di Roberto PECCHIOLI
Una fortunata rubrica cinematografica di un quotidiano nazionale si intitola Lo sconsiglio. E’ tenuta da Massimo Bertarelli, uno dei rari critici non afflitti dall’accigliato intellettualismo da sinistra al caviale della sua categoria. Unito ad una scrittura brillante che tradisce il debito nei confronti di Gianni Brera, di cui fu allievo al Guerin Sportivo in gioventù, lo sconsiglio di Bertarelli prende di mira e boccia impietosamente i film peggiori del momento, senza riguardo al successo al botteghino o all’accoglienza presso il ceto semicolto dei pensosi “intellò” cinefili. Nel nostro piccolissimo, vogliamo dare uno spassionato consiglio ai lettori: ignorate le opere del duo Antonio Negri (Toni per i reduci della peggio gioventù) e Michael Hardt.
Sono ormai numerosi i saggi a quattro mani del sodalizio neo marxista italo statunitense, tra i quali Questo non è un Manifesto, del 2012, che tenta di tirare le conclusioni politiche delle torrenziali opere precedenti, dal titolo inevitabilmente “cult” e colto: pare una citazione del celebre dipinto surrealista di Magritte Questa non è una pipa, sull’ambiguo rapporto tra realtà ed immagine. I titoli che hanno consacrato il successo internazionale dei due autori sono Impero, del 2000, e Moltitudine, del 2004. Salutati con entusiasmo dai banditori del progressismo liberal come i “manifesti comunisti del XXI secolo” (New York Times ), molto meno apprezzati dagli studiosi di area marxista , i due libri mettono a dura prova non solo la resistenza e la pazienza dei lettori – circa mille pagine sarebbero chiamate un mattone, se non fosse per la quasi religiosa devozione di cui è circondato in alcuni ambienti l’ex docente padovano – ma soprattutto evidenziano come all’ambizione del progetto non corrisponda una prestazione intellettuale all’altezza.
I nuovi Karl Marx e Friedrich Engels fanno rimpiangere gli originali, ed è tutto dire. Questa non è solo l’opinione di lettori esausti e di modesta erudizione, come lo scrivente, ma anche, diremmo soprattutto di intellettuali di primo piano culturalmente affini come Slavoj Zizek o l’italiano Danilo Zolo, giurista e filosofo del diritto che studia da decenni le ricadute della globalizzazione. La tesi fondamentale dei due, sorretta da un arsenale teorico notevole, è che la postmodernità ha costituito un’unica struttura di potere globale, del tutto nuova, deterritorializzata e fondata su un universalismo cosmopolita, determinando la crisi sistemica degli Stati nazionali, prodotto dagli esiti storici del Trattato di Westfalia che concluse le guerre di religione alla metà del Seicento. La nuova forma avvolgente e reticolare di “biopotere”, poiché coinvolge ogni aspetto e momento della vita contemporanea, è detta appunto Impero.
Nulla di originale, nemmeno una scoperta straordinaria; tutto sommato anche il nome pare inadeguato, giacché l’Impero fu ed è, storicamente, una forma molto precisa di potere dotata di un centro, di un’idea base, di una forma. Preso comunque atto che l’Impero è la forma politica della globalizzazione capitalistica, si riconosce che” nessun confine territoriale limita il suo regno” e che, attraverso l’abolizione contemporanea dello spazio e del tempo, l’impero “non rappresenta il suo potere come un momento storicamente transitorio, bensì come un regime che non possiede limiti temporali”. Esso si converte in un ordine “che, sospendendo la storia, cristallizza lo stato attuale delle cose per l’eternità”. Verità evidenti, ma niente affatto eclatanti scoperte svelate di Toni Negri.
Viene a galla, invece, l’ambizione titanica di riscrivere il Manifesto del Partito Comunista del 1848. In quel fondamentale testo, Marx ed Engels colsero perfettamente il ruolo storico della borghesia del loro tempo, celebrandone il potenziale rivoluzionario di rottura epocale e storica, che una nuova forza emergente, il proletariato, avrebbe volto a proprio vantaggio attraverso la lotta di classe e l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione. “Dove è giunta al potere, la borghesia ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato pagamento in contanti. Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni.”
Questo brano celeberrimo dimostra il giudizio marxiano positivo, il ruolo emancipatorio dell’azione della borghesia, e, in maniera inequivocabile, prova il legame profondo tra liberalismo e collettivismo, la loro vicinanza ideale, attraverso il giacobinismo, lo spirito dei Lumi e la comune radice materialista ed economicista. Marx, tuttavia, contro la borghesia ed il suo capitalismo chiama alla lotta, al superamento (nel lessico di Hegel, aufhebung), per costruire una società totalmente nuova, fondata sul comunismo. Negri e Hardt, al contrario, non solo formulano un giudizio positivo sulla globalizzazione mondialista, ma ne celebrano il potenziale liberatorio nei confronti di un nuovo soggetto, che non riescono tuttavia a definire come attore politico, la Moltitudine, protagonista del loro secondo ponderoso volume.
Incredibilmente, essi negano o minimizzano il ruolo degli Stati Uniti, asserendo che gli Usa non sono il centro dell’Impero, e che non sussiste alcun progetto o ambizione imperiale americana. Ciò per loro significherebbe una sorta di auto confutazione dell’affermato carattere reticolare, magmatico della pentola che ribolle (melting pot) senza che alcuno attizzi il fuoco o ne diriga gli intenti che è la loro idea di Impero. “Contrariamente a quanto sostengono gli ultimi difensori del nazionalismo (??), l’Impero non è americano.” Una ben misera conclusione, un vero e proprio clamoroso errore di valutazione contestato a Negri ed Hardt da più parti, poiché è evidente che gli Usa sono, quanto meno, il centro ed il motore dell’impero, il vettore del suo dominio, il luogo di residenza e di irradiazione delle sue organizzazioni più importanti – istituzioni finanziarie e transnazionali, multinazionali- oltreché il quartier generale dell’apparato di controllo di quello stesso biopotere denunciato dai due studiosi : la cupola tecnoscientifica ed informatica, le agenzie di comunicazione che scelgono le notizie da diffondere e quelle da celare al pubblico, i grandi sistemi di spionaggio, nonché l’esercito più potente del mondo, dispiegato nei mari e nei cieli dell’intero pianeta.
E’ curioso che gli stessi autori notino senza fiatare la forza pervasiva della finta ideologia della pace, del diritto di ingerenza e dell’interventismo “umanitario”, riconoscendo il silenzioso ritorno della “guerra giusta”, che si giustifica da sé per l’autoevidenza delle sue ragioni universali. Si parte da Marx, dunque, ma si procede poi per sentieri che ne negano l’eredità. Il giudizio positivo sull’Impero e sul suo potenziale liberatorio, infatti, giunge a proporre di accelerarne il cammino: anziché resistere alla mondializzazione, occorre incalzarne il processo non per provocare una rottura rivoluzionaria, ma per costruire attorno ad esso forme nuove, più vantaggiose per la vasta categoria definita moltitudine, il nuovo nome degli sfruttati. Una forma inedita di riformismo attendista, forse, o la bizzarra ideologia di chi accetta un passaggio storico, quello dell’Impero, necessario e positivo, da accogliere con speranza, non certo da combattere frontalmente, tanto meno distruggere. Marx- Engels ai tempi supplementari.
Un esegeta del dubbio verbo dei due pensatori ricorre all’esempio erudito del nastro di Moebius, figura matematica che ha un solo lato ed un unico bordo, per cui ci si ritrova al lato iniziale solo dopo due giri. Si è in grado quindi passare da una superficie a quella posteriore senza attraversare il nastro, semplicemente con un percorso più lungo. Tradotto dall’intellettualese, per Negri ed Hardt il potere imperiale e la resistenza ad esso appaiono come il diritto e il rovescio di un unico nastro. Se si ha la capacità di spingersi abbastanza lontano, il potere si trasforma nel suo contrario. Qui gioca un ruolo notevole l’idea, consolidata a partire dai lavori di Manuel Castells sulla network society, che la grande rete di Internet divenga un modello anche nell’ambito sociale, sinché la moltitudine si approprierà delle tendenze imperiali, considerate prive di centro e di gerarchia, sino a padroneggiare un sapere nuovo e condiviso e diffondere controinformazione.
Concetti nebulosi e ingenui, poiché il centro esiste, eccome, e la struttura reticolare ne è semmai l’espediente funzionale, e l’universo tecnico e tecnoscientifico, poco esplorato dai Nostri nelle sue ragioni e connessioni, ha dei padroni molto precisi ed ormai riconoscibili. La produzione di beni e servizi, l’esercizio stesso del potere sono sì mutati e sono divenuti, nella grammatica di Negri, “biopolitici”, ma non è certo una vittoria del proletariato, come sostengono letteralmente ed incredibilmente. E’ piuttosto la scelta meditata di un soggetto inedito, l’Impero ossimoro, un centro mutante che si sposta continuamente, si deterritorializza nella forma dei “cloud” informatici che contengono, elaborano e processano dati situati in un luogo cibernetico, ma esercita coercitivamente un dominio imperiale in larga parte introiettato dai sudditi.
La chiave di tutta la costruzione ideologica è l’irruzione di una inedita forza storica, la produzione immateriale, la cui funzione cognitiva, frutto del sapere diffuso, “produce beni immateriali, come un servizio, un prodotto culturale, conoscenza o comunicazione”, per cui lo stesso capitalismo diventerebbe cognitivo e possiederebbe l’embrione del suo definitivo superamento, in una specie di gemmazione che insieme lo trascende e lo distrugge. Il lavoro intellettuale svolto dalla proclamata “moltitudine” è intrinsecamente legato alla “messa in comune”, anzi all’idea stessa di “comune”. Un comune che non genera affatto comunità, un concetto respinto nell’indicibile e nel passato più oscuro, ma, al contrario, per ibridazione, crea sempre nuove singolarità. La pentola che bolle declinata in una indigeribile ed indefinita salsa collettivista. Questo inafferrabile comune viene descritto come una totalità aperta che si rinnova, rigenera continuamente e, udite, “non si costruisce e non agisce a partire a partire da un principio di unità o identità, ma a partire da ciò che gli è comune”. Tautologia, parole in libertà o, perché non ammetterlo, concetti al di là della comprensione media del lettore, che è poi quella della moltitudine in nome della quale si strologa.
Saremo incapaci di pensiero complesso, o più probabilmente privi di sufficiente cultura, ma non riusciamo davvero a capire che cosa tutto ciò significhi. Ci è tuttavia chiaro il fraintendimento iniziale, ovvero che il capitalismo globalista e deterritorializzato, l’impero, adottando il lessico di Negri, si articola a rete ma lo fa in forme molto gerarchizzate, spesso più insidiose che nel passato. Si impongono temibili metodi disciplinari, ben oltre le intuizioni in materia di un Michel Foucault, a partire dalla costante messa in concorrenza dei lavoratori, la fissazione unilaterale di obiettivi, la continua selezione, le modalità nuove e tecnologiche dell’antico “divide et impera”. La stessa mobilità del capitale genera un potere ogni giorno maggiore, che possiamo certamente chiamare biopotere, ma per affermarne una violenza nuova, sottile e raffinata.
Le reti collaborative care agli autori hanno semmai concentrato i redditi e le opportunità verso l’alto. La moltitudine plurale puntinista formata da miliardi di “singolarità” è descritta come “desiderio di costruire il comune” e qui, francamente, gettiamo la spugna, a meno di non citare la folgorante definizione delle masse postmoderne di Costanzo Preve: “neoplebi desideranti”. Preve richiamava, da un punto di vista marxista e comunitarista, l’esigenza di una lotta di liberazione dagli esiti rivoluzionari, mentre la moltitudine di Negri e Hardt assomiglia più ad uno sconfinato esercito senza ranghi, un magma umanoide appagato nelle pulsioni primarie, ma del tutto privo di obiettivi personali o comuni. Nessuno spazio, ovviamente, nel radicale materialismo del tutto, per la famiglia, lo spirito, la trascendenza, la bellezza, la contemplazione: un’umanità di scimmie sapienti che volteggiano senza posa di ramo in ramo, connesse alle reti gestite dall’Impero, perplesse, gettate in un presente plastico, privo di rotta, incapace di mete.
Quanto al termine singolarità, a nostro avviso fa discendere di un altro gradino la specie umana: dapprima persone, con un carattere, una forma ed una direzione, poi individui, solitari viandanti della vita dalla bussola smarrita, ed ancora consumatori nel tempo libero, utenti, risorse umane nel sistema produttivo. Per Negri, l’obiettivo è trasformarci in semplici singolarità dal destino comune, e balza agli occhi l’immagine di uno stormo di uccelli che si leva in volo tutto insieme. La differenza è l’istinto naturale degli animali che conosce la rotta, possiede una direzione e un punto di arrivo.
In fondo l’opera non è che un’altra tappa dell’ambizioso proposito di attualizzare il Marx ostetrico del tramontato proletariato industriale. Negri e Hardt scambiano una piccola parte del mondo, ovvero l’Occidente, con l’universo. Il settore secondario, l’industria, sono qui meno importanti che nel passato (i grandi polmoni dell’Impero, tuttavia, come Stati Uniti e Germania continuano a possedere un forte settore manifatturiero), nondimeno in gran parte del pianeta, a cominciare dall’immenso serbatoio umano ed economico asiatico, è ancora predominante il modo di produzione fordista e taylorista dell’industria disciplinare. Diventa quindi infantile affermare, come fanno i due neomarxisti cui farebbe bene un onesto ripasso dell’opera dell’uomo di Treviri, “che il lavoro immateriale si situerebbe già oltre il capitalismo, poiché sarebbe in grado di valorizzarsi senza aver bisogno del capitale”.
Qui entriamo nel campo dei desideri – o dei sogni ad occhi aperti- scambiati per realtà. L’ “eccedenza rivoluzionaria”, una sorta di plusvalore tratto dalla moltitudine dei produttori di lavoro immateriale cognitivo, consentirebbe di costruire le basi di quello che chiamano il comune. Per loro l’impero è un fatto positivo, questo risulta chiarissimo: esso ha innanzitutto sradicato gli Stati, sostituendoli con una prospettiva cosmopolita, la quale va estesa sempre più. Ecco un’altra profonda distinzione rispetto al marxismo, internazionalista, ma non cosmopolita, sino alla definizione delle vie nazionali al socialismo, l’esperienza sovietica come comunismo in un solo Stato, o alla retorica stalinista della grande guerra patriottica condotta dall’URSS contro la Germania. Va sottolineata altresì l’indifferenza con cui gli autori tacciono sul fatto che lo stesso cosmopolitismo imperiale è vettore di valori, modi di vita, criteri di benessere di ascendenza occidentale ed in particolare anglosassone. Niente da fare, il muro non può essere scalfito, giacché l’Impero deve essere riposizionato in favore della moltitudine, ma non distrutto. Si tratta di “un passo in avanti, un progresso, meglio di ciò che l’ha preceduto”.
Dunque, nel guazzabuglio di frasi tortuose, neologismi e di un linguaggio semi iniziatico, simile ai pistolotti “dialettici” di professorini ed allievi degli anni 70 e 80, dal male si passa al peggio. Anche la globalizzazione è cosa buona, per la sua capacità di creare “nuovi circuiti di collaborazione e cooperazione che attraversano le nazioni e i continenti, facilitando un illimitato numero di incontri” e, più ancora, per la positiva influenza della deterriorializzazione delle precedenti strutture di sfruttamento e di controllo”. Qui davvero l’abbaglio appare colossale: la società della sorveglianza e della punizione descritta assai bene da un Michel Foucault non è affatto priva di centro o di territorio. Semplicemente si serve di mezzi del tutto nuovi, infinitamente più potenti, e punta, almeno in prima battuta, più all’interiorizzazione dei suoi comandi, all’omologazione dei pensieri della massa e sull’impersonalità tecnica degli apparati di controllo che sulla coercizione diretta, cui peraltro non rinuncia affatto, come verifica quotidianamente che si pone all’opposizione del sistema.
Viene giudicato positivamente anche il declino del diritto internazionale, a conferma della natura anarcoide e utopista del sinistrismo tardo marxista orfano dei suoi feticci, mosca cocchiera del liberalismo, con una generica aspirazione al disordine ed al caos, segretamente ammirato dalla “distruzione creatrice” del capitalismo descritta da Joseph Schumpeter. Felicitandosi per la tendenza alla dissoluzione dei confini tra le forme politiche, sociali, culturali del potere e della produzione, anche il giudizio sul capitalismo sfuma, si fa ambiguo e bifronte. Esso ha sì generalizzato lo sfruttamento umano, ma resta il portatore di un intrinseco cosmopolitismo che ne è il frutto positivo. Il debito nei confronti dell’Illuminismo più radicale è enorme.
Strano approdo per un uomo passato attraverso le suggestioni dell’operaismo degli anni 70 del secolo passato, divenuto il cattivo maestro di una generazione di giovani che si sono rivolti alla lotta armata, al brigatismo rosso, sino alla condanna per insurrezione armata ed al sospetto di complicità nel sequestro di Aldo Moro. A beneficio dei più giovani e degli immemori, che in Italia sono la maggioranza stragrande, va infatti ricordato che Antonio Negri, Toni per i compagni, classe 1933, docente universitario con un passato adolescenziale nell’Azione Cattolica, è stato considerato uno degli ideologi dell’estrema sinistra rivoluzionaria, incarcerato nel 1979 per terrorismo e liberato quattro anni dopo in quanto eletto deputato nelle file del Partito radicale.
Beneficato dal folle Pannella – che peraltro portò successivamente a Montecitorio la porno attrice Ilona Staller, la quale perlomeno non aveva sulla coscienza alcun crimine- Negri raggiunse l’ospitale Parigi, in cui ebbe una cattedra universitaria, divenne un influente membro del milieu culturale e soprattutto fu un esponente di Hyperion. La scuola di lingue con quel nome fondata nel 1977 venne sospettata di essere una copertura per il terrorismo internazionale e il crocevia di servizi segreti, mentre altri la considerano una sorta di “grande vecchio” collettivo dell’estremismo comunista.
Ciò che avvicina Negri ed Hardt ai globalisti di matrice liberale o genericamente progressista è la comune filosofia del caos e l’entusiasmo per il nomadismo, lo sradicamento, il meticciato, il rifiuto di ogni legame comunitario. Di qui alcuni dei concetti chiave del loro glossario, la singolarità, passaggio successivo e gradino inferiore dell’individualismo, la moltitudine, che è l’esatto opposto di popolo ed è distinta dalla massa per effetto delle singolarità che la costituiscono, il comune che prende il posto del collettivo, nonché il concetto, centrale nell’intera teorizzazione negriana, del lavoro immateriale, che darebbe vita ad un nuovo capitalismo cognitivo, in cui credono di individuare una specie di eterogenesi dei fini, ossia un esito di creazione e liberazione universale che lo oltrepasserà, decretandone il dissolvimento.
Interessante è anche il giudizio sprezzante sulla democrazia partecipativa, considerata un modello molto ipocrita. La moltitudine, invece, descritta come” potenza senza potere” condurrà alla “dissoluzione del potere e [alla] realizzazione di nuove istituzioni”. Se dai fatti occorre trarre significazione, direbbe Niccolò Machiavelli, l’inventore della scienza politica, lo snodo finale sarebbero quindi istituzioni senza potere. Utopia antipolitica che, in assenza della vasta cultura di Negri e del credito culturale di cui gode, verrebbe derubricata, nel migliore dei casi, ad astrazione visionaria.
Tuttavia, due o tre elementi ci sembrano interessanti. Il più immediato è la coerenza di un percorso subculturale che, dal 1968, giunge a noi, e si compendia nella parola dissoluzione. Solo l’Occidente terminale, malato di intellettualismo, gonfio di presunzione e superbia palingenetica poteva partorire il pensiero degli autori di Impero e Moltitudine. E’, per un verso, la vittoria antropologica, persino ontologica (un termine caro ad Antonio Negri…) dell’Illuminismo più radicale, nella forma del giacobinismo; dall’altro è l’esito coerente del liberalismo. Osiamo affermare che, in un loro strano modo, Negri e Hardt sono dei liberali eretici, nel senso della pulsione libertario-libertina che li muove. Il cosmopolitismo, poi, l’ibridazione generale e continuata, il meticciato entusiasta, sono tipici di quei fenomeni che hanno condotto da certi filoni marxisti al liberalismo progressista e radicale.
Resta poi l’economia come unico orizzonte, senza neppure il potenziale liberatorio dell’esito finalistico del comunismo compiuto (tutt’altra cosa della sua realizzazione storica concreta novecentesca). Lo stesso materialismo totale, di ascendenza spinoziana – Spinoza conosce oggi una singolare fortuna tra numerosi autori postmarxisti, specie in area francese – appare un altro ossimoro, un materialismo disincarnato in una dimensione affollata di automi, le singolarità, nude figurine opache in un deserto in cui la sabbia rovente è chiamata liberazione. Persiste in fondo una sinistra coerenza nel vecchio rivoluzionario, partito dal discorso evangelico delle Beatitudini, transitato per la lotta armata ed approdato alla scoperta di una equivoca moltitudine nomade la cui tenda è un caos in cui libertà significa assenza di principi o regole, in cui tutto fluisce e scorre non alla maniera di Eraclito, ma verso un nulla che, forse, è il “comune”.
Non sembra neppure più sussistere un’umanità, ma, come nella meccanica, parti e pezzi staccati, frattali avrebbe detto Jean Baudrillard. Anche l’anticapitalismo dei fieri comunisti di un tempo sfuma nel grigio di un modesto altercapitalismo rivendicativo dei “diritti” delle singolarità, tutt’al più partigiano del software libero. Davvero poco per andare oltre il biopotere e saltare dall’altro lato del nastro di Moebius. L’Impero del capitalismo universale può dormire, purtroppo, sonni tranquilli, può continuare a tessere il suo dominio tecno scientifico, colonizzare lo spazio insieme con l’immaginario e dominare concretamente il mondo.
Conquistato all’Impero, contagiato forse dalla sindrome di Stoccolma nei confronti dell’antico nemico di classe, non in grado di esprimere un vero progetto politico, spiace dire a un uomo come Antonio Negri, da cui ci divide tutto, ma il cui livello intellettuale è indiscutibile, la stessa frase che un monatto, uno di quelli che raccoglievano i cadaveri delle vittime della peste, rivolge a Renzo Tramaglino nei Promessi Sposi: “va, va, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano.”
ROBERTO PECCHIOLI