Ciò che non riuscirono ad ottenere i Confederati col sangue ed il valore, riuscirà a Trump e ai nemici di Trump? Potenti pulsioni alla disobbedienza e alla dissoluzione della unità federale sono elencati dall’amico Wayne Madsen in un brillante saggio.
https://www.strategic-culture.org/news/2017/07/10/the-rapid-devolution-of-the-united-states.html
Cominciamo. Ben 44 Stati si sono rifiutati di comunicare a Washington i metodi con cui registrano i votanti. Come abbiamo appreso durante le ultime presidenziali, ci sono Stati dove si vota senza nemmeno bisogno di presentare un qualunque documento d’identità; brogli e frodi sono fin troppo possibili; dunque l’amministrazione Trump ha istituito una commissione Kobach dal nome del repubblicano e segretario di Stato del Kansas, Kris Kobach, che in Kansas ha introdotto regole ferree per il voto, a cominciare dall’obbligo, per quelli che si registrano per la prima volta, di dimostrare di essere cittadini americani.
Ebbene: gli stati, non solo a guida democratica, hanno visto in questo un tentativo di escludere dal voto gli immigrati (magari clandestini), i neri, le minoranze; e una volontà di fare una schedatura nazionale centrale delle identità dei cittadini; quindi si sono rifiutati, adducendo la protezione dei dati personali e privati. Alex Padilla, segretario di Stato della California: “Non trasferirò informazioni delicate a una commissione che ha già giudicato senza motivo che milioni di californiani hanno votato illegalmente”. Delbert Hosemann, segretario di Stato del Mississippi: “La Commissione Kobach si getti nel Golfo nel Messico, e il Misssippi è lo stato ideale per lanciarvisi”. Il punto è che se Padilla è democratico, Hosemann è repubblicano. Davanti ai 44 Stati disobbedienti, Trump ha twittato: “Chissà cosa hanno da nascondere”, e poi niente altro.
Rapporti con Cuba. Trump ha rimesso in vigore le sanzioni al commercio e limitazioni ai viaggi che erano state liberalizzate sotto Obama. Ebbene: il vice-governatore del Minnesota,in aperta sfida, ha condotto a Cuba una delegazione dei due partiti del suo stato, proclamando che per loro valgono le aperture di Obama; il governatore democratico della Louisiana, insieme col commissario all’agricoltura dello stato che è un repubblicano, hanno dichiarato che le sanzioni di Trump non intaccheranno gli scambi di prodotti agricoli, già molto vivace, tra la Louisiana e Cuba.
La questione dei visti. Come noto, Trump ha voluto negare il visto d’entrata persone provenienti da sei stati musulmani, Iran, Siria, Sudan, Yemen, Libia e Somalia; inizialmente anche dall’Irak, decisione che poi si è rimangiato davanti alle proteste. Un provvedimento stupido, arbitrario e ipocrita, con la scusa del “terrorismo” (nell’elenco non sono compresi i wahabiti…), contro cui diversi Stati hanno proprio fatto opposizione nei tribunali. Fra essi, L’Oregon e lo Stato di Washington; le Hawaii hanno adito la Corte costituzionale contro l’Amministrazione sui visti. Di fronte all’ingiunzione del Dipartimento della Homeland Security di identificare gli immigrati senza documenti ed espellerli nel paese d’origine, diversi stati si sono rifiutati. La California, il più grosso, proclama di essere diventato uno “stato d’asilo” (sanctuary) come nelle chiese medievali vigeva il diritto di asilo: chi vi entrava era esente dalla giustizia del braccio secolare.
Trump ha annunciato di voler scatenare una guerra commerciale con la Cina, che accusa di manipolare i prezzi delle sue esportazioni con la moneta svalutata e il dumping? Detto fatto: la California ha aperto un grosso ufficio commerciale a Pechino, Washington ed Oregon hanno uffici commerciali a Shanghai, Hawaii ha uffici commerciali a Pechino ed a Taipei. E tutti hanno detto chiaro che dell’import-export coi cinesi si occupano loro, stato per stato, non il governo federale.
Notoriamente, Trump s’è ritirato dagli accordi di Parigi sul clima, sostenendo (non a torto) che danneggiano il lavoro americano. Ebbene, una ventina di Stati si sono precipitati a proclamare che, loro, mantengono gli impegni dettati dall’accordo di Parigi, checché ordini e comandi Washington. Ovviamente per prima la California, ambientalista e vegana; poi Washington e New York. Poi ancora, il Connecticut… ed è stata una frana. Quelli sono stati a guida democratica, quindi ideologicamente ecologisti; ma si sono aggiunti Massachusetts e Vermont repubblicani, seguiti da Rhode Island, Oregon, Hawaii, Virginia, Minnesota e Delaware. Questi hanno addirittura costituito una “United States Climate Alliance”; ma una quantità di stati si sono impegnati ad obbedire all’ecologismo sovrannazionale senza far parte della Alliance: Maryland, Montana, North Carolina, Ohio, Pennsylvania, New Mexico, Illinois, Iowa e Maine.
“Pacific States of America”
Jay Inslee, governatore del nordico Stato di Washington ha fatto sul clima dichiarazioni congiunte con il primo ministro del Canada, da stato a stato, e poi hanno discusso anche degli immigrati messicani, che Trump vuol lasciare di là dal muro. Inslee è andato in Messico a rassicurare il presidente messicano Pena Nieto.
A guidare la soft devolution in corso non sono gli stati del Sud dell’epoca del secessionismo, ma – nota Madsen – quelli che affacciano sul Pacifico, dalla California al Washington, ed hanno forti rapporti economici con Cina, Giappone, Taiwan (gravitano già verso il complesso super-potenza di domani) , e – come Hawaii – un vivace partito nativista che punta a qualcosa di più che all’autonomia. Essi formano “una sorta di sub-alleanza dei Pacific States of America all’interno della Unione”, che hanno già una politica estera divergente da quella della Casa Bianca.
In fondo, è come la Merkel che apre alla Cina in nome del mercato globale (e dello pseudo-ecologismo) e guida la UE verso la nuova autonomia da Trump, in nome della “vittoria” della oligarchia burocratica europeista contro “i populismi”, dati (dalla loro propaganda) sconfitti.
Se ciò sia un fenomeno di secessione, è più che dubbio: siamo al disotto del livello del Politico. A voler filosofeggiare, si deve parlare piuttosto di “de-costruzione” del Sistema occidentalista, esito ultimo dalla sua riduzione della “democrazia” al “mercato”, della “politica” (nel senso di priorità alla autorità pubblica e all’interesse generale) all’economia, ossia al primato dell’interesse privato. Gli interessi privati non uniscono, ma dividono: ecco il risultato.
Risultato aggravato ed accelerato da Trump e dal suo “autoritarismo da tweet”, di un “commander in chief” che impartisce ordini imperiosi e caotici, che comunque non vengono eseguiti, perché ha l’intero Deep State contro; e che comunque l’America che conta disprezza, e di cui non vuol riconoscere la legittimità, proprio perché rappresentante dei “deplorevoli”, la classi spossessate dal globalismo.
E gli eurocrati…
In fondo uno stesso fenomeno si vede in Europa. L’oligarchia rafforza la NATO, vi aderisce, moltiplica l’ostilità alla Russia, e nello stesso tempo si scolla da un’America, la potenza protettrice della futura guerra, che è in piena destrutturazione, scollamento e lotta intestina dei poteri forti. Merkel e Macron celebrano le loro vittorie come assenso dei cittadini alle loro politiche, quando (in Francia) oltre metà dei cittadini non sono andati a votare. Macron annuncia un programma di austerità atroci, tagli di spese pubbliche di 80 miliardi in 5 anni, per fare della Francia un satellite tedesco perfetto coi “conti in ordine”, nella convinzione ideologica che i francesi gli abbiano dato l’assenso. No, gli hanno dato il silenzio.
Questo silenzio senza assenso può durare a lungo, tanto sono state rese passive le cittadinanze depoliticizzate . Macron “imita la forza dei forti”, ha detto molto bene Jacques Sapir: ma non ce l’ha. Gentiloni e il PD ne hanno ancora meno, e in pieno disfacimento come partito, continuano a riempire i paesi italiani che hanno impoverito, di negri, fidando solo sulla “forza” di Angela Merkel. Anche in America, lo scollamento fra Stati e Casa Bianca può non portare ad alcuna secessione politica bellicamente combattuta, ma avanzare in degrado e devoluzioni di fatto nella ricerca di interessi locali – che privazione della Politica come “chiamata di genti diverse e potenzialmente ostili a fare qualcosa di grande assieme”.
Ma può durare. Fino a quanto? Io credo, fino al prossimo crack economico mondiale, prodotto dalla stessa globalizzazione finanziaria del capitalismo terminale. In un recente convegno, l’ex governatore della Banca d’Inghilterra Paul Tucker ha scandito: “Ci sarà una nuova crisi”come quella del 2007; “non so dirvi quando, ma potrebbe essere un avvenimento drammatico per il nostro stile di vita, per la nostra democrazia e i valori liberali”.