di Roberto PECCHIOLI
Due eventi tra cronaca, politica ed economia hanno caratterizzato le ultime settimane, l’assassinio del giornalista dissidente saudita Kashoggi, fatto a pezzi nell’interno dell’ambasciata a Istanbul del suo paese e il clamoroso arresto in Canada, per ordine Usa, di Meng Wangzhou, figlia del fondatore del gigante tecnologico cinese Huawei e direttrice finanziaria della compagnia. Il delitto Kashoggi, commissionato quasi certamente dal principe ereditario Bin Salman avrebbe suscitato un’ondata di indignazione internazionale se l’Arabia Saudita non fosse il ricco partner commerciale e finanziario degli Usa a causa dell’immensa ricchezza in petrodollari e se non fosse in vista un pericolosissimo affare – economico e strategico – in grado di cambiare radicalmente la mappa geopolitica del Medio Oriente, la vendita a Riad di tecnologie per l’arricchimento dell’uranio. Un affarone per l’industria americana, almeno ottanta miliardi di euro, e il rischio di rendere l’Arabia Saudita una potenza nucleare.
Il grande gioco continua, nell’assenza pressoché totale della vecchia Europa. Il massimo elemento di crisi è la guerra commerciale tra Cina e Usa, che ci vede spettatori per un verso, vittime sacrificali per l’altro. Nessuno crede che Meng Wanzhou sia stata incarcerata per motivi fiscali. E’ in atto una competizione di vasta portata la cui posta principale è il controllo delle tecnologie informatiche e delle reti di telecomunicazione. La Cina, attraverso Huawei, impresa fortemente legata al potere politico e all’apparato militare e riservato del Dragone, ha acquisito posizioni molto sgradite all’America. Attraverso politiche di joint-venture e collaborazioni scientifiche con decine di industrie internazionali, oltreché vero e proprio spionaggio, ha in mano segreti industriali, know how riservatissimi, codici di accesso, produzione di componenti strategici.
In più, la Cina controlla la schiacciante maggioranza delle risorse minerarie delle cosiddette “terre rare”, decisive per la realizzazione di apparati indispensabili delle nuove tecnologie. Vi è dunque un diretto interesse politico e militare, oltreché economico, che impone a Washington, antica maestra di spionaggio elettronico, di contrastare Pechino e le sue industrie di punta, specie nel momento in cui si lavora alle nuove reti di telecomunicazione 5G, la cui velocità sarà da cento a mille volte superiore alle attuali 4G. Huawei si è inserito con forza nel mercato con le conseguenze geopolitiche e di guerra sotterranea che ognuno può immaginare, tanto che Giappone, Canada e Stati Uniti l’hanno esclusa dalle gare pubbliche legate allo sviluppo delle reti 5G insieme con la connazionale ZTE.
La battaglia dei giganti è legata altresì alla capacità di raccogliere metadati, campo nel quale il capofila resta Apple. Si definiscono metadati le informazioni associate a contenuti informatici, parte fondamentale del “web semantico”, ovvero la classifica, elaborazione, deduzione, processamento organico di dati e documenti. L’ importanza di tali conoscenze, il possesso di metadati va al di là del pur immenso affare economico. Quando creiamo un ID per accedere a un servizio riservato, compriamo un prodotto, scarichiamo un nuovo programma o un’applicazione, vengono raccolti vari dati che ci riguardano, preferenze di navigazione, indirizzo IP, ubicazione e estremi della carta di credito. Lo afferma la stessa azienda della mela morsicata nelle avvertenze d’uso che nessuno legge. Si tratta di un formidabile strumento di raccolta di informazioni tesa a fornirci prodotti e pubblicità personalizzata, ma che può essere utilizzata e scambiata per ogni altro scopo. Si tratta di informazioni chirurgiche e complete, una sorta di cassaforte, una cornucopia di dati cui non sfugge chiunque condivida contenuti con un utente Apple.
Quanto ad Huawei, che compete aggressivamente sullo stesso terreno, ammette nelle proprie avvertenze di utilizzare, oltreché i classici cookies per tracciare la navigazione, altri marcatori come le etichette di pixel o i cosiddetti beacons. Tuttavia, il vero potenziale dispiegato da Huawei non riguarda la telefonia, dove pure ha conseguito una posizione di privilegio, ma le reti telematiche. In sostanza, è sempre più nelle sue mani l’alveo, il canale in cui si muove Internet, le reti materiali che trasportano miliardi di informazioni di ogni natura. L’estate scorsa la presidenza americana ha proibito ai funzionari governativi l’uso di dispositivi della Huawei e della connazionale ZTE per il timore di fuga di dati. Oltre a software di altissimo livello e personale di eccellenza, la grande forza dei cinesi è il possesso della connettività. Secondo l’agenzia Deloitte, la Cina ha innalzato dal 2015 almeno 350mila antenne di telefonia mobile 5G, contro le 30mila statunitensi. Huawei è ormai la principale impresa di posa di reti in Asia. In Italia lavora per il progetto Sparkle di Telecom, ma collabora in Europa ai massimi livelli anche con Vodafone, Orange, Movistar insieme con Ericsson, altro soggetto chiave nello sviluppo di infrastrutture per reti telematiche.
La società presieduta da Reng Zhenfei commercializza milioni di routers, i dispositivi di rete che si occupano di istradare i dati tra sottoreti diverse, e sta diventando un protagonista nei servizi cloud per le imprese, la nube informatica che offre informazioni e servizi accessibili dovunque da qualsiasi dispositivo, con risorse assegnate attraverso procedure automatizzate. Sullo sfondo di tali mercati strategici, domina lo spionaggio industriale e militare, la cattura di dati e metadati, il loro uso e mercato. Geopolitica e geostrategia sono la cornice dell’affare tecnologico ed economico più importante del XXI secolo, una vera e propria guerra sotterranea tra gli Usa, ossia Silicon Valley più l’apparato industriale e militare a stelle e strisce, e l’emergente potenza del Dragone. L’Europa ha battuto un colpo solo da pochissimi giorni, attraverso una dichiarazione del vicepresidente della Commissione Andrus Ansip, secondo il quale bisogna “temere imprese cinesi come Huawei”. Nessun accenno ad analoghe condotte dei colossi americani, tanto meno il tentativo di incoraggiare l’ingresso di imprese europee nel mercato più ricco e importante, che impronterà il mondo per decenni.
Il sonno strategico dell’UE si interrompe, paradossalmente, per promuovere la pesante censura alla rete che si prospetta in conseguenza della direttiva sul copyright, il diritto d’autore, la cui discussione è alle battute finali. La battaglia infuria sul testo definitivo, in particolare sul controverso articolo 13. Le associazioni degli autori e dei titolari di diritti di privativa e proprietà intellettuale spingono per una rapida approvazione, Francia e Germania, per adesso, tirano il freno. La normativa permetterà a piattaforme come Youtube, (cioè Google), Facebook, Instagram e Twitter di bloccare contenuti e dare priorità ad altri. Un potere immenso che gli interessati non hanno reclamato, tanto da diventare i massimi oppositori della direttiva. L’articolo 13 obbligherà le piattaforme a censurare molti contenuti. Dovranno infatti pagare di più i creatori e proprietari di contenuti, musica, libri, filmati. La norma esige che vengano approntati algoritmi che blocchino preventivamente opere con diritti d’autore, canzoni, memi (idee, stili, azioni propagate attraverso Internet nella forma di immagini, ipertesti o video), poesie, citazioni di libri o spettacoli.
Le imprese tecnologiche e le associazioni di internauti paventano il potere di Google di oscurare i contenuti sgraditi e dare preferenza a quelli di sua scelta per i più svariati motivi, dalla pubblicità a interessi finanziari o politici. E’ la censura definitiva, il delitto perfetto contro la libertà perpetrato in ossequio al tornaconto della lobby di detentori di diritti intellettuali che finirà per limitare la libertà di accesso alla rete di 500 milioni di europei, rendere più duraturo il potere dei cinque-sei giganti americani senza fare nulla per costruire un’alternativa alla tenaglia tecnologica Cina-Usa, schierando l’Europa su uno dei fronti con l’esito di perpetuarne la subalternità tecnologica e politica insieme con la colonizzazione culturale.
Inoltre, verrà favorita l’ulteriore concentrazione del potere di censura in poche grandi imprese private straniere, le uniche in grado di investire nella creazione degli algoritmi di blocco imposti dall’UE. Google afferma di avere pagato nel 2017 almeno un miliardo di euro attraverso Youtube, oltre a quanto corrisposto alle varie associazioni nazionali di autori e proprietari di diritti. In realtà il gigante di Mountain View ha soprattutto creato un programma, Content ID, che permette ai titolari di diritti di rintracciare a pagamento i contenuti che li riguardano, scegliendo se bloccarli o mantenerli in cambio di pubblicità. L’impatto della direttiva ha provocato una forte mobilitazione di opinione e la petizione europea su iniziativa di change.org ha raccolto ben quattro milioni di adesioni.
Uno dei nervi scoperti della vicenda è il danno causato alle imprese dall’assenza di giudici indipendenti e in carne ed ossa nelle controversie che si determineranno. La disputa su un contenuto bloccato per questioni di diritti d’autore sarà decisa da un algoritmo segreto, un programma informatico. L’enorme potere della tecnica viene legittimato dalle istituzioni poste a difesa delle persone, del diritto e della sfera pubblica, che si spogliano delle loro prerogative per offrirle a colossi industriali e tecnologici privati. Non diverso è il forte tentativo di privatizzare i tribunali attraverso le corti arbitrali “interne” dei grandi gruppi transnazionali imposte con trattati come il TTIP e il CETA.
Il vasto mondo corre e gira, nuovi attori globali lottano per il controllo delle reti di telecomunicazione, delle materie prime e delle conoscenze, persino l’Arabia Saudita ragiona a lungo termine con il programma Vision 2030 e grandi aree della terra irrompono nel grande gioco. Solo l’Europa, chiusa nei suoi riti iniziatici, tra accorgimenti contabili, interminabili dibattiti e esercizi da ragionieri, è sempre più un recinto di vassalli teso a evitare responsabilità globali, rinunciatario in termini strategici e progettuali, ma vivissimo all’atto di tagliare spazi di libertà ai propri cittadini, prona agli interessi di gruppi di pressione, aziende e potenze straniere.
Mentre il mondo corre, a Bruxelles si discute del sesso degli angeli come a Bisanzio. Imitazione di se stessa e della grandezza passata, periferia del mondo, l’Europa è trasformata in un diorama da museo, una rappresentazione tridimensionale in scala ridotta. L’illusione ottica di un continente fatta con teloni trasparenti illuminati da fonti di luce nascoste allo spettatore, cioè a noi; un panorama che dà l’impressione della realtà attraverso artifici prospettici. La realtà, il movimento, la vita stanno altrove: Cina, America, India, Brasile, Russia, Medio Oriente. Tutto, ormai, avviene altrove. Qui, nella terra del tramonto, tecnologico, economico, storico, culturale a sera chiude il museo, si pagano le rate agli strozzini e le royalties ai padroni del mondo, poi si spengono le luci.
ROBERTO PECCHIOLI