Utopia e distopia: coincidenza degli opposti
di Roberto Pecchioli
La definizione di utopia, dal nome del paese ideale coniato da Tommaso Moro nel suo celebre libretto omonimo, (1516) con le voci greche οù, (non) e tòpos, luogo, “il posto che non esiste”, è la formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà, proposto come ideale e modello. La distopia è il suo contrario, ovvero la descrizione di uno stato di cose in cui si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi. Al di là delle definizioni, la nostra convinzione è diversa: utopia e distopia, sogno e incubo, tendono a intrecciarsi, a confondersi, sino a una singolare coincidentia oppositorum, l’unione degli opposti che per alcuni è una categoria della dialettica.
Più semplicemente, la nostra tesi è che le utopie di cui è piena la nostra cultura, nate per rappresentare la speranza, il desiderio di perfezione, l’aspirazione alla felicità della specie umana, alla prova della realtà si rovesciano inevitabilmente nel loro contrario, diventano cioè incubi, gabbie soffocanti, follia. Il nostro tempo ne è una prova evidente: ha inventato la correttezza politica per non offendere e il suo esito è il divieto, il cambio di linguaggio, di significato, addirittura la mutazione antropologica attraverso il capovolgimento della comunicazione e il cambio di senso di parole e concetti. Ha messo sul trono la ragione per poi negarla nei fatti, offuscando la legge naturale, la biologia e il senso comune in nome del falso postulato che l’intero comportamento umano è determinato dalla prevalenza dei costrutti culturali sulle evidenze biologiche, naturali e scientifiche mai messe in dubbio da alcuna civiltà.
Presto qualcuno, con perfetta serietà e in coerenza con quanto dianzi asserito, chiederà e otterrà la censura della Bibbia, a partire dalla temeraria affermazione che la post modernità ha revocato in dubbio: maschio e femmina li creò. L’utopia della massima libertà ci sta trascinando in un mondo fatto di divieti, sbarre, proibizioni, giustificati da una presunta superiorità morale del presente: luce contro tenebre. Il bavaglio alle idee, alla libertà, al libero pensiero diventa la conseguenza di un “progresso” in cui dominano due tabù indiscutibili: una forsennata tensione all’ uguaglianza e un antirazzismo a tinte folli.
L’uguaglianza si è trasformata in un feticcio permaloso, carico di rancore, con l’enorme eccezione dell’accettazione dell’unica ineguaglianza su cui è giusto eccepire, quella dei mezzi economici. L’antirazzismo partì dalla negazione dell’esistenza di razze ed etnie in nome dell’eguaglianza; la vulgata postmoderna ha negato se stessa sino a ridurre gli uomini al colore della pelle in nome dell’odio contro una specifica civiltà, quella europea ed occidentale, la cui colpa massima è di essere figlia di “maschi bianchi europei morti” (DWEM, dead white european males, nell’acronimo globish degli illuminati woke).
Osservate con il criterio della realtà e della libertà concreta, tutte le utopie prodotte dal pensiero occidentale sono sin dall’origine vere e proprie distopie, a partire dalla più antica, la Repubblica di Platone. Tutte hanno avuto in comune il rifiuto della legge naturale, l’orrore per la libertà individuale e collettiva, la convinzione che la fonte di ogni male sia la proprietà privata. Tutte trasudano un pessimismo radicale, vendicativo nei confronti dell’uomo concreto, tutte finiscono per intromettersi nella vita intima e sessuale, tutte negano ai genitori la potestà e l’educazione dei figli. Le utopie prospettano un’umanità immobile, in balia di un potere onnipotente, pedagogico, dispensatore unico della verità, priva di qualunque guizzo di creatività, nemica di tutto ciò che scaturisce dalla natura. L’utopia è programmaticamente antiumana, per cui la distopia altro non è che l’utopia realizzata.
Tutto ciò è evidente a partire dall’opera che ha dato il nome al concetto. L’ Utopia di Tommaso Moro “Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus, de optimo reipublicae statu, deque nova insula Vtopi”, libriccino davvero aureo, non meno benefico che divertente, sul migliore stato di una repubblica e della nuova isola di Utopia, l’isola che non c’è. A Utopia regnano la pace, la proprietà comune, esiste la giustizia e il sistema è simile alla Repubblica immaginata da Platone. L’autore merita ogni giustificazione: ministro cattolico del sovrano che stava sottomettendo la chiesa inglese agli interessi della corona, uomo di forti principi che dovette salire le scale del patibolo per ordine del re dittatore Enrico VIII.
Strano luogo ideale, l’isola, pensata da uno spirito forte nel pieno delle esplorazioni marittime, all’alba delle conquiste coloniali, contemporanee della riforma protestante e dell’avanzata dell’Impero ottomano. A Utopia vi è libertà religiosa – il tema stava molto a cuore a Moro- era proibita la caccia e la discriminazione. Forse convinto dell’irrealizzabilità di quel sogno, Moro chiama Itlodeo il protagonista (“colui che racconta bugie”) e ammette sin dal nome che utopia non sta da nessuna parte. Tutti i beni sono in comune, il commercio è inutile e regna la pace. La città è pianificata affinché tutti gli edifici siano costruiti in eguale modo. Il numero dei figli è stabilito per mantenere costante la popolazione. Gli utopiani non possiedono denaro ma si servono dei magazzini generali secondo necessità. Il numero dei figli, accuditi in ambienti comuni, è stabilito in modo tale che rimanga costante lo stesso numero di persone.
Programma impegnativo, ma in una società di questo tipo difficilmente si possono sviluppare le arti, il pensiero e la scienza. Utopia assomiglia a un allevamento, un’impresa zootecnica in cui la cura per il benessere degli animali è legata al loro sfruttamento più razionale. Moro era un idealista nemico della tirannia e seppe morire con fede e coraggio. Accompagnato al patibolo, con umorismo britannico chiese all’ufficiale che lo scortava di essere aiutato a salire gli scalini. “Per scendere, mi arrangerò per mio conto”. Mantenendo la fede, affermò di morire da “buon servitore del re, ma prima di tutto di Dio”.
Altro idealista fu Tommaso Campanella, autore della Città del Sole all’inizio del secolo XVII. Il pensatore calabrese pagò carissima la sua opera di dissidente: oltre venticinque anni di carcere. Ma un carcere è anche la sua Città del Sole, dove il sole non è l’astro del cielo, ma il magistrato supremo, rappresentante del potere. La società “felice” è una città fortificata inespugnabile che non conosce conflitti, corruzione, inimicizia, invidia, tradimento, fame. La forma del libro è il dialogo tra due uomini di mondo, l’Ospitalario, un Cavaliere di Malta che ha visitato la città, situata da Campanella nell’isola di Ceylon e il Genovese, un mercante.
Anche nella Città del Sole è innalzata la sapienza e vige la fede religiosa, sia pure in bizzarra unione con l’astrologia, ma non esiste la proprietà privata, la riproduzione non è legata al matrimonio né a un sistema familiare. Sapienza e filosofia, per Campanella, sono l’antidoto contro la crudeltà e la tirannia, ma l’obiezione è la stessa: quale libertà sussiste, in un regime di uguaglianza ovina, in cui sono aboliti i conflitti e vietati i legami naturali, considerati, come la proprietà privata, fonte di ogni conflitto e dolore?
Nella Città del Sole, la riproduzione non è legata al matrimonio, né a un sistema di parentela, ma è gestita e organizzata da funzionari politici, il cui compito è stabilire le coppie e programmare gli accoppiamenti. I criteri di selezione sono le caratteristiche fisiche e morali. Perlopiù, accoppiano individui con caratteristiche opposte, con lo scopo di “far temperie”, cioè ottenere un giusto mezzo fra i due. I figli sono educati in comune e subito sottratti alle madri. Dei padri, nessuna traccia. Indipendentemente dalle parentele di sangue, irrilevanti, gli abitanti sono tra loro fratelli, genitori o figli in funzione dell’età: “tutti li giovani s’appellan frati, e quei che son quindici anni più di loro, padri, e quelli meno, figli”. Tutti sono ugualmente legati da rapporti di amicizia, quanto di più alieno dalla realtà: l’amicizia è un legame speciale, che instauriamo solo con alcuni, scelti per affinità o per altri, misteriosi fili della nostra complessa umanità.
Un mondo distopico, opprimente, altrettanto animale di quello dell’Utopia. Poche differenze con le distopie inaugurate nel secolo XX. La prima, forse la più profonda, è quella di Noi, il romanzo dell’ingegnere russo Evgenij Zamjatin, pubblicato nel 1924. Il libro fu il primo vietato in Unione Sovietica, dove fu diffuso solo nel 1988. Nell’opera di Zamjatin protagonista è il conformismo plumbeo della società, anticamera del totalitarismo. Nella società “negativa” di Noi, il nemico è il libero arbitrio, considerato la causa dell’infelicità. La pretesa è il controllo per via matematica, un anticipo del potere degli algoritmi e della sorveglianza contemporanea. La spersonalizzazione è totale: la storia è raccontata in prima persona da un certo D-503 (i nomi sono sostituiti da codici, dice niente all’uomo contemporaneo?) le case e ogni altro oggetto sono costruiti in materiali trasparenti. Tutti sono visibili in qualsiasi momento, il Panopticon di Jeremy Bentham esteso all’intera vita.
La distopia più famosa, quella di 1984 di Orwell, prefigura un universo di controllo totale, di indottrinamento e di abolizione e contraffazione della storia. Esistono perfino funzionari addetti a cambiare il passato affinché non confligga con le idee del partito al potere. Il principio base è il rovesciamento della verità, tanto che sull’edificio del Socing, il partito unico, sono scolpiti tre slogan: la guerra è pace, l’ignoranza è forza, la libertà è schiavitù. Le parole sono obbligate e seguono lo schema del bis –pensiero, ovvero la menzogna eretta a sistema nella neo-lingua. Curiose somiglianze con il politicamente corretto e con i nuovi divieti post moderni. Nella Fattoria degli animali, Orwell affronta il tema dell’uguaglianza ossessiva, ma tra gli animali- tutti uguali- qualcuno è “più uguale degli altri”, significativamente il maiale.
Nel 1932 era uscita la distopia di Brave New World (eccellente mondo nuovo), tradotto in italiano come Il mondo nuovo. Ne fu autore un esponente dell’oligarchia inglese, Aldous Huxley, che intendeva probabilmente abituare il mondo ai cambiamenti sociali e antropologici voluti dalla sua classe. Huxley introdusse il tema delle tecnologie di riproduzione, l’eugenetica e il controllo mentale delle popolazioni. Il titolo si rifà a un verso di Shakespeare nella Tempesta, l’ultima, enigmatica opera del bardo, ambientata a sua volta in un’isola utopica. Si svolge in un anno chiamato Ford 632 in una società comandata da Governatori Mondiali dopo un enorme conflitto di cui si ignora il perché. La conoscenza del passato è vietata. Si dice ufficialmente che l’intero passato era caratterizzato da una terribile barbarie. L’unico Dio è Ford, l’industriale automobilistico, e il segno T, il marchio della sua auto per tutti, ha sostituito la croce cristiana.
Vi è l’influenza di Freud nel fatto che i bambini sono spinti a soddisfare le pulsioni sin dalla più tenera età, per evitare lo sviluppo di emozioni forti e l’attaccamento ai compagni. La produzione di serie- fordismo- si applica anche alla riproduzione umana, attraverso lo sviluppo di embrioni in fabbriche apposite secondo quote prestabilite dai governatori mondiali. Ognuno, si dice, appartiene a tutti gli altri e si sviluppano pratiche di contraccezione per impedire nascite “naturali”. Neanche il cognome indica l’appartenenza: si può scegliere liberamente come il nome che chiamiamo “di battesimo”. La sessualità è incoraggiata in ogni forma e il condizionamento è pratica normale, tanto che gli individui usano il termine condizionato al posto di educato. Ognuno viene indottrinato ad amare la collocazione sociale a cui è destinato in base alla casta cui appartiene. Le parole madre e padre sono insulti. Il rimedio all’infelicità è un medicinale chiamato soma, una droga euforizzante e antidepressiva, che garantisce un ulteriore controllo della popolazione.
Forse qualcuno comincia a pensare che utopie e distopie stanno diventando realtà sotto i suoi occhi: de te fabula narratur, il racconto parla di noi. Non fu utopia né distopia Razza e storia di Claude Lévi-Strauss, in cui, nel 1952, l’antropologo francese propugnava una sorta di mondialismo: una sola lingua, una sola specie e sembrava voler bandire ogni distinzione. Trent’anni dopo, nello Sguardo da lontano, si ricredette e tornò alla realtà. La diversità fra le società umane risulta dal desiderio di distinguersi dalle civiltà che le circondano, ossia dal desiderio di essere se stesse, affermò senza mezzi termini.
Tra utopia e distopia, hanno un ruolo essenziale il cinema e la televisione. Il termine Matrix per indicare un potere sovraordinato e tecnologico proviene dal film dei fratelli Wachowski. Il controllo sociale fu il tema di Minority Report di Steven Spielberg, in cui una razza di uomini – i Precog- sono programmati per conoscere in anticipo pensieri e azioni degli altri esseri umani, sino ad arrestarli prima che commettano crimini. Va da sé che crimine è ciò che il potere considera tale.
Una serie televisiva, scritta dallo sceneggiatore britannico Denis Kelly, si intitola proprio Utopia. Si tratta di gialli “cospirativi” prodotti alcuni anni fa, ispirati alle teorie sulla sovrappopolazione del pastore ed economista ottocentesco Thomas Malthus. Nell’ Utopia televisiva, recentemente riproposta da varie emittenti mondiali, si cerca di tagliare la popolazione mondiale attraverso un virus. Malthus proponeva di trovare rimedio alla povertà attraverso pratiche tese a diminuire drasticamente la popolazione. Fame, aborti, guerre e pandemie si giustificherebbero dunque con un obiettivo “umanitario”.
Nello sceneggiato di culto si rivela forse ciò che ci aspetta? Un virus utilizzato per creare un vaccino finisce per provocare la sterilità a chi se lo lascia inoculare. Nella realtà, i nuovi vaccini sono terapie geniche di cui ignoriamo gli effetti. Ci viene iniettato nel corpo acido ribonucleico, ovvero cambia- o potrebbe cambiare – il nostro patrimonio genetico. Che i “superiori”, il Dominio che ci controlla e sovrasta, ne sappiano più di quanto dicono sugli effetti a lungo termine? L utopia della cura miracolosa si intreccia con la distopia di effetti sconosciuti e – forse sì, forse no- devastanti.
Ma non se ne può parlare: terrapiattisti, paranoici, pazzi. Negazionisti, altro insulto buono per tutti gli usi. De te fabula narratur. La narrazione parla di me, di te, di tutti e non lo sappiamo, storditi dal soma. L’ignoranza è forza, la libertà è schiavitù: è la versione ufficiale, creduta dal gregge per coazione a ripetere.