evidentemente dopo essere divenuti capaci di ciò».
8) Vi sono pensieri che non è consentito a tutti nutrire, e licenze che non possono esser concesse, anche se la facoltà di imporre il divieto spetta ad uomini forti, cioè disposti a morire. La mentalità contemporanea che fa della trasgressione un diritto è, prima che allarmante, indecente e ridicola: anche la trasgressione è solo per chi sa assumersene le estreme conseguenze: anch’essa è una iniziazione sui generis, e richiede una stoffa, un «carattere». Ad esempio è anzitutto ridicolo che, oggi, certi omosessuali pretendano che le loro unioni siano riconosciute come matrimonio, con diritto all’eredità e alla pensione del «coniuge». Voler trasgredire con l’approvazione sociale, anzi con la sicurezza sociale garantita, è una contraddizione in termini.