Vorrei innanzitutto segnalare che se è vero che i liberali classici ritengono l’Autorità politica una necessità, ovvero un “male necessario”, oltretutto sorgente non dalla natura sociale dell’uomo ma dal contratto tra soggetti assoluti di illimitata libertà individuale che compongono sinallagmaticamente le loro conflittualità 1, bisogna sottolineare l’esito totalmente anti-statualista del liberalismo classico rappresentato, oggi, da posizioni come quelle anarco-liberiste, che proprio dalla famosa frase della Thatcher sull’inesistenza della società a favore dei soli individui prendono le mosse. Posizioni secondo le quali sarebbe necessario “vendere lo Stato pezzo per pezzo”.
L’anarcoliberismo è l’anima profonda di movimenti populisti neoliberisti come quello del Tea Party, americano come europeo ed italiano. Preciso che lo scrivente è lungi dalla “divinizzazione” della stessa Comunità politica, che è appunto solo di natura, in quanto la mia fede cristiana non lo consente. La storia degli abusi e soprusi dell’Autorità politica è lunga e nota. Ritengo però che non per questo si possa accedere alla visione liberale, classica o anarcoliberale che sia. Certo, si pone, sin dai tempi di Platone (“chi custodisce i custodi?”) il problema del limite dell’Autorità e del controllo su tale limite. Francesco Gentile, se non erro, ricordava spesso che il problema del limite all’Autorità politica deve essere risolto, secondo le categorie classiche del pensiero politico, ad iniziare dalla “prudenza”, dalla stessa Autorità in una visione filosofica che rimanda ad una Istanza superiore al Politico stesso. Sappiamo quanto questo sia nel concreto della storia difficile e raro, per la fallibilità umana essendo l’uomo ontologicamente ferito sempre tentato dal Potere (ed altro). Ma non impossibile, al modo stesso dell’Amore di Dio. Il Quale, stando ad una lettura disincantata della vicenda umana, anche quella degli uomini religiosi, si dovrebbe ritenere una chimera, con la conseguenza dell’ateismo. Però poi di tanto in tanto appaiono figure particolari, come Francesco d’Assisi o Madre Teresa di Calcutta, che quell'”impossibile Amore” rendono visibile, palpabile, concreto, operante. In una parola “possibile”. Questo vale, con tutte le debite differenze, anche per il Politico, sempre sospeso tra “machiavellismo” e “bene comune”.
Agostino ci insegna che le due città sono fondate sui due tipi di amore riscontrabili nell’esperienza dell’uomo, l’amor sui e l’amor Dei, e che senza la Giustizia anche lo Stato, l’Autorità politica, è soltanto un brigante (come in effetti tante volte si è mostrato). Ma questo vale anche per il Mercato, ed è questa la mia critica ai liberisti che credono nel mito di una mano invibile dispensatrice, se non ostacolata, di pace, benessere, prosperità e giustizia per tutti. L’esperienza storica dell’uomo dimostra che non è così, non è mai stato così.
Mario Agnoli auspica, mi sembra, che il superamento dello Stato-Nazione coincida con l’affermazione di nuove forme di Autorità politica, o “reggimento” come dice lui, sul tipo di quelle neocomunitarie che, nel passaggio dalla forma moderna dello Stato a quella postmoderna della governance mondiale, appaiono come emergenti. Tuttavia lo stesso Mario ammette che l'”ambito centrale” – per usare una terminologia schmittiana – dell’epoca postmoderna, quell’ambito centrale che dovrebbe garantire la neutralizzazione del conflitto come un tempo facevano, sempre stando a Carl Schmitt, la teologia ed il diritto, sta tutto nell’economia ed in particolare nell’egemonia della finanza. Un “ambito centrale” che, però, , non sembra, alla prova dei fatti, garantire nè la neutralizzazione del conflitto (anzi …!), nè la pace, né la giustizia (commutativa o distributiva che sia). E questo è un altro smacco storico del liberalismo secondo il quale, invece, lasciando il mercato operare senza ostacoli l’umanità avrebbe goduto, per virtù degli scambi e del “benefico” egoismo di ciascuno, di pace duratura e di benessere generale. Concordo, quindi, con Mario quando mette in evidenza l’idolatria del Mercato, “entità astratta ed impersonale” (cosa che dimostra che esso è l’alter ego moderno dello Stato macchina, altrettanto impersonale ed astratto), propria dell’ideologia liberista. Sicché Mario ha pienamente ragione a ricordare che il mercato è fatto di uomini e di istituzioni umane. Dunque fallibili come l’uomo. Federico Caffé, che di Mario mi sembra sia stato professore all’università di Bologna, derideva puntualmente l’idea della invisibile mano del mercato ricordando che in realtà il mercato è fatto di visibilissime mani anche se spesso si tratta di mani di “incappucciati” (agli “incappucciati” che dirigono il mercato ha persino dedicato una delle sue opere più note). Il mercato è esposto a tutti i rumors sapientemente agitati da chi sa come speculare facendo leva sulla frenesia di guadagno e l’ansia di evitare perdite, insomma sull’avidità e la paura, di chi concorre nell’agone del mercato. Perché il mercato, sarà anche l’incontro tra la domanda e l’offerta, tra chi chiede e chi offre, tuttavia è sopratutto il luogo della concorrenzialità la quale a dispetto del nome (“cum currere” ossia correre assieme) mal si concilia con la cooperazione, e quindi con lo spirito comunitario. Nel XX secolo si è ritenuto, per questo, che l’Autorità politica, lungi dal mantenere un atteggiamento neutro che in verità favorisce i più forti e i più scaltri, avesse qualcosa da dire e da fare per “correggere” le tendenze alla asimmetria intrinsecamente insite nel mercato, a causa della natura fallibile degli uomini (il mercato sempre benefico, nella giustizia communitativa, come lo sognano i liberisti e come lo dipingono i catto-liberisti si sarebbe dato – forse! – in una stato adamitico dell’umanità ma non può darsi in quello postadamitico segnato dal “peccato”).
Ora, è vero che, sempre a causa della stessa fallibilità umana, anche l’Autorità politica si è molte volte dimostrata fallibile ed invece di correggere ha aggravato certe asimmetrie. Basta pensare ad un presunto Welfare che consente le “pensioni d’oro” di pochi, spesso persone che hanno operato ad alti livelli nel pubblico, a fronte di pensioni sociali di poche centinaia di euro. Tuttavia, la risposta a questo fallimento non può essere nel ritorno alle presunte virtù benefiche del libero mercato. Da quando, ossia dalla Rivoluzione neoconservatrice reganiana, il liberismo ha progressivamente ripreso forza (dove più, dove meno) le distanze sociali sono tornate ad essere abissali e se un manager negli anni’ ’60 e ’70 guadagnava 30 volte più dell’operaio attualmente il solco si misura nell’ordine di 3.000 volte di più.
Ipocritamente la chiamano “meritocrazia”. Un concetto tanto astratto e vago quanto appunto lo Stato o il Mercato. Come e chi misura il valore di una persona e su quale metro. Non solo nel pubblico ma anche nel privato il management arruffone spesso è premiato in stock options, purchè faccia guadagnare gli azionisti indipendente dai metodi usati ossia se facendo crescere l’azienda o licenziando un po’ di manodopera oppure speculando in derivati. Qui, come è evidente, non interessa la “sanità” di una azienda, che dovrebbe ricomprendere anche la crescita del “capitale umano”, come tanta retorica afferma, ma soltanto il profitto immediato, cieco ed istantaneo. E’ un merito questo? E dimostrazione di capacità manageriali questo?
Basta ricordare le “malefatte”, in termini di guerre mondiali e di macelli bellici, dello Stato-Nazione. Nessuno potrebbe dire il contrario perché la storia sta lì a dimostrarlo. Ma la domanda da porsi è un’altra: che forse il venir meno dello Stato-Nazione, e quindi l’imporsi della nuova forma di “reggimento” fondata sul primato dell’economia e del mercato, ha posto fine alla guerra ed a i carnai umani? Una pubblicità ricorrente in tv a favore dell’Unione Europea insiste sul ricordo del fronte di guerra che per due volte passò lungo il Reno e l’Alsazia Lorena insanguinando l’intera Europa e il mondo tutto. Naturalmente l’Unione Europea, secondo quella propaganda “governativa”, ci avrebbe oggi immunizzato dal ritorno dei passati drammi bellici. In parte c’è del vero ma anche tanta retorica.
Credo che, nonostante questa retorica europoide, i greci non si sentano fratelli dei tedeschi e che stiano covando tanto di quell’odio che potrebbe anche esplodere, persino in forma bellica, prima o poi. E’ una illusione quella per la quale il mercato ci rende immuni dalla guerra. Senza contare quante guerre hanno avuto ed hanno ragioni squisitamente mercantili, di conquista dei mercati o di controllo delle fonti energetiche, possiamo davvero dire che la globalizzazione stia pacificando il mondo invece che esasperando vieppiù le tensioni tra culture e popoli e quelle geopolitiche? Persino nella stessa Unione Europea all’interno della quale, come ormai riconoscono in molti, la moneta unica invece di affratellare i popoli li ha allontanati, oltretutto riaprendo antiche e mai veramente sopite ferite storiche.
L’ideale di una Europa di Pace e di Giustizia per tutti, dopo le tragedie delle due guerre mondiali, ha animato uomini come Alcide De Gasperi ed Altiero Spinelli, pure di formazioni spirituali e politiche diverse. Ma possiamo dire che l’UE e l’euro corrispondano oggi a quell’ideale?
La guerra, “apocalitticamente”, è da sempre triste compagna dell’umanità e non è la fine dello Stato-Nazione né l’affermarsi del Mercato Globale che separerà l’umanità da tale triste compagnia. La guerra esisteva ben prima dello Stato-Nazione (il quale, insieme al perfezionamento delle tecnologia bellica, l’ha solo resa più cruenta) e continuerà ad esistere anche nell’età del Mercato Mondo. Stato e Mercato nascono nello stesso periodo storico, con la modernità, benché Politica ed Economia sussistevano anche prima perché connaturate alla dimensione stessa dell’uomo e della sua esperienza storica. La spiegazione del “Male” non sta quindi nel Politico o nell’Economico in sé. Le sue cause sono antropologiche. Qui, però, dovremmo addentrarci nel mistero del “peccato” e nei territori della teologia o, meglio ancora, della Rivelazione. Il che ci porterebbe lontano da questo scambio di idee. L’importante però è tenere sempre conto, e sottendere nel discorso, questo mistero come sfondo del nostro approcciare i problemi. In tal modo eviteremo le idolatrie stataliste quanto mercantiliste e in umiltà cercheremo, per quel che ci è umanamente possibile, soluzioni, sempre precarie e mai definitive, ai problemi del nostro tempo. Per quanto mi riguarda, pur consapevole di tutta la problematicità relativa allo Stato, ed al suo deficit di giustizia, quale forma storica del Politico, e fino a quando non mi sembrerà di scorgere nuovi modi capaci di forma politica – e di protezione dei cittadini dal “male” – continuerò a puntellare il Vecchio Katechon statuale, per quanto sempre più malandato e spesso come nei temi etici ormai incapace di frenare la dissoluzione incipiente, a fronte dell’avanzare del Nuovo Leviathan del Mercato Globale. Se qualcuno sa indicarmi una alternativa all’orizzonte sono qui,in attesa impaziente, pronto ad ascoltarlo.
- lo scrivente preferisce parlare, in una chiave “platonica” e in polemica con Popper, notevole epistemologo ma debole in ambito teologico-filosofico-politico, di Autorità politica o di Comunità politica piuttosto che sic et simpliciter di Stato che è solo la forma moderna, oltrettutto messa attualmente in forte discussione, della’Autorità e della Comunità politica, concetti di per sè più ampi e riconmprensivi del semplice Stato-macchina o apparato pubblico amministrativo) ↩