di Luigi Copertino
La recente notizia del gesto imbecille della ministra tedesca degli esteri Annalena Baerbock, atlantista, in quota verdi, che, in occasione della riunione dei suoi colleghi del G-7, ha fatto rimuovere dalla Sala della Pace di Münster, importante città storica della Vestfalia, un antico crocifisso ligneo deve far riflettere (1). Non si tratta soltanto di una mera imitazione della Cancel Culture di importazione statunitense – dagli Stati Uniti abbiamo sempre importato il peggio e anche sul “meglio d’oltreoceano” ci sarebbe molto da discutere – ma è in realtà un rinnegamento dell’identità europea che, nel nostro continente, è in atto da molto tempo prima che in America apparisse o diventasse dominante il politicamente corretto attuale. La sala di Münster si chiama della pace perché, a partire dal 1644, in essa – l’altra sede delle negoziazioni tra Impero e potenze protestanti fu Osnabrück – si svolsero i lavori tra le rappresentanze diplomatiche della Francia e dell’Impero per la stesura del trattato che sarebbe diventato noto come “Pace di Vestfalia”, un evento unico nella storia europea. I lavori delle diplomazie europee che quattro secoli fa, a Münster, posero termine alla sanguinosa e feroce “Guerra dei Trent’anni”, si svolsero sotto quel crocifisso, e non casualmente.
La Pace di Vestfalia e lo jus publicum europaeum
Con la Pace di Vestfalia, stipulata nel 1648, terminavano in Europa le guerre di religione tra cattolici e protestanti. Il contrasto teologico, avviato dalla riforma protestante, non aveva soltanto posto le basi per la divisione confessionale dell’Europa ma aveva creato, nella compagine universale di eredità medioevale, le fessure attraverso le quali si rafforzarono i nascenti Stati nazionali “superiorem non recognoscentes” – e in questo misconoscimento delle superiori Auctoritas medioevali della Chiesa e dell’Impero che nasce il concetto di “sovranità” che più tardi sarebbe diventato repubblicano e democratico – sicché le guerre di religione furono essenzialmente guerre per il dominio politico continentale dopo la fine dell’Universalismo medioevale. A Münster, mentre gli Stati protestanti Svezia, Inghilterra, Paesi bassi e Prussia rafforzavano il proprio dominio, iniziò il declino della Spagna asburgica e dell’Impero Sacro e Romano nonché prese avvio l’apogeo della Francia assolutista e gallicana di Luigi XIV, il “Re sole”, che dominò il secolo XVII trasformando la Chiesa francese in una Chiesa nazionale, strumento del potere statale, accentrando le strutture amministrative attraverso la loro defeudalizzazione e dando avvio alla modernizzazione economica nella forma dirigista, mercantilistico-protezionista, del “colbertismo”. Nasceva, in altri termini, sulla cenere della Cristianità medioevale, l’“Europa cristiana” confessionalmente divisa ma ancora costituente una unica civiltà tale che gli europei, pur ormai non più uniti sotto il profilo religioso, potevano in essa comunque riconoscersi. E vi si sarebbero riconosciuti fino al 1918, con un prolungamento fino al 1945, quando iniziò a prevalere, in sostituzione di quello di “Europa cristiana”, il concetto di “Occidente”. Quest’ultimo, in verità, era nato nel secolo XVII, in una forma originariamente religiosa, nelle colonie anglofone e puritane della costa occidentale dell’America del Nord, che avrebbero dato vita nel 1775-76 agli Stati Uniti d’America, e sarebbe assurto a dottrina politica ufficiale americana con la nota dichiarazione, nel 1823, del presidente statunitense Monroe, il quale contrappose l’“aurea terra promessa della libertà e dell’eguaglianza” d’oltreoceano al Vecchio Continente, terra dell’“oscurantismo, della diseguaglianza e della tirannia”. Poi, nel volgere di due secoli, il limes dell’Occidente nord-americano si è spostato sempre più ad est fagocitando, in due riprese tra il 1945 ed il 1990-2000, l’intera Europa.
La Pace di Vestfalia è però, storicamente, importante perché con essa fu inaugurato, nonostante l’ormai definitiva divisione confessionale del continente, lo “jus publicum europaeum” ovvero il moderno sistema di diritto internazionale inter-statuale. Si trattava di un sistema giuridico di relazioni internazionali, che, allo scopo di garantire pace ed equilibrio tra gli Stati, rinunciava al concetto medioevale, più teologico che politico- giuridico, sempre difficile da mettere in pratica, della “guerra giusta” in favore di quello dello “justus hostis”, ossia del “giusto nemico” nel senso di “nemico legale” secondo un formalismo giuridico alieno da caratterizzazioni o motivazioni etiche ed extragiuridiche. In sostanza gli Stati nazionali europei si riconoscevano, in un quadro giuridico eurocentrico, soggetti giuridicamente pari in ambito internazionale sicché erano considerati legali soltanto i conflitti tra Stati riconosciuti – non più quindi tra entità infra-statuali o tra milizie mercenarie che non fossero eserciti statali – con la contestuale rinuncia all’annientamento totale del nemico. In altri termini, la sussistenza, in un quadro normativo reciprocamente riconosciuto, del nemico legale, che magari un domani poteva anche trasformarsi in un amico alleato, faceva degli Stati gli attori, su un piano di eguaglianza giuridica, di conflitti intesi come duelli nei quali non avevano alcun rilievo le ragioni, “giuste” o “sbagliate”, della contesa ma soltanto che essa si svolgesse nel rispetto delle garanzie e delle procedure formali previste dall’ordinamento internazionale. Questo umanizzava la guerra, limitandone la violenza, sicché i conflitti si chiudevano con tregue e trattative diplomatiche ed in modo da contenere danni e vittime nel modo più ampio possibile. Umanizzazione della guerra significava che il nemico non veniva più rivestito di caratteri disumanizzanti, tali da trasformarlo in un “nemico assoluto” o nel “male” negandogli quindi qualsiasi parità e legittimità etico-giuridica, ma restava soltanto un attore del sistema legittimato come tutti gli altri e con gli stessi diritti e doveri degli altri.
La concezione sacrale della guerra e la “guerra giusta” medioevale
Nella antica concezione sacrale della guerra, anche presso le culture politeiste, inevitabilmente il nemico, per una tendenza etnocentrica che ritroviamo a qualunque latitudine ed in qualunque epoca storica, mostrava caratteri oscuri, barbarici, demoniaci. Agostino d’Ippona introdusse in teologia morale il concetto etico di “guerra giusta” per discernere le condizioni assolutamente necessarie – proclamazione da parte di una legittima Autorità per scopi legittimi – ed i pochi casi – più o meno riconducibili a quella che oggi chiamiamo “legittima difesa” che però per Agostino può essere anche difesa degli altri e non soltanto di sé stessi – nei quali il cristiano, in un mondo nel quale il peccato si insinua nelle relazioni umane, può legittimamente impugnare le armi come, però, male necessario e senza, per questo, negare il carattere comunque peccaminoso dell’atto di uccidere benché in una guerra giusta. Nella concezione cristiana medioevale, infatti, la guerra se può essere talvolta giusta non è mai “santa” ossia non santifica e bisogna comunque espiare: la peregrinatio medievale, ossia la “crociata” quale pellegrinaggio armato e quindi guerra giusta, non santificava affatto, di per sé, se prima non si espiavano le colpe commesse in combattimento. La dottrina morale agostiniana fu alla base della lenta e lunga elaborazione canonistica delle “Pax Dei” e delle “Tregue di Dio” intese a limitare, fino addirittura a poche settimane all’anno, gli spazi temporali nei quali era consentito combattere e ad individuare luoghi e categorie sociali, per diritto divino, preservate dalla guerra, come chiese, monasteri, abbazie, “pauperes” ed “inermi” ovvero donne, bambini ed in genere i disarmati. Alla fine di questa elaborazione teologico-giuridica emerse la figura del “Miles Pacificus” che, conciliando paradossalmente gli opposti della Militia, di retaggio romano, e della Pace, in senso cristiano, diede forma alla Cavalleria come intesa da san Bernardo di Chiaravalle ovvero quale ordine di militi atti alla “guerra giusta” in difesa, biblicamente, dell’“orfano e della vedova”, ossia delle categorie sociali più deboli, dai soprusi dei “cattivi cristiani” come anche degli infedeli. La guerra condotta dai cattivi cristiani e dagli infedeli non era vera militia ma in realtà “malitia” e, quindi, non era giusta, non era legittima. É evidente che, qui, tra combattenti giusti ed ingiusti non è possibile alcuna parificazione etica e giuridica e tuttavia, come osserva Carl Schmitt, lo stesso Agostino mentre elaborava la teologia della “guerra giusta” dava indicazioni e poneva molti “dubia” affinché essa non producesse distinzioni tali da disumanizzare il nemico. Di fronte alle popolazioni germaniche che stavano occupando i territori dell’impero romano – nel suo caso di trattava dei vandali in Nord Africa – Agostino non esitava ad affermare che si trattava certamente di barbari ma che tuttavia erano esseri umani (“Gentes licet barbarae tamen humanae”, De Civitate Dei, I, 14). In altri termini, per l’Ipponate, se la barbarie degli invasori era un carattere, in negativo, di distinzione dai romani come la loro paganità o eterodossia – spesso i barbari erano seguaci dell’eresia di Ario – lo era rispetto ai cristiani, il fatto che fossero uomini li accomunava ai romani ed ai cristiani atteso, inoltre, che la loro umanità si prestava, era ossia la dimensione necessaria, affinché accedessero alla romanità ed alla fede cristiana. Come osserva ancora Carl Schmitt, ne “Il Nomos della terra”, il sistema medioevale dello “jus gentium”, a differenza di quello attuale e cosmopolita del “diritto umanitario”, non era suscettibile di scadere in un universalismo astratto, sia perché a capo di esso vi era una Autorità sovra-ordinata – il Papato/Impero – tale da costituire quella suprema magistratura di ultima istanza in grado di discriminare tra reciproci torti e ragioni dei contendenti, sia perché si trattava comunque di un sistema normativo ancorato a realtà territoriali e comunitarie assolutamente concrete – le medioevali “libertates” – che si traduceva nella regolamentazione giuridica, anche quando attuata con gli strumenti, a quel tempo considerati di natura giuridica, della faida o della vendetta, di conflitti tra questo e quel clan familiare, questo e quel signore feudale, questo e quel comune, questo e quel regno. Non dunque di guerra in nome di astrazioni come l’“umanità” o la “libertà” o l’“eguaglianza”, che invece, nella loro dimensione deterritorializzata, e quindi cosmopolita, sono espressione di un normativismo vuoto e nichilista, al modo del liberalismo kelseniano. Quale conseguenza dell’Incarnazione del Verbo, la Cristianità medioevale è stata una realtà concreta, universalisticamente aperta all’accoglienza di qualunque popolo, ma nient’affatto una Cosmopoli Umanitaria. Anche la Chiesa, che in sé non coincide perfettamente con nessuna cristianità storica, è sempre stata una realtà concreta, e non una cosmopoli, tanto nella sua fase storica precedente la Cristianità medioevale quanto in quella seguente, allorché Essa non poggia più sulle sottostanti realtà politiche secolari. La Chiesa, Corpo mistico di Cristo, non è né l’ONU né il WTO.
Dalla guerra giusta al diritto pubblico europeo
Nonostante tutte le prudenze con cui Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e i teologi cattolici avevano circondato il concetto di “guerra giusta”, onde evitarne un uso non tanto discriminatorio – l’esistenza di “perfidi hostes” della Cristianità, ossia ebrei e mussulmani, era del tutto ammessa nel Medioevo – quanto però disumanizzante, cioè tale da togliere carattere umano al nemico, la volontà di potenza dell’uomo, che tutto strumentalizza per i propri scopi di egemonia politica o economica – Dio come la giustizia sociale o la libertà –, inevitabilmente non poteva non fare un uso disumanizzante del concetto di “guerra giusta” sicché, soprattutto quando iniziò a venir meno l’Autorità di ultima istanza, ciascuno attribuiva alla propria causa la patente della “giustizia” ed a sé stesso quella di “giusto e legittimo combattente”. In tal modo finì per essere introdotta, sotto la bandiera del “bellum iustum”, la disumanizzazione del nemico il quale, in quanto combattente ingiusto, illegittimo, finiva per essere dichiarato “agente del male” e come tale diventava passibile di un processo di “demonizzazione”. In altri termini – contro quanto aveva sostenuto Agostino che ai barbari, come anche agli ebrei, riconosceva in ogni caso natura umana e quindi la loro appartenenza al genere umano – il nemico veniva posto al di fuori dell’umanità.
Questa graduale deviazione in senso disumanizzante, non soltanto meramente discriminante, del concetto di “guerra giusta” si appalesò con tutta la sua dirompente e distruttiva forza nell’epoca delle guerre di religione che per circa trent’anni devastarono l’Europa, insanguinandola e rendendola un campo di macerie e desolazione. Il problema stava nel fatto che, a seguito della riforma luterana e dei coevi scismi ecclesiali nazionali, l’anglicano come il gallicano, la teologia non costituiva più, per dirla ancora con Carl Schmitt, l’“ambito centrale”, il perno o l’asse portante, della civiltà tale da comporre i conflitti tra contendenti che si riconoscevano parte dello stesso mondo spirituale e culturale. Dopo Lutero, ormai la Chiesa non era più l’alveo comune dei cristiani ma era diventata Essa stessa soltanto una delle parti in causa, non più il Giudice di ultima istanza. Era, quindi, necessario trovare un altro ambito centrale che, sostituendo quello medioevale – ed anche, aggiungiamo noi, subentrando ad esso nel senso di una spirituale discesa verso il basso –, riuscisse a comporre il conflitto devastante che si era aperto tra i cristiani. Questo nuovo ambito centrale fu trovato, con la Pace di Vestfalia, attraverso la secolarizzazione. La desacralizzazione, del Politico e del Giuridico. Un giurista dell’epoca, Alberico Gentile, espresse molto bene questo passaggio epocale quando rivolto ai teologi, accusati di fomentare le guerre con i loro dissidi, affermò “Silete theologi in munere alieno”. La teologia era ormai questione separata e diversificata dalla politica e dal diritto, anche internazionale. Sicché soltanto una giurisprudenza secolarizzata, neutrale rispetto alle contese teologiche, e pertanto “razionalista” poteva costituire il nuovo ambito centrale per la composizione dei conflitti. Quando Ugo Grozio, nel 1625, utilizzò l’espressione, destinata a rimanere famosa, “etsi Deus non daretur”, per sostenere che il diritto naturale si regge anche senza alcun riferimento confessionale ed, anzi, metafisico – qui lasciamo stare da parte la questione se quella di Grozio sia una sentenza comprovata dai fatti, perché, viste le sue conseguenze, la risposta è evidentemente negativa –, egli non faceva altro che anticipare di qualche anno la descrizione dei fondamenti antimetafisici del nuovo diritto internazionale che sarebbe sorto dalle guerre di religione.
Lo Jus publicum europaeum e le sue vicende
Un sistema gius-internazionalista, quello dello Jus publicum europaeum, che resse, nonostante le guerre napoleoniche nelle quali iniziò a riaffiorare la guerra ideologica, fino alla prima guerra mondiale quando, mentre l’Europa cristiana nata dalla Pace di Vestfalia, succeduta alla Cristianità medioevale, iniziava a risolversi nell’Occidente moderno il cui baricentro è nell’area angloamericana, ad esso subentrò un nuovo diritto internazionale a carattere umanitario e cosmopolita, che cioè astrae da qualsiasi riferimento territoriale e guarda al mondo come ad una Cosmopoli quale unica possibilità per raggiungere la kantiana “Pace Perpetua”, l’universale fine del conflitto. Si tratta, in verità, di una mera utopia, perché, come ben sanno i cristiani, la natura ferita dell’uomo produrrà sempre, fino alla fine dei tempi, occasioni di conflittualità, sicché erano molto più saggi i nostri antenati medioevali come anche quelli della prima modernità a cercare vie di contenimento e limitazione del conflitto piuttosto che perdere tempo a masturbarsi con impossibili sogni pacifisti di eliminazione perenne della guerra. Non solo il sogno kantiano non si è infatti realizzato ma proprio il diritto umanitario ha reintrodotto la disumanizzazione del nemico. In un sistema di diritto internazionale, astrattamente cosmopolita, chi turba l’ordine costituito – che poi è quello stabilito dalle potenze egemoni – diventa ipso facto il kantiano “nemico ingiusto” ovvero un “criminale”, un “Nemico della Pace”, un “Nemico dell’Umanità”, che si pone, pertanto, al di fuori della dimensione umana e contro il quale è lecita ogni azione di repressione armata perché tale repressione non viene reputata guerra, neanche “guerra giusta” al modo antico, ma addirittura una “azione penale”, “punitiva”, “poliziesca”. Non a caso da decenni sentiamo ripetere che le guerre occidentali non sono guerre ma “operazioni di polizia internazionale” o, altrimenti, “operazioni di pace” o, ancora, “operazioni umanitarie” intese ad esportare libertà e democrazia. Quando Putin, di recente, ha definito la guerra russo-ucraina una “operazione speciale militare”, intesa alla denazificazione dell’Ucraina, non ha fatto altro che utilizzare le stesse categorie introdotte dal diritto internazionale umanitario elaborato dall’Occidente, con, anzi, bisogna riconoscerlo, un minimo di onestà, ignota all’Occidente, giacché non ha preteso parlare di “azione di polizia” ma ha comunque utilizzato il termine “militare”.
Lo jus publicum europaeum non era sistema giuridico astratto, come l’attuale diritto internazionale umanitario, ma si fondava su precise delimitazioni territoriali ossia quelle tra gli Stati dell’Europa cristiana del tempo, benché religiosamente ormai divisa, riconosciute reciprocamente inviolabili. In effetti le limitate guerre sei-settecentesche non finivano con l’annientamento del nemico o la conquista territoriale, salvo qualche periferico e parziale aggiustamento, ma con paci concordate tra soggetti internazionali che si riconoscevano in termini di parità giuridica. L’eurocentrismo dello jus publicum europaeum, il suo essere un sistema normativo di regolazione del conflitto attraverso la localizzazione territoriale degli spazi di ciascun attore statuale, consentiva soltanto guerre delimitate e condotte con una ritualizzazione delle manovre militari sul campo, la cosiddetta “guerre en forme”, intesa a risparmiare quante più vite possibili. In quanto sistema territoriale eurocentrico lo jus publicum europaeum si poneva come contraltare alla “libertà dei mari” che, mentre il baricentro geopolitico si spostava verso gli oceani, tendeva all’anarchia giuridica internazionale. I mari, infatti, a differenza della terra, non sono soggetti a delimitazioni, divisioni e localizzazioni e, quindi, sono refrattari a qualsiasi stabile sistema normativo di regolamentazione degli spazi e dei conflitti. In “Terra e Mare” Carl Schmitt ha spiegato che nella “libertà dei mari”, sotto il vessillo di ideali libertari ed umanitari, sta la matrice del dominio mondiale prima inglese e poi americano. Non a caso l’arma vincente dell’Inghilterra sulla Spagna asburgica, la quale benché impero coloniale mondiale si muoveva sui mari con la tradizionale forma mentis dell’impero terraneo, è stata la pirateria. Un dettaglio che fa risaltare molto bene quali sono le radici dell’odierno Occidente.
Il diritto internazionale umanitario
Con i primi tentativi, a seguito del primo conflitto mondiale, di formare una comunità internazionale di tipo umanitario, avulsa da appartenenze nazionali e confessionali, che altro non è che la vecchia “repubblica universale” sognata dagli illuministi e dalla massoneria – tentativi poi rafforzati, dopo il secondo conflitto mondiale, con l’istituzione di organismi sovranazionali prefiguranti un governo mondiale, o almeno una governance globale – andò prendendo piede l’idea che il rapporto tra la Cosmopoli Umanitaria e chi ne mette a rischio l’ordinamento internazionale è lo stesso che sussiste, all’interno dei singoli Stati, tra il pubblico potere giudiziario e il delinquente che viola le regole della civile convivenza. In uno scenario giuridico di tal genere i contendenti non hanno più alcuna posizione paritaria come non sono sullo stesso piano il poliziotto ed il magistrato, ossia i poteri dello Stato, nei confronti del criminale interno. Ha così fatto ritorno, ma in modo completamente diverso e soprattutto in un quadro spirituale ed epocale assolutamente distante, il carattere discriminatorio della guerra. Il diritto internazionale umanitario, infatti, discrimina tra chi – di volta in volta l’ONU o la NATO o altri Organismi sovranazionali – agisce come agente legale e chi invece agisce illegalmente come “Nemico dell’Umanità e della Pace”.
Se nel diritto internazionale medioevale pre-globale l’esistenza di una Autorità sacrale di ultima istanza garantiva, perlomeno all’interno della Cristianità (salvo il caso degli eretici), che la “guerra giusta”, restasse un elemento, benché asimmetrico e discriminatorio, di regolazione del conflitto, senza sfociare nella disumanizzazione – perché il cristiano che conduceva una guerra dichiarata ingiusta restava pur sempre, se non eretico, cristiano ossia membro della Cristianità ed a maggior ragione restava, anche se eretico, come pure gli infedeli, un essere umano – con il concetto di “Nemico dell’Umanità” siamo ormai alla dichiarazione dell’ostracismo del nemico, di chi viola l’ordine internazionale stabilito, dal novero dell’umanità. La prima e più evidente conseguenza di questo passaggio è che i vincitori possono, anzi hanno tutto il diritto, di processare i vinti anziché far pace, su un piano di reciproca parità giuridica, con essi. Con il nemico del genero umano – che qui non è Lucifero ma sono uomini concreti – non si tratta; esso può essere solo annientato.
Il diritto internazionale “umanitario” si risolve, in buona sostanza, in una copertura normativa e giustificatrice del rapporto di forza tra l’Occidente egemone, a trazione angloamericana, ed il resto del mondo. Giustificatrice delle “operazioni di polizia internazionale”, delle “esportazioni militari della democrazia”, dei “bombardamenti intelligenti” e dei processi imbastiti dai tribunali internazionali come quello dell’Aja contro i responsabili, sempre a senso unico, delle guerre ovvero i nemici sconfitti dell’Occidente. Si tratta dello scenario che abbiamo visto in atto anche nelle recenti “guerre umanitarie” occidentali in Iraq, Siria, Libia, Serbia, Afghanistan e altrove.
Ma non c’è solo l’orizzonte politico-giuridico nelle vicende storiche
L’occasione dalla quale siamo partiti, la rimozione del crocifisso dalla sala della Pace di Münster, deve portarci anche a riflessioni su un piano ulteriore a quello, giuridico-politico, sul quale finora abbiamo dipanato le nostre argomentazioni. Un evento come quello di Münster, che sembra soltanto una cronaca giornalistica, assume invece, a ben vedere, anche un aspetto metafisico. Perché, senza pensare che i problemi internazionali non siano innanzitutto un fatto di uomini, nella vicenda umana agiscono, insieme a quelli naturali, anche livelli più sottili e le stesse differenze culturali tra i popoli non possono essere trascurate, come vorrebbe l’utopia globalista che mira ad uniformare tutto il mondo al solo modello occidentale/americano moderno (‘che anche l’Occidente ha conosciuto altre vicende nel corso dei secoli, tanto che identificarlo, in particolare identificare l’Europa, con l’americanismo è un falso).
Gli eccessi escatologici sono sempre pericolosi in politica, tuttavia fatti come quello di Münster si manifestano soltanto in Occidente sicché diventa poi difficile non pensare che è necessario non trascurare la possibilità di una esegesi degli eventi politici e storici non aliena da prospettive sovrumane. Aleksandr Dugin, nel suo discorso al Forum ortodosso di recente svoltosi in Russia, ha parlato di luciferinismo occidentale (2). Da tempo si sentono da parte russa denunce sul carattere anticristico dell’Occidente ed appelli al significato escatologico dello scontro tra Russia, ultimo Katéchon, ed Occidente. Non solo il citato Dugin ma anche il patriarca Kirill, il vice presidente Medvedev e lo stesso Putin hanno calcato la mano sul carattere chiliasta della guerra russo-ucraina.
In Occidente, nell’incapacità secolare di capire gli stretti rapporti che sempre sussistono, anche in società laicizzate, tra Trascendenza e Politica, c’è chi grida al “fanatismo” profondo della Russia, alla sua natura non moderna ossia non secolarizzata, al carattere religioso-ideologico della subordinazione ortodossa della Chiesa allo Stato (che è una fandonia laddove nel mondo ortodosso vige un paradigma “sinfonico” che se unisce profondamente Chiesa e Stato però non li confonde né rende necessariamente la prima uno strumento del secondo). Tuttavia chi in Occidente si straccia in tal modo le vesti dimentica che lo spirito missionario, rimproverato alla Russia, costituisce l’essenza anche dell’americanismo e che le affermazioni di Medvedev, di Kirill, di Putin e di Dugin fanno il paio con quelle dei tanti telepredicatori millenaristi americani e con quelle dei Reagan, dei Bush, degli Obama e dei Biden sull’esportazione della democrazia e sull’asse del male o gli Stati canaglia. Evidente eredità del puritanesimo.
Lo spirito missionario ed escatologico russo è ben noto sin dai tempi (XV-XIV secolo) di Ivan III, detto Il Grande, e di suo nipote Ivan IV, detto Il Terribile, nonché dell’elaborazione nella teologia ortodossa dell’idea di Mosca quale Terza Roma erede di Bisanzio (la Seconda Roma) e della prima Roma, idea poi ripresa dai sovietici in chiave comunista ed oggi nel clima patriottico-imperiale della Russia contemporanea. Tale teologia politica è da sempre un elemento strutturale della Russia e senza di essa la Russia neanche sarebbe. Come sosteneva nel XIX secolo Kostantin Nikolaeviç Leont’ev, in “Bizantinismo e mondo slavo”, la Russia è Autocrazia più Ortodossia. E non può essere altro. Nessuno nega che questa teologia politica abbia aspetti rischiosi perché può portare ad una eccessiva mondanizzazione ovvero politicizzazione della fede, quasi un contraccolpo all’eccesso di apofatismo, di eredità platonica, della teologia ortodossa. Detto questo però è molto discutibile la tesi per la quale Putin, per quanto possa usarle strumentalmente nella politica interna, si faccia eccessivamente condizionare da questioni escatologiche. Nonostante gli accenni che egli fa sovente a tali questioni nei suoi discorsi, accenni che bisogna ritenere sinceri, Putin, uomo del Kgb, ossia di un organo dello Stato e quindi avvezzo a ragionar in termini di potere reale e concreto, è un realista e sa molto bene che la partita si gioca anche sul piano mondano.
Il realismo politico, tuttavia, non deve portare all’errore, tipico dell’Occidente moderno, di non tener conto anche dei risvolti culturali e spirituali della contesa, che ci sono e svolgono il loro ruolo insieme ad altri fattori e, quindi, in un tutto organico il quale, proprio per questo, impedisce qualsiasi riduzionismo fondamentalista, che oltretutto è un portato della laicizzazione moderna e non della Tradizione. Nelle fedi abramitiche il rapporto tra Sacro e Politico comporta la possibilità di un cortocircuito laddove venisse meno la distinzione tra i due livelli. Il jihad mussulmano o la pugna spiritualis cristiana, che hanno valenza esclusivamente sul piano dell’ascesi interiore, spesso sono state, illegittimamente, trasposte in termini di “guerra santa” (una categoria, questa, ignota tanto al Cristianesimo quanto all’Islam, se non, appunto, nell’ambito dell’ascetica e dello “sforzo interiore”). Per questo Cristo ha insegnato a dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio. Il problema è che in Occidente questo insegnamento di Nostro Signore è stato frainteso nel senso non della legittima distinzione dei piani ma in quello della separazione o opposizione tra gli stessi. Ed è così che si è giunti al già ricordato “etsi Deus non daretur” di Grozio, proprio nell’ambito della formazione dello “jus publicum europaeum” durante la carneficina delle guerre di religione. Il “come se Dio non fosse” se da un lato ha raffreddato l’escatologia maldestramente ed illegittimamente tradotta o, meglio, ridotta a politica, dall’altro però ha posto le basi per la secolarizzazione del Politico e, quindi, alla fin fine per il suo naufragare in favore dell’egemonia dell’economia, della finanza e della tecnica. Un gran bel pasticcio dal quale non usciremo da soli con le sole nostre forze, nonostante ogni teorizzazione di pensiero.
Il fatto è che tra l’ideale ed il reale sussiste sempre un gap. Il liberalismo occidentale si presenta con le nobili parvenze della tolleranza e del rispetto reciproco nel limite dello Stato di diritto e della garanzia delle libertà fondamentali, compresa quella religiosa. Ma, nella realtà storica dei fatti, questo liberalismo ideale non è mai esistito. Abbiamo soltanto un molto più prosaico liberalismo reale il quale non è affatto esente da cadere esso stesso, e spesso, in soluzioni illiberali liberalisticamente giustificate. Secondo l’accezione propria tradizionale del termine essere “liberali” significa essere privi di interessi mondani e esenti da odi e passioni. È questo il senso nobile, non moderno, della parola “liberale”. Ma, se così è, diventa evidente che per essere liberali, in tal senso, è necessario, come per essere buoni cristiani, una grazia interiore non di origine umana. Invece nel concreto del dinamismo storico ogni volta che, secondo teoria e prassi liberale, si è lasciato spazio, benché all’interno del perimetro della legge positivamente stabilita, all’errore ed al male essi si sono imposti in modo totalizzante e senza alcuna tolleranza. Basta osservare cosa sta accadendo nell’Occidente relativista e liquido, meglio in dissoluzione, di oggi, laddove si pretende accreditamento e parificazione giuridica, in nome della libertà religiosa, non solo delle antiche tradizioni spirituali non cristiane ma delle peggiori sette neospiritualiste moderne e postmoderne e dove si fa strada la parificazione alla famiglia naturale delle convivenze omosessuali con ricorso all’ignobile utero in affitto per procurarsi la prole, mentre già avanzano le peggiori castronerie Lgbt+ fino alla rivendicazione della legalizzazione della pedofilia e, di recente, della zoofilia (accoppiamento sessuale uomini-animali).
In questo senso diventa innegabile che Dugin, Kirill, Medvedev e Putin, esagerazioni e strumentalizzazioni di strategia politica a parte, affermando il carattere spirituale dello scontro tra Russia ed Occidente, non dicono nulla di falso. Una guerra escatologica senza dubbio c’è ed è quella, per dirla con san Paolo, “non contro la carne ma contro le potenze e gli spiriti che sono nell’aria”. E questa guerra, pur essendo spirituale e quindi innanzitutto in interiore homine, non può non avere connessioni e riflessi con la vicenda storica dell’uomo, proprio perché la storia è fatta da uomini nel cui spirito ogni giorno si combatte la pugna spiritualis. D’altro canto, Nostro Signore Gesù Cristo ce lo ha detto che è dal cuore dell’uomo che sorge ogni iniquità.
NOTE