TOTEM E TABU’ DELL’OCCIDENTE TERMINALE

di Roberto PECCHIOLI

In Gran Bretagna è in corso un accanito dibattito. Non si tratta della Brexit né della monarchia, ma qualcosa di infinitamente più serio: l’opportunità o meno di abbattere le statue di Winston Churchill e Lord Nelson. Con l’ingenuità di chi abita l’estrema periferia dell’impero, pensavamo che al politico conservatore si imputassero i terrificanti bombardamenti sulle città tedesche, Dresda e Amburgo su tutte. All’ammiraglio di Trafalgar l’attiva partecipazione di brillante comandante militare al colonialismo britannico. Non è così. Churchill pare fosse un “suprematista bianco”: così lo descrive un accigliato deputato scozzese. La statua di Nelson nella piazza londinese intitolata alla sua vittoria più prestigiosa è in pericolo per l’identico motivo: lord Horatio era razzista. Non lo chiede un manipolo di squinternati, ma austere voci progressiste ospitate dal prestigioso The Guardian.

Il vento, si sa, arriva dall’Atlantico e infatti l’idea di abbattere steli e monumenti non risparmia negli Usa Cristoforo Colombo. La novità è che non si renderà omaggio neppure a due eroine del femminismo ottocentesco, le suffragette Susan B. Anthony e Elizabeth Cody Stanton. Le loro figure scolpite non orneranno New York: femministe sì, fiere lottatrici per il voto alle donne, ma, ahimè, razziste anch’esse.  Un critico si chiede: una volta stabilito il principio di farla finita con ogni personaggio del passato la cui visione del mondo non coincide con la nostra, dove andremo a finire? Saggia domanda, con una risposta assai semplice nella sua drammaticità: finiremo nel nulla, nel vuoto pneumatico di una civilizzazione pervenuta alla fase terminale.

Più serio è domandarsi perché siamo giunti a questo punto, poiché solo dalla risposta può sorgere la speranza di invertire la rotta. Noi partiamo dal peggiore tra i cattivi maestri, Sigmund Freud, e dal più acuto critico del liberalismo americano, Aléxis de Tocqueville. Totem e tabù è l’opera di Freud in cui si incontrano psicanalisi e antropologia nel pieno della polemica con Jung. “La parola tabù esprime due opposti significati: in un senso significa sacro, consacrato, nell’altro sinistro, pericoloso, proibito, impuro, e rappresenta una sorta di orrore dotato di forza demonica nascosta che scatena una paura oggettivata, un’interdizione di natura pressoché sacrale.” Il tabù non differisce, nella sua natura psicologica, dall’imperativo categorico kantiano, poiché agisce in forma coattiva escludendo ogni motivazione davvero cosciente.

La conclusione è la nevrosi ossessiva come condizione normale degli occidentali (neo)liberali.  Il tabù è anche totem, l’oggetto concreto o ipostatizzato dotato di un significato simbolico profondo che unisce una determinata comunità o gruppo sociale. Interessante è la definizione figurata di totem nel dizionario edito da Repubblica, centrale del progressismo liberal libertario: oggetto di superstizione al quale si attribuisce un culto reverenziale. La nostra conclusione è che la negazione dell’idea di razza, dunque l’odio inestinguibile verso qualsiasi forma di differenziazione etnica, è il totem del nostro tempo. Tabù diventa qualsiasi idea, atto, persona o popolo che osi negare il valore del totem, universalizzato perché universale, nell’aspirazione, è l’antropologia che rappresenta.

Non a caso, perfino un altro simbolo intangibile della contemporaneità, il femminismo, viene messo da parte se il sospetto di razzismo investe o soltanto lambisce personalità come le suffragette americane citate. Sorprende la deriva di una civiltà che si caratterizza in senso negativo, anti, contro qualcosa che peraltro evita di definire per farvi rientrare qualsiasi condotta sgradita a chi controlla e custodisce il totem. A nostro avviso il totem-tabù antirazzista ne cela un altro, che consente e rinforza il primo. Si tratta dell’uguaglianza, un’idea antica che la modernità ha tratto dalla rivoluzione francese ma anche da quella americana. Lo conferma Tocqueville, il pensatore francese dell’epoca post rivoluzionaria, la cui opera capitale è La democrazia in America, frutto di un lungo soggiorno negli Stati Uniti.

Egli comprese per primo l’inesorabile tendenza verso l’assolutizzazione dell’uguaglianza, destinata a tradursi in conformismo, massificazione sociale, poiché la più grave patologia della democrazia è non accettare la differenza. La visione di Tocqueville risulta ancora più interessante per la constatazione che entro la democrazia, accanto alla tensione all’ eguaglianza, sussiste anche la passione per il possesso, l’egomania dell’avere, un’inclinazione destinata a non soddisfarsi mai, che spiega la bizzarra compresenza del totem dell’uguaglianza e la sua negazione radicale nell’economia e nell’organizzazione concreta della società.

Così si esprimeva Tocqueville: “non conosco un paese dove regni meno l’indipendenza di spirito e meno autentica libertà di discussione che in America. Il padrone non vi dice più: pensate come me o morrete; ma dice: siete libero di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resterà, ma da questo istante siete uno straniero fra noi.” Agghiacciante nella sua esattezza è la previsione di cui vediamo avverarsi ogni dettaglio: “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima. Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua. (…) Non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?”.

L’uguaglianza sottratta alle sue conseguenze economico-sociali è il totem sovraordinato a ogni altro. Le differenze devono essere ferocemente negate come inesistenti, scherzo di natura che la società ha il diritto dovere di correggere. Negli ultimi decenni, l’arma più potente è diventata la correttezza politica, ovvero il cambio di significato delle parole per mutare la visione della realtà. L’obiettivo è sempre quello di azzerare, vietare, demonizzare la differenza, esclusa quella del reddito.  A New York stanno approvando il divieto di commentare sfavorevolmente la capigliatura della popolazione di colore, con multe salatissime. Di questi giorni è l’attacco contro la differenza sessuale nel mondo dello sport. Un ex campione del mondo di calcio, Fulvio Collovati, è stato sospeso dalla Rai per aver criticato la moglie del calciatore Icardi. Il suo reato è il sessismo, neologismo che condanna l’idea dell’ineguaglianza tra i sessi.

Sull’altare del principio di uguaglianza, la differenza più evidente, quella etnica, è negata e perseguita come peccato capitale, orrore massimo e imperdonabile. Non sfugge alla censura postmoderna un’icona della tolleranza e della pace come Gandhi. Il Mahatma corre il rischio di essere scacciato dal piedistallo morale che occupa. A Londra vorrebbero abbattere – due al prezzo di una- la sua statua, posta nella stessa piazza di quella di Churchill. L’accusa è uguale: anche il venerando capo indiano era razzista. Avrebbe sostenuto l’apartheid contro gli africani quando viveva in Sudafrica e sconsigliava i civilizzati indù a mischiarsi in pubblico con gli “aborigeni” africani. Nel Ghana, un paese che dovrebbe avere preoccupazioni più concrete, un suo monumento è già stato eliminato.

Il gioco al massacro non risparmierebbe Tocqueville, colpevole di leso islamismo, giacché scrisse di ritenere “poche religioni altrettanto letali per l’uomo di quella di Maometto.“ Alla fatwa dei mussulmani, la condanna per blasfemia, corrisponde l’interdetto occidentale in nome del politicamente corretto. Lo stesso Gesù ha poche speranze. In un’università gallese è già stata ritirata la Bibbia, ma che dire dei suoi attacchi ai farisei, dell’assurda pretesa di essere “via, verità e vita “?

Il totem e il tabù hanno un’altra caratteristica sorprendente: agiscono su tutte le epoche a ogni livello. Superano nei fatti un altro pilastro dell’ideologia moderna, il relativismo, attraverso l’equivalenza generalizzata, presupposto della teoria dell’identico. L’obbligo di non stilare graduatorie o classifiche si assolutizza negando ogni contestualizzazione temporale o culturale. In alcune università americane è emarginato Shakespeare. Gli si rimprovera naturalmente il razzismo, Shylock, il Moro di Venezia, il disprezzo per i disabili (Calibano nella Tempesta, Riccardo III), ma non è al riparo neppure dalle accuse di sessismo (La bisbetica domata, il personaggio di Lady Macbeth). Quanto a Dante, era omofobo, tanto che i sodomiti stanno all’Inferno, ma anche razzista (uomini siate, e non pecore matte, sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida). San Paolo è proscritto per la lettera ai Corinzi. In Inghilterra alcuni predicatori sono già stati denunciati per avere diffuso i brani paolini contrari all’omosessualità.

L’apostolo Giacomo è razzista: Santiago il Matamoros. Non va meglio a Cervantes, la cui descrizione della povera fantesca Maritornes, bassa, grassa e con gli occhi storti è un distillato di sessismo e di razzismo estetico risalente a Omero. Il suo Tersite, antieroe deforme, tremebondo e pacifista è il contrario dell’ideale greco della bellezza unita alla bontà e al coraggio. (kalòs kài agathòs). Il totalitarismo si unisce all’ignoranza settaria in quanto è vietato contestualizzare, ossia inserire fatti, idee e persone nel tempo e nel luogo in cui sono maturati. Impossibile, le nuove idee sono migliori, definitive, indiscutibili, universali. Rovesciando San Bernardo di Chiaravalle, siamo giganti costretti a reggere i nani del passato. Il germe è nell’illuminismo, che intronizzò la ragione come criterio unico di un’umanità uscita finalmente da un’infanzia millenaria. Gli universali del passato non sono soltanto rigettati, ma ridicolizzati, semplici balbettii di bambini.

La disuguaglianza più evidente tra gli esseri umani è quella dell’aspetto esteriore, il colore della pelle, le distinte caratteristiche fisiche e biologiche. Va negata senza eccezioni in quanto il suo crollo farebbe cedere e rovinare al suolo l’intero edificio. L’identico non ammette esclusioni perché l’obiettivo è costruire umani a taglia unica, colore unico, sesso unico. Prodotti di serie, economia di scala a cui applicare i criteri dell’industria e della zootecnia. Perciò il passato e ogni idea ricevuta devono essere rifiutati in radice; l’uomo è prima decostruito – l’operazione, in Occidente, è pressoché conclusa – quindi ri-generato in forma diversa. L’uomo nuovo e indistinto diventa un prodotto, un assemblaggio di pezzi sino al traguardo successivo, il transumano, l’uomo che non è più tale, ma un pezzo staccato, una protesi tra le altre. Se si rivela incapace di adattarsi, va modificato sino alla creazione del cyberantropo, snodo finale dell’uomo-macchina pensato da Cartesio, teorizzato dal sensista La Mettrie, ingranaggio della megamacchina universo.

Non va mai dimenticato il carattere profondamente iconoclasta dell’Occidente terminale. Il suo compito principale è radere al suolo la memoria, le idee e i vecchi valori, cancellarne le vestigia anche attraverso l’oblio delle grandi personalità. Il rogo delle biblioteche naziste è replicato in forma politicamente corretta, l’invito, che degenera in obbligo intollerante, a nascondere i testi non “in linea”. La damnatio memoriae ricorda la distopia anticulturale di Fahrenheit 451, mentre chiunque venga sospettato di deviazionismo dal totem-tabù antirazzista e egualitario è oggetto dell’ostracismo che Leo Strauss definì reductio ad hitlerum. Almeno una volta al giorno, siamo tutti Hitler, quando diamo un giudizio, esprimiamo una preferenza o, non sia mai, affermiamo una idiosincrasia, ammettiamo un’antipatia.

L’unico pregiudizio ammesso è quello che nega il giudizio, ossia la distinzione, il pensiero critico. Critica significa appunto giudizio, il cui divieto conduce alla chiusura mentale, prodromo dell’afasia. Ne fu interprete, in parte inconsapevole, Francis Fukuyama nella sua teorizzazione della fine della storia. Per altri aspetti, potremmo affermare il contrario: con la postmodernità finisce la leggenda, la mitografia, e può finalmente affermarsi la Storia con l’iniziale maiuscola, l’avventura della post umanità liberata dalle vecchie ubbie in corsa per superare se stessa. Razze ed etnie non esistono, le differenze sono un errore della creazione, a cominciare dalla distinzione dei sessi, chi non è d’accordo è destinato alla stessa fine delle statue degli eroi di ieri, mascalzoni di oggi.

La stampa inglese informa di attacchi vegani nei supermercati al grido di slogan anti carnivori con minacce fisiche ai clienti di macelleria. L’articolista ipotizza che presto allevare, uccidere e mangiare animali sarà considerato odioso come oggi insultare qualcuno per la sua razza o orientamento sessuale. Nulla di strano, il cosiddetto “specismo”, ossia l’attribuzione di un più elevato status ontologico e morale agli esseri umani rispetto agli altri viventi è un’altra frontiera postmoderna in corso di demolizione. Traiamo dal sito animal-ethics.org la seguente definizione: “lo specismo è una forma di discriminazione verso chi non appartiene a una certa specie. Nella gran parte delle società umane moderne è considerato normale discriminare gli animali di altre specie.” La differenza, insomma, non esiste, non ha giustificazione alcuna e va espulsa con furia da ogni aspetto della realtà. L’ uguaglianza attraversa l’equivalenza delle specie, Leonardo, i coleotteri e le siepi hanno la stessa valenza e pari dignità, ovvero nessuna dignità.

Ci stiamo estraniando da noi stessi, usciamo dall’umano prestando fede a dogmi inediti. Si erigono totem diversi, si abbattono tabù antichi per innalzarne di nuovi. Il punto di frattura della civiltà occidentale è la perdita del senso del limite unita alla negazione della trascendenza. Una regressione animale chiamata civiltà in nome di antirazzismo, uguaglianza fanatica, negazione ontologica: animali di altra specie… Per i greci il male assoluto era l’hybris, l’arroganza di oltrepassare i limiti suscitando la collera degli dei. Dio toglie il senno a chi vuol rovinare; le statue abbattute, le idee negate generano detriti, lasciano polvere dove c’era, bene o male, una civiltà. Il mondo nuovo è binario, aperto/chiuso, come il linguaggio del computer fatto di infinite sequenze di zero e uno. Lo zero, temiamo, è l’uomo occidentale.

ROBERTO PECCHIOLI