di Roberto Pecchioli
Un fantasma si aggira per l’Occidente terminale. E’ lo spettro del politicamente corretto, la cui isteria, per un beffardo contrappasso, ha colpito stavolta uno dei suoi devoti. Justin Trudeau, primo ministro canadese, campione indiscusso del progressismo internazionale, in piena campagna elettorale è incappato in un infortunio che muove al sorriso solo in apparenza. Sono state pubblicate da Time, settimanale simbolo del liberalismo, alcune foto che lo ritraggono in compagnia di alcune giovani donne ad una festa privata mascherato da Aladino. Lo scandalo, secondo gli zelatori della correttezza politica, riguarda il fatto che Trudeau si è dipinto il volto di scuro. Si è, insomma, travestito da negro.
Orrore e sdegno, è tutto un aggrottare di sopracciglia nell’universo progre. Al lupo, al lupo! Le grida scomposte di razzismo hanno raggiunto il cielo, attraversato le foreste canadesi, scosso uno dei campioni della tolleranza, del multiculturalismo, della democrazia eccetera eccetera. Viene quasi voglia di solidarizzare con il povero primo ministro, vittima di un meccanismo che ha abbondantemente contribuito ad alimentare. Invece no; si rende anzi necessaria, a partire dall’accaduto, una riflessione sul disgustoso maccartismo culturale che chiamiamo “politicamente corretto”.
Innanzitutto i fatti: la foto, assolutamente innocente, risale al 2001: diciotto anni fa. Non vi si scorge soltanto la manovra politica in chiave elettoralistica, ma una sorta di maledizione perpetua, l’imprescrittibilità del reato di pensiero scorretto scoperto dall’Inquisizione postmoderna. La psicopolizia scava, indaga, pronuncia condanne. La miccia può bruciare in qualsiasi momento, anche con decenni di ritardo, la detonazione tardiva non limita i danni. Che la vittima di turno sia un bigotto della correttezza politica può divertire, farci commentare che in fondo ben gli sta, ma non cambia la gravità miserabile dell’accaduto, specchio di un costume fattosi cancrena.
Scriveva Shakespeare – anch’egli vittima postuma della folle polizia di pensiero, parole, opere e omissioni- che il passato è un prologo del presente. Viviamo in una società di delatori sospettosi che dà per perduto il futuro, riconosce solo il presente e si picca di correggere il passato. Giudica ogni cosa con il metro delle sue turbe sottoculturali, in una riduzione all’odierno superstiziosa e persino comica. Il passato è un enorme fardello di oscurità e barbarie, vale solo il giudizio di oggi. E se quello di domani fosse diverso, contrario? Silenzio, i credenti fanatici di una fede – i sostenitori del politicamente corretto lo sono – non argomentano, lanciano anatemi, espellono, emettono bolle di interdizione, eseguono sentenze.
Nel caso Trudeau, oltre al risibile casus belli, la foto di un giovane in una festa a tema arabo vestito in foggia orientale con un po’ di lucido da scarpe scuro spalmato sul volto, per di più risalente a quasi vent’anni fa, quando era un giovane professore, stupiscono la reazione dello stesso accusato e il disgustoso, improvvido attacco del suo avversario del partito conservatore. Trudeau, a dimostrazione della natura totalitaria della narrazione politicamente corretta, ha dovuto chinare la testa, fare autocritica nel più puro stile sovietico. Contrito, il bel primo ministro, anziché rivendicare vigorosamente la propria storia politica e contestualizzare l’episodio, si è dichiarato dispiaciuto, si è battuto il petto in un’ammissione di colpa sconcertante: “adesso so di aver fatto qualcosa di razzista. Non capivo il danno che facevo alla gente che vive la discriminazione ogni giorno”. Per un dito di lucido sul volto in una festa studentesca del passato remoto.
Lasciamolo alla sua sindrome di Stoccolma, segnalando l’assurdo commento del rivale conservatore, per il quale la foto dimostra che Trudeau “non è adatto a governare questo paese”. Gran tempra di conservatore, l’aspirante primo ministro di centrodestra avversario del premier di centrosinistra! Bluette e rosa fucsia, le facce della stessa falsa moneta. Scrisse Pier Paolo Pasolini in Petrolio, il suo libro estremo, che non dovremmo mai accettare il linguaggio dei nostri nemici. Ancor meno condividere per tornaconto l’irritazione perpetua e la censura dei neo puritani. Tutti si fingono santi, nessuno relativizza un gesto o una parola: l’ipocrisia montante è vomitevole, più delle scuse a capo chino dei bersagli di turno. L’obbligo è essere esemplari secondo criteri ogni giorno più stringenti quotidianamente aggiornati da un clero di fanatici della tolleranza, dell’antirazzismo, della più cupa uguaglianza.
Alcuni anni fa il filosofo Javier Gomà trattò questi temi esprimendo semplici verità affermare le quali è diventato rischioso. “Essere esemplari rappresenta un ideale di dignità e bellezza, non uno strumento di linciaggio. Con troppa frequenza l’esemplarità è invocata opportunisticamente in lotte di potere o è una maniera per placare la sete di castigo di una società scandalizzata. Sottomettersi a questa severità sociale amplificata dalle reti sociali e dai mezzi di comunicazione rende impossibile uscire indenni da qualunque esame.” Inquietante è soprattutto il giudizio sul passato giudicato secondo un occhiuto, apodittico, ininterrotto revisionismo storico. Un umorista ha fatto rilevare che persino nella Germania comunista i funzionari di sicurezza della Stasi spiavano i cittadini osservando un orario di lavoro. Oggi il controllo dura ventiquattr’ore al giorno, sette giorni alla settimana.
E’ nato nelle incubatrici dei campus universitari anglosassoni un mostro diventato adulto, un virus che acceca aggredendo la libertà di espressione e il pensiero critico, vanto della civiltà europea. Conta potenti alleati: oltre a Time, spiccano tra i paladini della subcultura politicamente corretta il New York Times, il caravanserraglio dell’intrattenimento di Hollywood e, più in alto ancora, i giganti tecnologici di Silicon Valley. Facebook censura quadri e sculture orgoglio della storia dell’arte perché espongono il corpo umano nudo, ma ospita manuali di istruzioni sul confezionamento di bombe. Gli episodi di follia degenerativa sono ormai tanto numerosi che l’elenco è stucchevole.
Al malcapitato Trudeau ci piacerebbe chiedere se ritiene “liberale” che in alcune università non si possa applaudire poiché il battito delle mani potrebbe risultare aggressivo per qualche spettatore, che il linguaggio detto inclusivo sradichi il genere maschile, come già fanno alcune deputate di vari parlamenti, o che girino, anche nel suo aperto Canada, liste di maschere di Halloween sconsigliate o senz’ altro proibite, come sono vietate le parole maternità e paternità nell’università del New Hampshire, poiché “indicano il genere”. E’ d’accordo, Trudeau-Aladino, che Amleto, un principe danese, sia interpretato da un attore nero, o se preferisce afroamericano, non perché sia più bravo degli altri, ma in nome di una “corretta integrazione “?
Gli segnaliamo altresì, se i censori con i quali simpatizza non lo hanno già fatto, alcuni campi di lotta politicamente corretta: i privilegi dei bianchi, l’oppressione eteropatriarcale, l’islamofobia, i diritti di “genere”, la riscrittura di tutti i libri di storia, la cancellazione della tradizione cristiana. Intanto, nelle università si approntano spazi definiti neutri, nei quali nessuno possa sentirsi a disagio per motivi etnici, religiosi, sessuali o di altra natura. La libertà degli studi è seriamente minacciata dal rifiuto pregiudiziale del dibattito, che potrebbe irritare o creare apprensione nei più sensibili, la fragile generazione “fiocchi di neve” Il nome deriva da una definizione di Chuck Palahniuk nella sua opera prima Fight Club del 1996, romanzo che tratta del disagio di alcuni uomini verso la nuova cultura americana che disprezza la mascolinità.
Incidentalmente, osserviamo che, unico al mondo, l’editore italiano ha conservato il titolo originale, di facile traduzione: un ulteriore segno del servilismo soddisfatto della nostra cultura, il cui simbolo è Arlecchino. Siamo immersi in una società delicata di spiriti unanimi per conformismo e incultura, che giudicano aggressione ogni dissidenza, qualsiasi pensiero non conforme alla vulgata corrente. Respiriamo un’aria viziata, satura di femminismo vendicativo, pacifismo informe, relativismo, multiculturalismo straccione, tolleranza a senso unico. Valori accolti acriticamente e professati senza dibattito finiscono per trasformarsi nel loro contrario: l’omogeneizzazione come esito di un’uguaglianza astratta, il femminismo diventa un feticcio intriso di odio, il relativismo sfocia nel nichilismo o nell’affermazione brutale della forza o del numero, la tolleranza degrada in ipocrisia, cortesia impostata da mercante levantino. Di più: diventa culto del pregiudizio generalizzato, che la nostra cultura ha sempre combattuto attraverso una sapienza venerabile, la filosofia.
La filosofia non ha mai eliminato gli “a priori”, le idee ricevute, ma le ha analizzate, chiarite, situate nella giusta dimensione. Una conoscenza svuotata dagli a priori è propria delle società che si disfano dei loro principi fondanti. Ma il primo diritto umano, spiega Ortega y Gasset, è il diritto alla continuità. Il formalismo astratto di un desolante democratismo, del razionalismo in generale, conduce alla creazione di un’umanità che abita una città situata tra le nuvole. Pensare è sempre “pensare contro qualcuno” (Gustavo Bueno). Qualcuno, aggiungiamo noi, che a sua volta pensa. Oggi gli interlocutori sfuggono, rifiutano il confronto. Vige un’incultura del risentimento che nega l’ascolto dell’Altro per pregiudizio e ideologia mascherata da superiorità morale. I suoi adepti si allontanano con un ghigno di disprezzo, nascondendosi nel loro rassicurante angolo di unanimità, esigendo l’abiura, invocando il bavaglio per i malvagi. Si finisce schiacciati dal peso inerte della massa morta.
Miriadi di identità minime e incompatibili ostentano i segni dell’offesa sanguinosa per veri e spesso inesistenti torti e discriminazioni. Il progressismo politico e culturale si è erto a loro rappresentante unico per monopolizzarli e sfruttarli. Fu un’idea vincente del peggiore dei cattivi maestri del secondo Novecento, Herbert Marcuse. Nella Tolleranza repressiva scriveva così. “E necessario aiutare le piccole e impotenti minoranze che lottano contro la falsa coscienza: la loro esistenza è più importante del mantenimento dei diritti e delle libertà che vengono violate e che conferiscono poteri costituzionali a coloro che opprimono tali minoranze. Dovrebbe essere chiaro che l’esercizio dei diritti civili da parte di coloro che non li hanno richiede come condizione preliminare che quegli stessi diritti siano ritirati a coloro che impediscono il loro esercizio e che la liberazione dei dannati di questo mondo richiede l’oppressione dei loro vecchi e nuovi padroni”. Chiarissimo.
Hanno bisogno di un male da estirpare, di designare un nemico minaccioso, incombente, che esibiscono al posto della concretezza di un progetto. Lo definiscono in termini drammatici, assoluti, per presentarsi come salvatori, i buoni delle favole. Le rivendicazioni politicamente corrette vengono brandite come armi in una crescente tensione emozionale, ottenuta attraverso l’eccitazione fraudolenta di alcune identità (orgoglio gay, femminismo radicale, le bandiere arcobaleno della pace, la logorrea ambientalista alla Greta Thunberg). Il meccanismo è semplice e rassicurante: la politica, quella “buona”, “morale”, “giusta” risolverà i problemi, ma non con azioni, bensì attraverso gesti fatui, dichiarazioni magniloquenti, impegni indeterminati.
Nella narrazione politicamente corretta vi è qualcosa della lampada di quell’ Aladino che tanti fastidi reca a Trudeau: basta sfregare il becco e si materializza tra le nubi il genio della lampada, pronto a soddisfare i desideri. Che peccato, non è altro che uno splendido racconto delle Mille e una notte; Trudeau non è Sherazade, come nulla, nell’universo etereo, disincarnato della correttezza politica, è ciò che è. Vince la negazione della realtà, tanto offensiva, così fastidiosa. Nel mondo immaginario dei fiocchi di neve, una rosa non è una rosa, è un garofano, una margherita, forse non è neppure un fiore.