di Roberto PECCHIOLI
Gabriele D’Annunzio era chiamato l’immaginifico per la sua capacità di creare nuove parole, sempre suggestive, capaci di rendere più poetica la realtà, l’oggetto, la persona o la situazione che descriveva. Ben più immaginifico è il Terzo Millennio, che inventa parole e sintagmi a getto continuo. In genere si tratta di operazioni niente affatto neutre, come quelle della correttezza politica, il cui obiettivo è cambiare la percezione delle cose e modificare i significati attraverso nuovi “significanti”, le parole proposte e imposte in sostituzione di quelle vecchie.
Molto di moda è “resilienza”, utilizzata dagli inventori del Grande Reset e largamente usata da Mario Draghi (in genere assai parco di parole) nel discorso di insediamento come capo del governo italiano. La resilienza è un concetto tratto dalla fisica- l’attitudine di un materiale ad assorbire un urto senza rompersi- preso in prestito dalla psicologia, la capacità di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà. Nella neolingua del reset, è un imbroglio: si tratta, in sostanza, di definire come nuova virtù popolare la sopportazione di eventi negativi da parte dello sfortunato popolo a cui è destinata la cultura obbligatoria della cancellazione. Il male cambia campo e diventa bene: miracoli del dominio globalista. Esistono sinonimi di resilienza ben più pregnanti: resistenza, fortezza, fermezza, o sintagmi come forza morale. Il loro difetto è di farsi capire: meglio resilienza, parola arcana a cui ciascuno può attribuire il senso che preferisce.
In altri casi, vi è l’effettiva necessità di riferirsi con termini appropriati a realtà nuove, come nell’ambito della tecnologia e dell’informatica. In quel campo, semplicemente le parole non esistevano e si sono dovute creare ex novo. I neologismi si moltiplicano con moto accelerato. In molti casi, sono anglicismi non tradotti per pigrizia, sindrome di Stoccolma dei colonizzati e, naturalmente, perché non interessa affatto farsi capire. L’ultimo esempio in ordine di tempo è “green card”, il nome giornalistico – che diventerà la definizione burocratica – del cosiddetto passaporto vaccinale europeo. Green, verde: una spruzzata di ecologia non si nega mai, per quanto l’allusione sia al semaforo. Barattiamo la libertà con la vaccinazione: una forma di resilienza, in fondo.
Sullo sfondo, intanto, avanza un altro sintagma nuovo fiammante: si chiama violenza vicaria. L’officina neolinguistica non è mai neutra. Infatti il concetto fa parte della demonizzazione crescente del maschio. Abbiamo dovuto sopportare il “femminicidio”, l’omicidio di un essere umano di sesso femminile, considerato più grave del togliere la vita a persone dello stesso sesso. Non abbiamo fiatato dinanzi alla “violenza di genere” – sempre a senso unico- concetto in base al quale, per esempio, la legislazione di qualche paese prevede che a ogni reato commesso nei confronti di una donna cui si è o si è stati legati da rapporti di coppia, venga riconosciuta l’aggravante “di genere”. Lo stesso atto è punito più severamente se l’autore è un uomo, in barba a duemilacinquecento anni di dibattito sull’eguaglianza davanti alla legge (l’”isonomia”). Aspettiamo la pronuncia dei tribunali di genere quando la fattispecie riguarda coppie omosessuali, maschi o femmine.
Nel caso della violenza vicaria, si salta di un balzo la logica e finanche l’umana pietà per le vittime. Il concetto è il seguente: si ha violenza vicaria quando il marito o compagno uccide o rapisce i suoi figli per far soffrire la madre. Non contano più le persone che subiscono il crimine, i bimbi. Importa che siano vittime del padre, designate come tali al posto della madre. Nulla importa che nella triste contabilità degli infanticidi non sia così rara la responsabilità di madri che la pietà di ieri chiamava “snaturate”, per negare una colpevolezza totale, di piena vertenza, alle sventurate, travolte da drammatiche situazioni personali o esistenziali, che arrivano a sopprimere il frutto del suo corpo. I padri che compiono gesti tanto terribili in genere uccidono anche se stessi, ultimo atto di tragedie indicibili a cui occorre accostarsi con tutta la pietas possibile.
Non importa: per il progressismo postmoderno, unici assassini sono gli uomini. Eppure esiste da sempre, nel diritto e nel dizionario, il cupo lemma “infanticidio”. Oggi sono di gran moda i neologismi ideologici: migrante al posto di immigrato, ad esempio, oltre alle fobie postmoderne: omofobia, transfobia, e persino demofobia, l’odio per il popolo. Il fenomeno si accompagna al divieto per altre parole: vecchio, grasso sono le più innocue. Anni fa, il sindaco di Madrid, una femminista attempata e un tantino in sovrappeso (anche noi ci siamo autocensurati!) pubblicò una guida per offrire ai cittadini parole non offensive. La prostituta, ad esempio, doveva essere chiamata “donna in situazione di prostituzione”, un eccesso di parole piuttosto ridicolo, oltreché poco pratico. Ai clienti non riservava tanti riguardi: consigliava di chiamarli “prostitutori” (?) o, senz’altro “puttanieri”, termine che etichetta l’uomo, ma in fondo anche la donna “in situazione di prostituzione “.
La sinistra fallisce nella storia quanto nella teoria, per cui è costretta a sostenersi attraverso un alleato intellettuale, la ri-creazione epistemologica che ribalta o addirittura crea la realtà. Il linguaggio, i cui limiti segnalò per primo Wittgenstein (ciò di cui non si può parlare si deve tacere) è sempre più slegato dalla realtà. Reale è il comportamento concreto, ed è ovvio che siamo condizionati dalle idee e dal linguaggio nel quale le esprimiamo. Dunque, si può modificare la realtà barattando il significato delle parole, creandone di nuove o demolendo le vecchie.
Chi chiamerebbe più invertito un omosessuale, anche in una conversazione familiare? La mania di introdurre la neolingua e di imporla alla società è una vera e propria ideologia; per questo i mezzi di comunicazione introducono e amplificano parole ed espressioni che non avevamo mai udito. Violenza vicaria è la definizione colta, progressista e presto obbligatoria del gesto orrendo del padre infanticida il cui obiettivo è infliggere sofferenza alla moglie, fidanzata o compagna. Già le gazzette del progressismo parlano “della forma più mostruosa di violenza contro le donne “. E le vittime primarie, ossia i bambini? Le loro vite contano ancora o sono solo figurine sullo sfondo, non i soggetti che subiscono la violenza? “Uccidere i figli per colpire le madri è l’estremo delle molteplici forme di violenza maschilista e di genere “. Ossia, le vittime, par di capire, sono le donne, non i poveri bambini.
Addirittura, in un commento a un drammatico evento di cronaca, un’articolista scrive che “non c’ è un pazzo assassino; è il volto del maschilismo. “Negli stessi giorni, un altro caso ha coinvolto una madre, con le stesse sconcertanti motivazioni. Nessuno ha parlato di violenza vicaria. La conclusione è chiara: l’espressione ha l’obiettivo di creare la realtà, non di fotografarla. Interessa far passare, attraverso il sintagma “violenza vicaria”, il concetto che gli uomini- e solo gli uomini – uccidono i figli per far del male alla compagna di vita, in carica o ex. Dunque, tutti i padri, tutti gli uomini, sono potenzialmente degli assassini del tipo più odioso, boia dei loro stessi figli.
A questa incultura violenta e volgare non interessano i bambini. Tantomeno le donne e le madri, eccetto quelle – pochissime, grazie a Dio- vittime di vendette tanto crudeli. Nessun cenno ai ricatti, economici, morali, esistenziali, di madri che usano i figli per consumare vendette nei confronti dei loro ex. La vera violenza vicaria è quella che una cultura di paccottiglia, creduta per accumulazione, esercita nei confronti di chi è privato degli strumenti linguistici, culturali e morali per vedere e giudicare, a partire dalle parole. Ci sono gli antidoti: dibattito, confutazione, verità. Non era questa la “società aperta”?