di Roberto PECCHIOLI
Non siamo teologi, la nostra preparazione religiosa è quella di tanti italiani formati da modeste famiglie cattoliche e da quella che una volta si chiamava dottrina, gli insegnamenti del catechismo appresi in parrocchia. Siamo vissuti con le semplici formule da mandare a memoria, chiare e prive di sfumature: Dio è l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra. Retaggi del passato, affermazioni nette, apodittiche, che destano orrore nell’uomo moderno e che la Chiesa nasconde, trascura, tutt’ al più confina nell’allusione e nella disprezzata fede popolare. Pensavamo queste cose assistendo, come è nostra abitudine mattutina, alle rassegne stampa televisive. Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani, scrive di tutto, in particolare di immigrazione, ius soli, politica di governo e fatti internazionali, ma non nomina mai il nome di Dio, tanto meno parla di anima, del destino finale dell’uomo, di premio o castigo eterno. E’ un giornale, si potrebbe ribattere, il suo compito è fornire notizie. Vero, ma un foglio cattolico, espressione dei pastori di quello che un tempo avremmo chiamato popolo di Dio, dovrebbe diffondere e ribadire i fondamenti della fede e porli alla base del giudizio sui fatti.
Capiamo poco delle questioni poste da alcuni porporati a Francesco, dubia che ci sembrano ragionevoli; ancor meno sappiamo valutare il merito della “correzione filiale” contenuta nel manifesto di 62 sacerdoti, professori ed intellettuali cattolici, al di là dello sconcerto per encicliche che parlano del Creato ma tacciono sul Creatore. Prendiamo atto, con tristezza, di ciò che osserviamo. Alla messa domenicale, le omelie sono spesso sciatte, frettolose, o al contrario inutilmente prolisse, ma, al di là di fornire un’interpretazione perifrastica delle scritture, nulla più di buoni consigli per una vita onesta e rispettabile. Manca il quid, che, nella fattispecie, è il senso di tutto.
La grandezza di Gesù, il motivo profondo per cui quel giovanotto ebreo in tre anni di predicazione conclusa sulla croce ha cambiato la storia sta in un unico punto, la sua affermazione di essere il figlio di Dio. Senza di essa, tutto il resto, le parabole, il discorso della montagna, la sua stessa sofferenza durante il martirio che la Chiesa chiama Passione, non è che la vicenda ammirevole di un grande uomo, di un profeta, di un visionario o di un rivoluzionario propulsore di folle, ma non è religione, non è Verbo, non è Dio. Lo colse per primo Paolo di Tarso, nella lettera ai Corinzi: “Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede.” Ed aggiunse drammaticamente: “se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” .
Ecco, ci sembra che quello presente sia un triste cristianesimo senza Dio. Si esalta la figura di Gesù Cristo, la si considera un grande esempio da cui scaturisce un’etica, una serie di modelli comportamentali, ma ciò che resta ai margini, quello cui tutt’al più si allude senza troppa convinzione, è l’annuncio – l’evangelo o, con una parola difficile, il kérigma, ovvero la proclamazione della morte e resurrezione di Gesù Cristo. Fuori da ciò, il cristianesimo non è che una narrazione suggestiva, la straordinaria avventura, umana ed esclusivamente umana, del figlio del falegname di Nazareth e della giovane Maria. Quando il “papa nero”, Sosa Abascal superiore dei Gesuiti – e gesuita fu lo stesso Bergoglio- afferma senza vergogna che dei fatti narrati dal Vangelo non vi è certezza, a partire dalla resurrezione, in quanto “non vi erano telecamere”, si è già fuori dalla religione cristiana, in un territorio desertico e inospitale in cui Gesù è attore protagonista, ma non più figlio di Dio. Forse semplifichiamo troppo, magari facciamo torto all’intelligenza del “nuovi cristiani” dubitando della loro stessa fede, ma quella è l’impressione che sgomenta.
Karl Rahner, teologo che ha dominato il Concilio Vaticano II e la sua applicazione successiva, parlò dei “cristiani anonimi”, ovvero di quegli uomini che, senza essere cristiani e senza possedere un’idea di Dio, ne hanno comunque, per natura, una conoscenza “trascendentale”, talché possono salvarsi anche fuori dall’adesione ai principi della fede ed alla Chiesa. A che serve dunque, l’imponente edificio cattolico? Aveva quindi ragione Lutero, non a caso rivalutato e quasi santificato nel quinto centenario delle tesi di Wittenberg: sola fide, sola gratia, sola scriptura. E comunque, l’ex agostiniano tedesco credeva nella vita eterna e nella salvezza o dannazione. L’argomento è diventato un tabù: silenzio impressionante. Ovvero, affermazioni del tipo che l’Inferno, se c’è, è vuoto, poiché tutti siamo destinati alla salvezza. In quel caso, sarebbe inutile ogni predicazione, ovvero, estremizzando, qualunque orizzonte morale avrebbe valore solo con riferimento alla vita terrena, giacché Dio sarebbe pura misericordia (concetto assai caro all’attuale vescovo di Roma). Ma se non c’è castigo, forse non c’è neppure delitto.
Probabilmente, nella nostra ignoranza, e magari accecati dal pregiudizio, diciamo cose assurde o ingiuste, ma il cristianesimo corrente ci sembra aver oltrepassato addirittura il confine che lo separa dall’ebraismo. La terra promessa al popolo eletto è ben materiale, è quella che calpestiamo ogni giorno. Gesù ha ribaltato la prospettiva (il mio regno non è di questo mondo) e se non è risorto, evento di cui manca la prova materiale o il filmato che tranquillizzerebbe il servo di Dio Sosa Abascal, il cristianesimo non è altro che il racconto di una vita illustre, una teoria sociale tra le altre, un ordito di regole morali e di prescrizioni pratiche da confrontare con tutte le altre. Forse esageriamo, ma in quest’ottica si comprende perché non siano più invocati e difesi quelli che Benedetto XVI chiamava principi non negoziabili. Nel mercato delle idee e delle morali, il sistema di valori cristiani è uno dei tanti, in concorrenza con gli altri, e, ammettiamolo, intrinsecamente perdente in quanto più esigente, meno aperto alla mediazione, più assertivo, per usare un vocabolo caro alla psicologia.
Allora, non resta che ricorrere ad una forma sofisticata di relativismo, cioè il situazionismo. Facciamo un esempio: per il cattolicesimo, l’adulterio è oggettivamente un grave peccato. Tuttavia, in base alle situazioni date ed alle condizioni soggettive o storiche (una sorta di torsione della “circostanza” cara a Ortega y Gasset, che era agnostico) può essere derubricato o giustificato. Basta intendersi sulla portata dei due vecchi pilastri che reggono l’impalcatura cristiana del male: piena vertenza e deliberato consenso.
Io ho commesso adulterio, ma non avevo coscienza che fosse male, anzi forse l’ha commesso solo la mia carne, che è debole, ma non la coscienza. Vi sono molti punti deboli nel situazionismo adattato al neo cristianesimo, la cui analisi lasciamo ai filosofi ed ai teologi. Ma almeno due saltano agli occhi dell’uomo comune: il primo è che se si rinuncia a distinguere il bene dal male, lasciandone il giudizio all’arbitrio individuale, nulla potrà essere considerato e vissuto come errore o come peccato, negando oltretutto la possibilità del pentimento, che è frutto della coscienza morale. L’altro è che la Chiesa ha l’obbligo di trasmettere il depositum fidei, di cui è parte integrante il giudizio immutabile posto da Dio – e per lui da suo figlio – sul bene e sul male. Sarà poi la sapienza divina a leggere nel cuore dell’uomo; la Chiesa può solo assolvere sulla base del pentimento, distinguendo tra la pena, rimessa, e la colpa, che resta.
Immaginiamo che quelli svolti alla buona nelle righe precedenti appaiano ai più futili questioni, simili alle dispute sul sesso degli angeli. In palio, però, c’è il cristianesimo come orizzonte di verità. La nostra opinione è che i cambiamenti di prospettiva, il ribaltamento di molte cose che la Chiesa ci proponeva a credere non soltanto generano confusione o perplessità, ma scavano un solco ben più profondo, quello della sfiducia e del sospetto. Abbiamo il diritto di pensare – magari a torto – che se comportamenti, idee, principi, valori, condotte proposte ed imposte per secoli non sono più valide, perché storicamente superate o semplicemente sgradite allo spirito dei tempi, uguale destino possa toccare alle nuove idee della Chiesa. Domani, o dopodomani, anch’esse saranno superate e sostituite. Ma la religione vive dell’eterno, del permanente, non può immaginare – e neppure permettersi- in materia di fede e di legge naturale, che ciò che è giusto oggi possa essere considerato assurdo domani. Non si può accettare che la verità sia posta ai voti, o che sia declinata con aggettivi possessivi e con articoli indeterminativi. O esiste, o non esiste: non ha senso la “mia” verità né tanto meno più verità, a scelta, come nello scaffale del supermercato.
Da qualche parte, si è ipotizzato che in un futuro non troppo lontano, la Chiesa cattolica possa fare a meno del Vaticano. E’ possibile, del resto Jorge Mario Bergoglio ha rinunciato a vivere tra le vecchie mura del potere temporale, ma salterebbe per aria un’altra delle prerogative, l’universalità simboleggiata da Roma e dal Papa. La vittoria di Lutero non potrebbe essere più schiacciante, ma sarebbe, in effetti, la vittoria di un cristianesimo spogliato di sé stesso, svuotato della sua essenza salvifica e veritativa, che è la salvezza ed il destino eterno della creatura uomo per mezzo della fede in Dio e dell’adesione in vita a quanto rivelato nelle scritture.
In questo senso, preoccupa anche il ruolo e l’insistenza dei biblisti, ovvero quegli studiosi membri del clero che interpretano scritture e Vangelo sulla base della loro adesione alla storia accertata. E’ chiaro che la conferma scientifica e storiografica di fatti ed avvenimenti ha un grande valore, ma Dio trascende ogni cosa e comunque il punto è sempre lo stesso: credere o meno che Gesù sia il figlio di Dio morto sulla croce e risorto. Si ha l’impressione che uomini di grande scienza, come il defunto cardinale Martini o il vivente Ravasi, insigni biblisti, abbiano subordinato la fede alla storia. La città dell’uomo europeo ed occidentale ha battuto, lasciato sullo sfondo, privatizzato o addirittura scacciato la città di Dio. Vince il progetto materialista, liberale e massonico, sbalordisce il silenzio di chi pare aver rinunciato alla battaglia, anzi sembra accogliere le tesi una volta nemiche.
I cristiani, lo disse il fondatore (chiamiamolo così, per brevità…) devono essere il sale della terra. Ma quanto è insapore e sciapo un cristianesimo ridotto ad umanesimo, organizzazione caritatevole, narrazione della vita e sofferenza di un grande uomo, memoria delle sue idee suggestive. Ciò che non crediamo più, e neppure la Chiesa sembra più credere, è che Gesù è Dio ed è risorto dalla morte. Mancano le prove, ed aveva ragione Paolo a ricordarlo ai primi fedeli, la nuova religione non è nulla senza quell’accadimento prodigioso.
Forse non è buon profeta un ateo assai colto, come il sociologo e antropologo francese Marc Augé, nel suo romanzo breve Le tre parole che cambiarono il mondo. Il giorno di Pasqua del 2018, durante il tradizionale discorso urbi et orbi, il papa, dopo un teso silenzio, esclama a gran voce: “Dio non esiste!” Tre parole che gettano nello sconcerto cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei, e scatenano una tempesta nel mondo intero. Non ci sarà alcun proclama o annuncio del genere, non ce n’è bisogno. Dio non è morto, semplicemente è assente, è un’ipotesi di cui non si tiene più alcun conto, con la complicità attiva di un cristianesimo stanco, indolente, incredulo. Per l’uomo Gesù omaggio e ammirazione, Dio non è pervenuto.
ROBERTO PECCHIOLI