VERITA’ CRISTIANA E PERENNIALISMO di Luigi Copertino – quinta ed ultima parte

VERITA’ CRISTIANA E PERENNIALISMO

quinta ed ultima parte

AGOSTINO D’IPPONA

Conformemente alla tradizione patristica, che troverà continuazione fino al medioevo ed anche successivamente, Agostino espone una dottrina del tutto fondata nella Rivelazione primordiale . Il mondo ha avuto un inizio ontologico ed il tempo stesso è una “creatura”. L’Archetipo della creazione è “sin dagli inizi” ossia “ante tempora” ovvero ἀχρόνως, ab aeterno. Il Disegno di Dio, che fa perno metafisico sul Verbo e la Sua Incarnazione, è disegno di creazione e di salvezza, ossia di finale glorificazione del mondo mediante la trasfigurazione anche di ciò che è creato in forma materiale.

Quando san Paolo parlava della “predestinazione”, infatti, si riferiva al Disegno creativo e salvifico che Dio ha in serbo per la sua creazione. In questo Paolo è stato del tutto frainteso da Lutero che ne ha storpiato la dottrina nel senso del “servo arbitrio” per il quale la salvezza non dipende dalla accettazione da parte dell’uomo della trasformazione interiore per grazia divina. Non dimentichiamoci tuttavia che quando Paolo di Tarso parlò ai filosofi ellenisti dell’Areopago questi lo ascoltarono attentamente fino a quando l’apostolo introdusse la fede nella resurrezione dei corpi, che per la concezione platonica era una cosa impensabile dal momento che la materia, e quindi il corpo biologico, ha una valenza negativa. E se è vero che Dionigi pseudo-areopagita, pur essendo un autore secondo alcuni del V secolo e secondo altri del II secolo, è stato, tradizionalmente, messo in relazione con il Dionigi che seguì Paolo dopo l’incontro con i filosofi greci, ciò è dovuto al fatto che il pensatore cristiano che passa sotto tale nome fu tra i primi a sintetizzare la fede cristiana e l’eredità platonica ancorata nella Philosophia perennis ma non priva, anche quest’ultima, di “inquinamenti”, causa l’“eritis sicut Dei” di Gen. 3,5, rispetto alla stessa sua Fonte originaria ed “immacolata”.

Agostino ha anticipato di secoli quel che, più tardi, la scienza ha finito per scoprire ossia che, appunto, il tempo stesso ha un inizio ontologico (non temporale). Questo smentisce la convinzione tipicamente non biblica dell’eterno ritorno ossia dell’eternità non creata del mondo. La trans-storicità uni-ciclica nell’“Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap. 21,6) della storia, che è dimensione solo umana, e non anche animale, dunque non temporale pur svolgendosi nel tempo, e che ha un inizio ed una fine sul piano immanente, non ha nulla a che fare con la concezione ciclica del tempo ma con il Disegno Eterno di Salvezza. La creazione non ha avuto inizio all’interno di un flusso temporale perché lo spazio-tempo (che oggi sappiamo essere un tutt’uno) non esisteva prima del cosmo, il quale è da circa 13 miliardi di anni. Cosa c’era prima, dal punto di vista immanente, non è possibile dirlo. Infatti, Agostino, nello stesso passo delle “Confessioni” nel quale tratta del tempo come creatura, e quindi come dono ontologico di Dio, prende in giro chi si pone la domanda “cosa faceva Dio prima di creare il mondo” e risponde ironicamente che Dio, prima di creare il mondo, stava preparando l’inferno per chi si pone tali domande.

Il mondo, in termini immanenti, inizia da 0 + x dove x può essere piccolo quanto si vuole – secondo la teoria del Big bang è un puntino più piccolo di un milionesimo di milioni nel quale era però contenuto già tutto lo spazio-tempo, la materia nonché le leggi che presiedono al dinamismo del cosmo – ma è tuttavia una grandezza quantitativa. Ecco perché non può parlarsi di inizio temporale del mondo, dato che il tempo era esso stesso contenuto nel puntino x, ma soltanto di inizio ontologico, di donazione, per partecipazione, dell’essere, il quale quindi non è una caduta, un male, bensì un dono d’Amore. Cosa c’è oltre l’x, ossia cosa è lo 0, non è possibile dirlo nei termini immanentisti della scienza. Esattamente come aveva compreso Agostino. Il quale però, per sottolineare, la bontà ontologica di x, ossia della creazione, svelata dalla Rivelazione biblica, si allontana dal  platonismo (frequentato durante la sua fase manichea) e del pensiero platonico mantiene solo quanto è “praeparatio evangelica” ovvero “propaideia Christou”.

Proprio parlando del corpo come elemento della creazione materiale (quindi anche di quest’ultima in senso lato), Agostino – in sintonia con i Padri della Chiesa, benché ciascuno di essi ha le peculiarità proprie di pensiero, linguaggio ed espressione –  afferma chiaramente che la creazione è un atto di amore di Dio, postulando, pertanto, un inizio, non temporale, ma ontologico del mondo. Questo vale anche per il livello “angelico” della creazione, quello dei puri spiriti. Quindi la creazione non è una caduta nell’essere, una emanazione dalla stessa sostanza divina, un allontanamento o una degradazione negativa che “condensa” o “ossifica” un prius puramente spirituale, anonimo, impersonale e senza distinzioni sicché le creature, che dal processo di degradazione o emanazione, sorgerebbero porterebbero in sé lo stigma del “male ontologico”, ovvero del “peccato”. Questo modo di vedere le cose – che è, ad esempio, tipico di un certo cabalismo platonizzante o anche del vedantismo – non appartiene alla Rivelazione abramitica che è una eccezione nel panorama spirituale dell’umanità.

Agostino, sia ne “La Città di Dio” che nel “De Trinitate” ed in altre opere, accoglie la dottrina della “creazione simultanea”, sostenuta dalla Patristica. Però sia i Padri che Agostino non danno di essa una interpretazione in contrasto con il dinamismo del racconto del Genesi, ossia una interpretazione per cui ad un modello perfetto ed ideale, “celeste”, del mondo consegue, per caduta ontologica nella oscurità della materia, un mondo segnato, intrinsecamente, dal male identificato nell’insufficienza ontologica del riflesso mondano dell’archetipo iperuranico. Anche il riflesso mondano ha una sua propria, relativa, perfezione ed è quindi buono. Più tardi, san Francesco d’Assisi avrebbe espresso questa verità cristiana nel suo “Cantico delle creature” lodando il Signore per il dono del mondo perché «di Te, Altissimo, porta significatione».

Secondo Agostino si deve distinguere tra creazione propriamente detta, atto immediato e indivisibile, il cui primo prodotto è la materia informe, e la formazione graduale e visibile del mondo, dovuta alle forze depositate dal Creatore nel seno della natura, secondo una progressione di sviluppo di cui il Genesi cerca di comunicare il significato metafisico ed essenziale.

MISCELLANEA AGOSTINIANA

Dato che si è chiamato in causa il santo di Ippona, è il caso di andare a verificare direttamente dalle fonti cosa egli dice. Gli argomenti che ci impegnano sono trattati, con maestria metafisica, nei Libri XI, XII e XIII de “La Città di Dio” che sono da leggere con attenzione, naturalmente al netto di alcune convinzioni del suo tempo ed oggi del tutto superate, come i “seimila anni” della creazione (ai quali neanche lui tuttavia da molto credito).

Ad uso dei lettori, onde risparmiare loro fatica e tempo, qui di seguito riportiamo alcuni passi dei Libri XI, XII e XIII de La Città di Dio, nei quali l’Ipponate affronta il problema ontologico come rivelato a confutazione della posizione gnostica, avvertendo che quanto messo tra parentesi quadre è nostra interpolazione e non citazione di Agostino.

Scrive dunque Agostino:

«XI, 23 (Un errore di Origene) Sorprende  … che anche quelli che come noi credono all’esistenza di un unico principio di tutte le cose e alla dipendenza di tutta la natura, che non s’identifica con Dio, da quell’unico Creatore, non abbiano voluto credere tuttavia con semplicità e rettitudine che questa causa della edificazione del mondo è così buona e semplice; non credono quindi che l’autore dei beni è il Dio buono, e che tuttavia questi beni, che solo un Dio buono ha potuto creare, sono dopo di Lui senza identificarsi con Lui. Dicono invece che le anime, creature di Dio e non sue parti [qui Agostino precisa che Origene, grande Padre della Chiesa, pur essendo incorso nell’errore di cui sta per dire, ossia la pre-esistenza delle anime, perlomeno respinge la tesi gnostica delle anime quali scintille, ossia parti, dell’unica sostanza divina cadute nel mondo materiale], abbiano peccato allontanandosi dal Creatore; così allontanandosi dai cieli verso la terra a seconda dei loro peccati, abbiano meritato dei corpi diversi come se fossero catene: questo sarebbe il mondo, e la ragione della creazione non sarebbe quella di produrre dei beni, bensì di reprimere dei mali. E’ una giusta accusa che si rivolge a Origene; egli infatti concepì e scrisse queste idee nei libri che chiama “Perì archòn”, cioè “Dei principi”. Non posso dire tutta la mia sorpresa riguardo al fatto che un uomo così dotto ed esperto nella Sacra Scrittura non si sia accorto, prima di tutto, quanto il suo pensiero sia contrario allo spirito così autorevole della Sacra Scrittura, la quale per tutte le opere di Dio aggiunge: “E Dio vide che era cosa buona”, concludendo al termine di tutto: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”- Con ciò Egli volle farci capire che non c’è altra ragione per la creazione del mondo che quella per cui dei beni sono creati dal Dio buono. E se nessuno avesse peccato, il mondo sarebbe adorno e colmo soltanto di nature buone; (…). In secondo luogo Origene, e quelli che la pensano come lui, avrebbero dovuto notare che, se la loro opinione fosse vera, il mondo sarebbe stato creato in modo che le anime, a seconda del grado dei loro peccati, ricevano dei corpi superiori e più leggeri se hanno peccato di meno, inferiori e più pesanti se hanno peccato di più, nei quali esser rinchiuse per punizione come in un carcere, mentre a ricevere i corpi terrestri più bassi e pesanti, invece degli uomini, compresi quelli buoni, sarebbero dovuti essere i demoni, di cui non c’è nulla di peggiore. (…). Nulla di più stolto, perciò, dell’affermazione secondo cui l’artefice divino non ha fatto il sole per provvedere alla bellezza e al bene delle cose corporali, perché ci fosse un unico sole in un unico mondo, ma piuttosto perché una sola anima aveva tanto peccato da meritare d’esser imprigionata in quel corpo».

«XII, 2 (Dio essenza suprema) … Dio disse … quando inviava Mosé ai figli d’Israele: Io sono Colui che sono!. Essendo quindi Dio essenza suprema, cioè essendo in modo supremo e perciò immutabile, ha dato l’essere alle cose create dal nulla, ma non l’essere supremo, come Egli è; e ne ha dato ad alcune in misura maggiore, ad altre in misura minore»

«XII, 5 (Lodare Dio per le creature) Tutte le creature, dunque, in quanto sono e perciò hanno una propria misura, una propria forma ed una qualche pace, certamente sono buone; e quando sono dove devono essere secondo un ordine naturale, conservano il proprio essere in quanto lo hanno ricevuto. (…). In questa prospettiva, Dio, che è in modo sommo e che ha creato ogni essenza, che non è in modo sommo (poiché ciò ch’è stato creato dal nulla non deve essere eguale a Lui, né può assolutamente essere, se Lui non l’avesse creato), non deve essere biasimato per nessuna … [delle] corruzioni che possono colpirci; piuttosto deve essere lodato per tutte le nature che possono meravigliarci»

A commento di Agostino, qui si potrebbe richiamare anche il “Cantico delle Creature” di san Francesco d’Assisi che era un cantico anti-cataro, anti-gnostico, proprio perché lodava Dio per la bontà della Sua creazione, laddove  i catari, come tutti gli gnostici, vedevano nella creazione materiale il male in sé, da qui la loro ossessione per l’endura ossia la morte per inedia ed il suicidio come mezzi di liberazione della scintilla spirituale decaduta nell’oscurità del corpo biologico.

«XII, 14 (La concezione ciclica del tempo) I filosofi di questo mondo … pensarono che il problema [della creazione dell’uomo] potesse o dovesse risolversi introducendo una concezione ciclica del tempo, nella quale la natura si rinnovasse e ripetesse continuamente nelle cose, e così lo svolgersi dei secoli, che vanno e che vengono, si prolungasse senza fine, sia che questi cicli si manifestassero nel mondo che permane, sia che il mondo, nel suo nascere e nel suo morire a intervalli ben definiti, mostrasse sempre la medesima realtà, passata e futura, come se fosse nuova. (…). E’ il caso del filosofo Platone che … insegnò ai suoi discepoli che, come negli infiniti secoli del passato secondo intervalli molto ampi, ma tuttavia definiti, erano ricomparsi lo stesso Platone, la stessa città, la stessa scuola, gli stessi discepoli, così dovevano ricomparire anche negli infiniti secoli futuri! (…). Cristo … è morto una sola volta per i nostri peccati e resuscitato dai morti non muore più …»

A riguardo della questione della ciclicità del tempo ripetiamo quanto già accennato più sopra e che qui non è possibile sviluppare, richiedendo la cosa una capitolo a sé: la storia è dimensione solo umana, e non anche animale. Gli animali vivono nel tempo naturale, che è effettivamente ciclico, ma non hanno storia, non hanno memoria e non tramandano né parola né sapienza. La storia ha un inizio ed una fine sul piano immanente, ma trova una sorta di “curvatura trans-storica” nell’“Io sono l’Alfa e l’Omega” (Ap. 21,6), che in Cristo annuncia la coincidenza, nell’eternità, del Principio e della Fine (che è anche il Fine). Questa “curvatura”, che è una sola e non ha ripetizione continua, tuttavia, non ha nulla a che fare con la concezione ciclica del tempo, ossia con l’eterno ritorno, il perpetuarsi ciclico del movimento cosmico – giustamente Agostino protesta che Cristo si è incarnato, è morto e risorto, una sola volta. Sicché non c’è una pluralità di cicli ma casomai un solo Disegno di Salvezza Universale che si concluderà con la trasfigurazione gloriosa della creazione materiale creata “in statu viae”.

«XII, 25 (Solo Dio è creatore) [non emanatore] Diversa è invece la posizione di quanti credono, sulla scorta del pensiero di Platone, che il mondo sia stato costruito non dal sommo Dio, ma da altre divinità inferiori create da Lui, e che tutti gli esseri mortali, fra i quali l’uomo …, siano stati creati con l’autorizzazione o il comando di Dio (…). Noi non consideriamo creatori … neppure gli angeli … anche se essi, o per comando o per autorizzazione divina, offrono la loro opera a tutto ciò che nasce in questo mondo …»

«XII, 27 (La  “delega” divina alla creazione dei corpi nel platonismo) Non c’è dubbio che, secondo Platone, le divinità minori, create dal sommo Dio, hanno prodotto tutti gli altri esseri animati, in modo che essi ricevettero da Dio la loro parte immortale e quelle divinità vi aggiungessero la parte mortale. Pertanto egli non ha voluto considerare questi déi creatori delle nostre anime, ma dei nostri corpi. Ebbene, dal momento che, a detta di Porfirio, per la purificazione dell’anima si deve fuggire ogni corpo e nello stesso tempo, secondo l’opinione che egli condivide con Platone e gli altri platonici, coloro che hanno condotto una vita smodata e indegna ritornano nei corpi mortali per espiare le loro colpe (secondo Platone possono essere anche corpi delle bestie, secondo Porfirio soltanto quelli degli uomini) [la metempsicosi, comunque sia intesa, residui psichici o realtà spirituale, è dottrina strettamente connessa con la concezione ciclica e con la concezione negativa del mondo materiale quale prigione dell’anima], anch’essi finiscono col riconoscere che quegli déi, che pretendono che noi veneriamo come nostri progenitori e creatori, non sono altro che gli artefici dei nostri ceppi e delle nostre carceri; non i nostri autori, ma coloro che ci imprigionano in disgraziati luoghi di pena, immobilizzandoci con le catene più pesanti. A questo punto, perciò, o i platonici devono smettere di minacciare le anime con queste pene corporali, oppure non devono sostenere il culto di quelle divinità, se è vero che ci esortano a fuggire e a liberarci quanto più possiamo proprio dai risultati della loro attività nei nostri confronti. Ma entrambe le ipotesi costituiscono il massimo della falsità: infatti le anime non scontano delle pene ritornando in questa vita, né esiste alcun creatore di tutti i viventi, sia in cielo che sulla terra, all’infuori di Colui che ha creato il cielo e la terra. Se l’unico motivo per cui noi viviamo in questo corpo è quello di subire la punizione, come mai lo stesso Platone afferma che il mondo non sarebbe potuto diventare così bello e perfetto, se non fosse stato ripieno di ogni genere di esseri animati, mortali e immortali? Se poi la nostra creazione … è un dono divino, come può essere una pena il ritorno in quei corpi che sono beni di Dio? E se Dio, come Platone ricorda di frequente, possedeva nella sua intelligenza eterna la forma del mondo intero e di tutti gli esseri animati, perché non poteva essere Lui l’autore di tutte le cose? Forse non avrebbe voluto esser l’artefice di quelle cose che la sua mente ineffabile e degna di lode in modo ineffabile poteva effettivamente produrre?»

Agostino, che non era affatto un letteralista, nel passo seguente ammette come ortodossa l’esegesi simbolica e spirituale della Scrittura, ad esempio quella di un Origene, ma a condizione che essa sposi, senza opporvisi, la realtà anche storica, nel senso essenziale e non “storiografico” al modo della storiografia moderna, della Rivelazione. E’ invece tipico di un approccio gnostico la disincarnazione (l’orrore gnostico della carne) esclusivamente simbolica e spiritualista della storicità essenziale – ripetiamo! Storicità e non storiograficità in senso moderno! – della Rivelazione, riducendola ad un racconto mitologico, a-storico, o a un simbolismo per auto-costruzioni iniziatiche dell’immortalità senza grazia, che è esattamente l’antica tentazione prometeica e luciferina dell’ergersi a Dio da sé stessi, di auto-deificarsi ossia di conquistare il Cielo tirandosi per i capelli, quindi negando la kénosi, l’Incarnazione salvifica, del Verbo di Dio e la stessa Croce.

«XIII, 21 (Il paradiso terrestre: realtà e simbolo) Taluni interpretano in senso spirituale tutta la vicenda del paradiso terrestre, in cui si narra, secondo la verità della Sacra Scrittura, che vissero i primi uomini, progenitori del genere umano, intendendo anche negli alberi con i loro frutti le virtù e i costumi della vita, quasi che non ci fossero realtà visibili e materiali, ma tutto fosse stato detto e scritto per significare realtà spirituali. Quasi che la possibilità di una interpretazione spirituale pregiudichi l’esistenza di un paradiso materiale (…). Nessuno … impedisce di vedere nel paradiso la vita dei beati; nei suoi quattro fiumi le quattro virtù: prudenza, fortezza, temperanza e giustizia; nei suoi alberi tutte le scienze utili; nei frutti degli alberi i buoni costumi; nell’albero della vita la stessa sapienza che è madre di tutti i beni; nell’albero della scienza del bene e del male l’esperienza di un comandamento violato. (…). Tutto ciò si può anche intendere in relazione alla Chiesa, se lo accogliamo meglio come segno profetico di avvenimenti futuri. Evidentemente possiamo vedere nel paradiso la stessa Chiesa, come si legge nel Cantico dei Cantici; nei quattro fiumi del paradiso i quattro evangeli; negli alberi ricchi di frutti i santi; nei loro frutti le opere dei santi; nell’albero della vita Cristo, Santo dei santi; nell’albero della scienza del bene e del male la libertà che è propria della volontà. (…). Nessuno impedisce di avanzare queste ed altre interpretazioni, più plausibili in senso spirituale, del paradiso, purché però si creda alla verità di quella storia che si fonda sulla narrazione, assolutamente degna di fede, degli avvenimenti»

Nel passo seguente, invece, Agostino tratta del tema paolino del “corpo animale” e del “corpo spirituale”, da sempre frainteso e strumentalizzato da chi accede all’esegesi gnostica che nega l’identità del corpo umano prima e dopo il peccato originale e prima e dopo la resurrezione futura della carne. La risurrezione della carne è stata combattuta dagli gnostici non solo nei primi secoli della Chiesa ma lungo tutta la storia. Oggi, ad esempio, si contrappone ad essa uno spiritualismo orientaleggiante o di marca New Age. Si tratta di un goffo tentativo, comprensibile ma irriducibile alla Rivelazione, di sfuggire alla ridu­zione scientista della realtà. Lo scientismo non si combatte con il suo contrario dialettico ossia lo spiritualismo disincarnato, perché questo tipo di approccio è soltanto un cadere dalla padella alla brace cui consegue la vanificazione dell’Incarnazione stessa del Verbo di Dio.

«XIII, 22 (I corpi “spirituali” dopo la resurrezione) I corpi dei giusti, che conosceranno la resurrezione, non avranno bisogno di nessun albero per non morire di malattia o di avanzata vecchiaia, né di alcun altro alimento materiale con cui sconfiggere ogni tormento della fame e della sete; essi saranno rivestiti del dono certo e assolutamente inviolabile della immortalità, cosicché avranno la possibilità, non certo la necessità, di alimentarsi unicamente se lo vogliono. Così fecero gli angeli, apparendo in modo visibile e tangibile, non per necessità, ma conformemente al loro volere ed alla loro possibilità, per poter uniformarsi agli uomini, umanizzando, in un certo senso, il proprio ministero. Non si deve credere, quindi, che gli angeli avessero mangiato solo in modo apparente allorché essi furono accolti dagli uomini (Gen. 18,18; Tb. 11), benché sembrasse a chi ignorava la loro identità che essi si alimentassero per una forma di bisogno simile alla nostra. Perciò l’angelo del libro di Tobia dice: “A voi sembrava di vedermi mangiare, ma io non mangiavo nulla”; credevate, in altri termini, che io prendessi cibo per la necessità di ristorare il corpo, come fate voi. Ma se eventualmente intorno agli angeli si può sostenere qualche tesi più credibile, certamente per la fede cristiana non c’è dubbio che lo stesso Salvatore, anche dopo la resurrezione, ormai in una carne spirituale, ma pur sempre vera, mangiò e bevve assieme ai suoi discepoli. A questi corpi quindi sarà tolta non la possibilità, ma la necessità di mangiare e di bere; essi perciò saranno spirituali, non perché cesseranno di essere dei corpi, ma perché vivranno grazie allo Spirito che dà la vita»

Agostino affronta poi, sempre sull’autorità dell’apostolo Paolo, la resurrezione della carne alla luce della dottrina sulla costituzione triconomica dell’uomo. Solo in apparenza sembra che egli utilizzi un linguaggio dualista, anima e corpo, riguardo alla composizione  dell’essere umano che è invece tripartita in spirito, anima e corpo.

«XIII, 23 (Il corpo animale e il corpo spirituale: la morte in Adamo, la vita in Cristo) Come vengono chiamati corpi animali quelli che, senza essere anime, hanno un’anima vivente e non ancora uno spirito vivificante, allo stesso modo quelli resuscitati sono chiamati corpi spirituali; non si creda, tuttavia, che essi diventeranno spirito, bensì saranno corpi che avranno la sostanza della carne, senza che essa, grazie alla presenza vivificante dello Spirito, subisca l’affaticamento e la dissoluzione della carne. Allora l’uomo non sarà più terrestre, bensì celeste, e non perché il corpo, che è stato tratto dalla terra, non sarà più tale, ma perché, per dono di Dio, sarà tale da poter abitare anche nel cielo, senza perdere la sua natura, ma trasfigurandone la qualità. Il primo uomo terrestre, tratto dalla terra, fu creato in un’anima vivente, non in uno spirito vivificante, poiché questo gli veniva riservato come premio per la sua obbedienza. Perciò il suo corpo, che aveva bisogno di cibo e di bevanda per sfuggire alla fame e alla sete, ed era lontano dalla necessità della morte, non per una immortalità assoluta ed indissolubile, ma grazie all’albero della vita [ovvero perché l’uomo adamico viveva in unione spirituale con il Verbo di Dio simboleggiato dall’Albero della Vita], e veniva mantenuto nel fiore della giovinezza, indubbiamente era un corpo animato, ma non spirituale (…). Ed anche … indubbiamente fuori del paradiso non gli sarebbero stati negati i mezzi di sostentamento (…). (…) secondo le parole dell’Apostolo [Agostino qui fa una serie di citazioni, che noi omettiamo, dalla Lettera ai Corinzi di san Paolo, laddove si parla della seminagione del corpo animale e della resurrezione del corpo spirituale e del primo e dell’ultimo Adamo], il primo uomo fu creato in un corpo animale. Egli vuole infatti distinguere il corpo animale, che abbiamo ora, da quello spirituale, che avremo nella resurrezione (…). Per far comprendere poi cos’è un corpo spirituale, aggiunge: “L’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita”, intendendo indubbiamente Cristo, che è resuscitato dai morti per non morire più. (…). Prima, infatti, c’è il corpo animale, quello che ebbe il primo Adamo …, è quello che ora abbiamo anche noi … questo è il corpo che Cristo si è degnato di assumere … per noi, non per necessità, ma per il suo potere. Poi c’è il corpo spirituale, come quello che ci ha preceduto in Cristo stesso (…). Ancora più chiaramente nelle medesima epistola viene fatta questa affermazione: “… come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo”. Ma questo accadrà nel corpo spirituale, che sarà nello spirito che dà la vita. Non tutti coloro che muoiono in Adamo saranno membra di Cristo … perché, come nessuno muore in un corpo animale se non in Adamo, allo stesso modo nessuno è vivificato in un corpo spirituale se non in Cristo. (…). Non si deve credere che prima del peccato l’uomo avesse avuto un corpo spirituale, poi trasformato in un corpo animale come conseguenza del peccato [affermare questo, infatti, significa implicitamente, contro la Rivelazione biblica del “crescete e moltiplicatevi”, affermare che la generazione e quindi la sessualità sono peccato, come appunto sostenevano gli gnostici, e tra essi i violentissimi catari: la Chiesa condanna l’aborto ed i metodi non naturali di impedimento alla procreazione proprio perché riconosce in queste cose la seduzione luciferina contro la vita, contro la creazione, anche biologica, quale dono di Dio]. Per credere a questa ipotesi, si dovrebbero misconoscere le parole di un dottore così grande: “Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente”. Poté forse diventare tale dopo il peccato, quando questa è l’originaria condizione dell’uomo, rispetto alla quale il beatissimo Paolo si è richiamato a questa testimonianza della legge, per sottolineare la natura di quel corpo animale?»

Agostino, come si vede, invoca i passi paolini soprattutto per difendere la natura fisica, materiale, del corpo umano all’atto della creazione, contro quanti – gnostici e platonici – sostenevano che la carne fu data all’uomo come punizione per il peccato d’origine.

«XIII, 24 (Il soffio della vita e il soffio dello Spirito) (…). Nella Sacra Scrittura … [lo] Spirito è sempre designato con il termine greco di “pneuma” … e io non ho mai incontrato in tutti i passi della parola di Dio una denominazione diversa. Dove però si legge: “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò o ispirò nelle sue narici un alito di vita”, non si usa il greco “pneuma”, con cui di solito si indica lo Spirito Santo, ma “pnoè”, un nome adoperato più spesso per la creatura che per il Creatore. (…) dunque noi troviamo un’anima vivente ed uno spirito di vita anche negli animali, come di solito afferma la Scrittura … poiché … non si è adoperato “pneuma”, bensì “pnoé” (…). Tuttavia nella creazione dell’uomo noi dimentichiamo in qual modo normalmente si esprime la Scrittura, quando secondo il suo linguaggio afferma che l’uomo, anche dopo aver ricevuto un’anima razionale [in Agostino l’anima razionale è lo spirito individuale, ossia la coscienza, il Centro dell’io, mediante il quale l’uomo comunica con lo Spirito di Dio] (che si è voluto presentare come creata non allo stesso modo degli altri esseri materiali prodotti dalle acque e dalla terra, ma dal soffio di Dio), è stato tuttavia creato per vivere in un corpo animale, in virtù dell’anima vivente che è in lui, come gli altri animali, dei quali è detto: “La terra produca esseri viventi”; anche di essi si è detto parimenti che hanno in sé lo spirito di vita, e il testo greco non reca “pneuma”, bensì “pnoé”, indicando con quel nome non certo lo Spirito Santo, ma la loro anima».

Dall’esposizione testuale di cui sopra dovrebbe essere chiaro a tutti che per la Rivelazione cristiana la creazione materiale, quindi anche il corpo umano, non è un male ontologico e non è una emanazione/degradazione dello Spirito, una sua caduta peccaminosa nell’oscurità, una “gettità” nella vita da cui, con übris di morte, sarebbe necessario liberarsi auto-costruendosi iniziaticamente l’immortalità sulle ceneri dell’essere. La creazione materiale, quindi anche il nostro corpo, va invece accettata quale dono dall’Amore di Dio che ci ha creati per la vita eterna in spirito, anima e corpo. Come hanno un corpo, ora glorioso, Nostro Signore Gesù Cristo e la sua Santa Madre la Vergine Maria.

PIPPO BUONO

Filippo Neri, fiorentino di nascita ma romano di adozione, che il popolo chiamava “Pippo buono”, è stato uno tra i grandi santi della Riforma Cattolica del XVI secolo. Fondatore dell’Oratorio, presso la chiesa romana della Vallicella, ed iniziatore di una spiritualità gioiosa riflesso di una intensa esperienza mistica, accompagnata dai consueti fenomeni straordinari di questa esperienza (cardiognosi, levitazioni, estasi, etc.). Nella sua compagnia riuniva plebei e nobili, poveri e ricchi, cardinali e papi (che lo ebbero in grande stima), e tutti faceva sì condividessero la “gioia cristiana” che spingeva all’amore del prossimo sentendosi per primi amati da Dio. Amico del cardinal Federico Borromeo, poi manzoniano arcivescovo di Milano, dalla sua cerchia uscì un altro cardinale ossia quel Cesare Baronio iniziatore della moderna storiografia ecclesiastica a confutazione di quella protestante. Gioioso sì ma anche severo con sé stesso nell’osservanza della vita ascetica e, come risulta dalle fonti, particolarmente duro con gli eretici: Filippo Neri non apprezzava “ecumenicamente” Lutero.

Goethe, che cattolico non era, scelse quale suo “santo personale” il nostro Filippo che campeggia, nella figura misteriosa del “pater extaticus”, nel grandioso finale del Faust mentre vive la sua esperienza mistica

«Gaudio di eterno ardore,/giogo d’amor rovente,/fiamma di strazio in cuor …».

Qualche anno fa in tv è stato trasmesso un film sulla sua vita. Filippo nel film è interpretato, magistralmente, da Gigi Proietti che appunto lo raffigura gioioso e ilare nella Roma del cinquecento tra bambini accattoni e ricchi nobili, cardinali inizialmente sospettosi e papi “tridentini” compiacenti o alquanto duri ma poi aperti nei suoi confronti. L’autore di questo contributo, spinto dalla voglia di una verifica della fondatezza storica della predetta ricostruzione televisiva, ha preso in mano la sintesi della maggior biografia storica, esente da qualsiasi facile agiografia, esistente su di lui, in tre volumi scritta da padre Antonio Cistellini, storico (17). Benché trattasi di una sintesi la narrazione è fondata sugli stessi riferimenti documentalistici – frutto di trent’anni di ricerche archivistiche – dell’opera maggiore. Ebbene, alla fine della lettura, è possibile dire che il film, con Gigi Proietti, salvo gli adattamenti necessari per ragioni proprie della cinematografia, è sostanzialmente rispondente alla verità storica.

Nell’economia del tema qui trattato, si riportano, di seguito, le ultima pagine, che consigliamo alla riflessione dei cattolici “guenoniani”, della citata sintesi biografica del Cistellini. Pagine molto belle soprattutto perché mettono in evidenza qual è, nell’esperienza mistica cristiana (per estensione abramitica), il rapporto dell’uomo con il mondo, il quale è certo anche “vanità delle vanità” ma contemporaneamente è riflesso del Sommo Bene e pertanto buono, ontologicamente partecipe di Dio, e quindi non è la prigione dello spirito  “caduto nella oscurità della materia” come nelle cosmogonie gnostiche antiche e contemporanee. Per certi versi, leggendo queste righe, si può tracciare, a proposito della creazione e dell’uomo in essa, un legame tra Francesco d’Assisi e Filippo Neri. Nelle parole di un santo della “controriforma” è, inoltre, possibile trovare un esempio di approccio cristiano alla natura che qualcuno, tra i tradizionalisti così fedeli al Concilio di Trento, incapace di distinguere questo approccio dall’ecologismo panteistico e neopagano, oggi in voga, rigetta alleandosi con il prometeismo faustiano del dominio tecnologico dell’Occidente attuale.

«Si racconta – scrive dunque padre Cistellini – che un giorno una dama di rango, ammiratrice di Padre Filippo, gli si mostrò curiosa di sapere da quanto tempo egli avesse lasciato il mondo. “Non so d’averlo mai lasciato, il mondo” fu la risposta. Era questa una battuta gioiosa, di quelle che gli venivano spontanee soprattutto per sbrigarsi elegantemente dagli importuni. Il senso della frase era però ambivalente. Filippo aveva sì lasciato da molto tempo il mondo, inteso questo come somma di realtà terrestri poste come fine unico dell’esistenza, fallaci e deludenti. “Vanità di vanità: tutto il mondo è vanità”, si cantava con struggente ritornello alla visita delle Sette chiese. Ma per Filippo le vanità temporali erano viste anche e soprattutto come riflessi di bellezze superne, di amore ultraterreno. “Tutte le cose create son liberali – scriveva Filippo in una lettera a una nipote suora – e mostrano la bontà del Creatore: il sole spargendo la luce, il fuoco, il calore; ogni arbore stendendo le braccia, che sono i rami suoi e porgendoci le frutta che produce, e l’acqua e l’aria e tutta la natura esprime la liberalità del Creatore”. E in un sonetto cantava: “Ride la terra e ’l cielo e l’aura e i rami; stan quieti i venti e son tranquille l’onde e ’l sol mai sì lucente non apparse./ Cantan gli augelli: chi dunqu’è che non ami/ e non gioisca?”. Le realtà che attorniano sono così viste e considerate per Filippo in una luce ottimistica, godibili e desiderabili. E’ vero tuttavia che sul suo labbro si possono cogliere talvolta espressioni apparentemente pessimistiche sulla condizione umana. Aperture illuminanti, rare, sulla sua vita intima, solitamente a tutti celata: “Nulla trovo in questo mondo che mi piaccia, e mi piace che nulla mi piaccia”; “Dio non ha bisogno di uomini”; “Il fervore dei giovani è fuoco di paglia”. Ma, a seguir bene il discorso, la conclusione è rasserenante, sempre consolatrice. “Ci soleva dire il nostro santo Padre che in questo mondo non ci è purgatorio, ma ci è o paradiso o inferno, perché chi serve Dio da dovere ogni travaglio o infermità gli torna in consolazione e ha il paradiso interiormente in ogni sorta di disagio, ancora in questo mondo; chi fa il contrario e vuole attendere al senso ha l’inferno in questo mondo e nell’altro”. La visione della vita, del tempo, delle cose caduche di quaggiù, per Filippo, s’intreccia con quella delle realtà ultraterrene, eterne. Il richiamo ai “novissimi” ha parte essenziale nel magistero ascetico filippino: “I veri servi di Dio hanno la vita in pazienza e la morte in desiderio”. A ben guardare, sta qui il succo della concezione filippina della vita: il tempo e le realtà terrestri, felici e avverse, agli occhi di Padre Filippo sono tutte intrise di luci crepuscolari mattutine, annunzio di vera vita oltre la soglia del tempo. Il rifiuto del cappello cardinalizio, tante volte offertogli, è di tutto ciò un motivo ricorrente, ritmato in un allegro ritornello quasi cantato: “Paradiso, Paradiso!”».

 

Luigi Copertino

NOTE

17) Antonio Cistellini “San Filippo Neri – breve storia di una grande vita” (Sanpaolo 2007).

 

Fine