Collasso del regime degli ayatollah in Iran? L’Arabia Saudita non se lo augura, del resto lo ritiene improbabile. “Se la rivolta popolare metterà fine alle operazioni militari di Teheran all’estero e obbligherà il regime concentrarsi invece nelle riforme di casa e nello sviluppo interno, questa sarebbe la soluzione ideale”.
Lo scrive su Arab News, organo semi-ufficiale del regime wahabita, quello che potremmo definire l’opinionista di casa reale, Abdulrahman Al-Rashed.
http://www.arabnews.com/node/1217726
Istruttiva questa cautela. Un cambio di regime in senso laico, una vera rivoluzione, “porterebbe la situazione in Iran simile a quella in Libia e Siria”, scrive il columnist della casa, ma soprattutto (e questo ovviamente non lo dice) potrebbe diffondere certe idee laico-rivoluzionarie anche a danno della monarchia wahabita, che teme il contagio. Inoltre, l’economia saudita è nei guai ancor più di quella iraniana, che sotto Rouhani sta conoscendo una certa crescita e una diminuzione dell’inflazione (oggi sarebbe sul 9%); la questione sociale ribollente sottopelle è simile, come è simile il tasso di disoccupazione ufficiale: 12 % in Iran, ma 12,7 in Arabia Saudita.
E’ meglio non mettere certe idee in testa ai giovani sauditi disoccupati, mostrando che un cambio di regime , magari repubblicano, può avere successo nel mondo musulmano. Probabilmente, c’è anche un messaggio alle agenzie americane e israeliane – si sa che il consigliere (“gestore”) di Trump, il generale McMaster, ha firmato un protocollo segreto d’azione anti-Iran con il suo omologo israeliano Meir Ben Shabbat – e infatti si sono visti subito speciali agenti provocatori infiltrati per trasformare le proteste contro i rincari (pollame e benzina, salari arretrati non pagati e la mancanza di lavoro in manifestazioni politiche, con slogan che chiedevano la morte di Rouhani e del supremo ayatolla Khamenei. Difatti gli agenti provocatori dentro l’Iran (sicuramente i terroristi leninisti Mujajeddin El Kalk, la clandestina MEK, che Israele finanzia, addestra e arma per uccidere per lo più scienziati nucleari iraniani e docenti universitari, onde tagliare le gambe – meglio, le teste – della ricerca scientifica del Nemico), sparsi tra la folla, hanno gridato slogan inizialmente del tipo “Liberiamo i prigionieri politici” e “Morte al dittatore”, presto rettificati in “Lasciate perdere la Palestina” “Non per Gaza, non per il Libano, io darò la vita [solo] per l’Iran”. Più trasparenti.
Ai sauditi, basta che il regime “teologico fascista” (senti chi parla) di Teheran sia costretto a ritirare i suoi corpi militari dalla Siria, smetta di armare Hezbollah, e non possa più spendere per finanziare e difendere la cintura sciita armata, l’”asse di resistenza”.
Frattanto Israele fa sapere che “ha ricevuto il permesso dagli Usa” per assassinare il generale Kassam Soleimani, comandante delle forze Al Quds operanti in Siria e cervello strategico delle attività militari di Teheran in Siria, Libano e Irak, insomma dell’Asse di Resistenza. Ciò che nella neolingua imposta dai padroni del discorso ai media americani e quindi all’Occidente, viene descritto come “Iran numero Uno del terrorismo islamico diffuso nel mondo”.
E il 30 dicembre un gruppo jihadista ha fatto saltare un importante oleodotto iraniano nella regione di Omidieh d’Ahvaz. L’attentato è stato rivendicato da Ansar al Furkan, un gruppo terrorista della minoranza baluci, ovviamente addestrato e pagato dalla Cia, con il seguente testo: “L’operazione è stata condotta per infliggere perdite economiche al regime criminale iraniano”: puro stile CIA. “Far pagare un prezzo”, erodere, usurare le forze che sostengono Damasco ed in Siria hanno vinto. Certo l’Iran ha pagato un prezzo alto – trovandosi una vera guerra, in cui un nemico con capacità di spesa illimitata, saudita e Usa, ha gettato Daesh, curdi, siriani “liberi”, Al Qaeda, una forza complessiva che si calcola in 240 mila uomini e miliardi di dollari – in termini umani (quattro generali iraniani uccisi in combattimento, un numero con pochi precedenti) e finanziari, che certo pesano sulla società civile iraniana; che è ricordiamo, sotto sanzioni internazionali dettate dagli Usa dagli anni ‘70. L’accorto Rouhani ha detto che “le manifestazioni sono un’opportunità”, non esattamente la minaccia di fuoco e fiamme contro i protestatari, e probabilmente anche un mezzo avvertimento a nemici interni, diciamo massimalisti, del regime, che possono aver sofiato sul fuoco; vedremo come placherà le rivendicazioni economiche e sociali.
La situazione è in movimento in un quadro medio-orientale non meno instabile. Il re di Giordania Abdallah ha ordinato l’arresto di tre alti gradi delle sue forze armate, di cui due fratelli suoi (il principe Feisal Ben Hussein e il principe Talal ben Muhammad): secondo Teheran Times e Al Araby.co.uk stavano per tentare un colpo di stato, su istigazione del reuccio saudita, l’impulsivo Mohamed Ben Salman e del capo degli Emirati, Mohamed Ben Zayed.
Perché? Dopotutto, la Giordania ha partecipato obbediente alla destabilizzazione della Siria come ordinato da Washington: la sua armata ha addestrato i jihadisti dello Stato Islamico e di Al Nusra, e li ha fatti passare in territorio siriano – ma si vedeva che non lo faceva di tutto cuore. Quasi certamente, l’esercito giordano ha rifiutato di coinvolgersi direttamente nell’aggressione contro Damasco, per preservare la monarchia hashemita a cui è leale e fedele. Quindi si tratterebbe dell’ennesimo colpo d’ingegno di Ben Salman l’impulsivo, fallito come il tentativo di scatenare la guerra civile in Libano contro Hezbollah facendo dimettere il sunnita Saad Hariri e costringendolo – da Riyad – ad accusare Teheran di volerlo uccidere. Cosa che nessuno ha bevuto. Molto istruttivo che il reuccio (clown prince) così pronto a destabilizzare Libano, Siria e Giordania, a sterminare lo Yemen, a minacciare persino l’egiziano Al Sisi, mantenga una tal lodevole moderazione di fronte al rischio di un vero cambio del regime “fascista-teologico” iraniano. Il destabilizzatore teme di restare destabilizzato.