A Davos, i miliardari, economisti di corte e politici orfani di Obama si sono stretti attorno a Xi Jinping: “Ultimo difensore del libero-scambio!”, l’hanno acclamato baciandone le mani. Si capisce dalle foto come Xi se la rideva.
Liberista, la Cina? Sul riso importato applica tariffe del 34 per cento.
Come tutti i paesi asiatici, del resto (il Giappone impone dazi del 300%), e fanno benissimo: anzitutto bisogna salvare i contadini nazionali, sottrarli agli incerti del mercato mondiale , alle sue speculazioni omicide; la riserva alimentare nazionale sia assicurata. Salvare la razione di pane, la ciotola di riso, ossia l’autosufficienza alimentare per possibili tempi di tempesta, guerre e chiusure e tenere i coltivatori nei campi, nel paesaggio.
Qui sotto, la tabella con tutti i sussidi sui prezzi con cui i paesi asiatici proteggono la produzione nazionale di riso.
La fonte non è il Volkischer Beobachter, è uno studio dell’ultraliberista Economist del 2013. Infatti non si è trattenuto dal dare la lezioncina : invece di comprare il riso sui mercati mondiali dove costa meno, questi paesi producono riso superiore ai prezzi di mercato. “il che rende i cittadini più poveri”. Per dar ragione ad Economist, basta dimenticare che i consumatori (che pagano prezzo alto) sono anche i produttori, ai quali un prezzo alto dà più profitti. Un’altra ammissione della Bibbia britannica del globalismo: il successo di quei paesi è dovuto anche ad una finanza “modesta e poco sviluppata”, tenuta per le redini dallo Stato.
Direte: cosa importa in fondo, il riso, un cereale di poco valore. Perché, credete che la Cina sia un mercato aperto alle altre importazioni? Vi siete dimenticati in che modo Pechino ha costruito la sua propria industria automobilistica nazionale: imponendo dazi del 100 per cento sulle auto straniere. Alle Case occidentali hanno detto: vi fa’ gola il nostro gigantesco mercato (inesistente)? Impiantate le vostre fabbriche qui, che siano prodotti nazionali, esenti da dazi; naturalmente, dovrete prendere anche un socio-azionista cinese….Le multinazionali ovviamente hanno accettato: hanno aperto fabbriche industriali, hanno formato la manodopera, hanno trasferito il know-how tecnologico; il socio-azionista ha aperto la sua fabbrica: in breve, hanno creato ai cinesi l’industria che non avevano. Che adesso esporta nel mondo le auto cinesi. E i fabbricanti occidentali? Niente: il 95% delle auto che circolano in Cina è fabbricato in Cina.
Mica solo auto, e mica solo la Cina. Prima di lei, il Giappone ha creato la sua industria elettronica con i dazi, seguito da Taiwan e Corea del Sud. Che oggi sono le eccellenze esportatrici di smartphone, tablet, computer, chips, inizialmente concepiti in Europa e in Usa. Forse che hanno abbandonato i settori maturi, importando, che so, acciaio laminato, frigoriferi e lavatrici? Avrete guardato la marca del vostro frigo… Una volta era Indesit. Adesso è Samsung (eh sì, fabbricano anche elettrodomestici) o LG, cinese.
L’Asia pacifica si è sviluppata, ha creato il suo nerbo industriale, non con il liberismo, ma con dazi protezionistici e sussidi iniziali ai prodotti locali, o imponendo “soci” nazionali per imparare la tecnologia e la “cultura” industriale; o come nel caso del Giappone, perché Texas Instruments aveva inventato il transistor e non sapeva che farsene (farne radioline? Non c’era abbastanza profitto!), sicché vendette il brevetto a Sony, se non ricordo male, per 20 mila dollari.
Noi, invece, ci siamo deindustrializzati. Ancora una volta l’Economist ha informato che per gli Stati Uniti, il commercio libero con la Cina ha prodotto la perdita di 2,4 milioni di posti di lavoro dal 1990 al 2007, e riduzioni tragiche di salari.
Ha perfettamente ragione Trump: il mercato globale è “asimmetrico” a nostro sfavore, e va corretto.- Il gioco non è stato leale, e il “mercato” è il famoso terreno di gioco che deve essere appianato per tutti.
Ma mica è colpa dei cinesi o sud-coreani. E’ colpa dei nostri geniali governanti ultraliberisti, delle grandissime multinazionali e degli economisti globalisti, che hanno trascurato un piccolo dettaglio: la reciprocità.
Dottrinari, hanno creato un “mercato libero globale” senza reciprocità: noi ci siamo obbligati ad abolire tutti i dazi (o al massimo metterli al 3 per cento), senza esigere dagli asiatici che smantellassero i loro, ed anche i dazi non-fiscali e informali di cui sono strapieni. Perchè? Io credo per avidità: per il miraggio del’”immenso mercato cinese” che si sarebbe aperto, e l’attrattiva dei bassi salari cinesi. Ma i politici occidentali, che dovevano impedire questa asimmmetria, sono imperdonabili.
E continuano. Pensate solo quanti milioni di smartphone, tablet e computer importiamo; pensate ai milioni che ne importa lo Stato. Un così grosso cliente potrebbe benissimo stilare contratti di fornitura con la Casa coreana, cinese o nipponica che accettasse di fabbricarli in parte sul territorio italiano, o almeno europeo. Ma certo, la Mertkel, Draghi, Schauble, Disselbloem strillerebbero: “No! E’ protezionismo! Inefficiente!”.
E’ stato divertente sentire a Davos Xi, un dittatore di un regime protezionista al massimo, che ha spiegato la dogmatica liberista: “ Un dollaro di misura protezionista diminuisce la ricchezza nazionale di 66 centesimi; un dollaro di aumento di un dazio sull’import riduce di 2,16 dollari l’introito delle esportazioni, e il reddito mondiale di 0,73 dollari”. Stava ripetendo un atto di fede elaborato dall’OCSE. Tutti hanno applaudito. Non tenendo presente che se fosse vero, Xi non sarebbe nemmeno stato lì, come esponente della seconda potenza mondiale industriale, i suoi cinesi avrebbero ancora avuto come sogno il comprarsi la bicicletta.
Ancora una volta bisogna smontare un mito, dopo quello per cui “i nazionalismi fanno le guerre” (invece sono le “democrazie” globaliste a farle); è che i “protezionismi creano recessione”. I protezionismi creano sviluppo, come dimostra l’Asia del Pacifico. Ma non si tratta di un dogma, al contrario del mito liberista. I protezionismi a volte servono, sono uno degli strumenti nella cassetta di attrezzi pubblici da usare con discernimento e sagacia. Alexander Hamilton, il segretario al Tesoro di George Washington, lo praticò per svincolare la nuova nazione dalla dipendenza dell’industria “avanzata” britannica: dazi sulle locomotive inglesi importate, per creare, al loro riparo, l’industria nazionale ed uscire dalla condizione di “ricco” paese agricolo esportatore di tabacco e cotone, a cui consigliava di attenersi Adam Smith. Come forse sapete, il protezionismo si chiamava allora “Sistema Americano”: con questo nome lo fece conoscere in Germania, Friedrich List (contemporaneo di Adam Smith) il fondatore dell’economia politica, come strumento per liberare la Germania dalla dipendenza dalle industrie britanniche.
Ora in America i “discreti padroni del mondo”, secondo il grande inviato Pepe Escobar che dice di aver parlato con uno, ci si è accorti che la de-industrializzazione è arrivata al punto da provocare uno svantaggio strategico. “Siamo in ritardo tecnologico sulla Russia in termini di armamenti”, ammette l’interlocutore all’inviato.
“Henry Ford raddoppiò il salari ai suoi operai e fece più soldi di ogni altro industriale. La produttività di massa di Henry Ford è quella che ha fatto vincere la seconda guerra mondiale. Oggi, Amazon è un servizio di marketing e vendita sul web, e non contribuisce in niente alla difesa nazionale. Idem per Google. Fenomenali. Fanno guadagnare miliardi ai loro inventori, ma dal terziario avanzato non viene un missile migliore o un miglior sottomarino”.
Da qui la decisione molto in alto, pare, di mettere alla Casa Bianca un “protezionista”. “I padroni del mondo han guadagnato tanti quattrini trasferendo le industrie in Asia, ora ne guadagneranno altri sul ritorno delle industrie, diminuendo i loro investimenti in Asia e riportandoli in Usa per ricostruire la produzione qui”, dice l’interlocutore di Escobar. Sia vero o no, ecco la fonte: .
http://www.informationclearinghouse.info/46278.htm
In Italia, il protezionismo da distruggere.
Con ciò, non prendete l’autore per un protezionista totalitario. Per esempio, il vostro modesto cronista è ostile al protezionismo che si è instaurato in Italia, e lo vorrebbe smantellare, aprendo il libero mercato: è il protezionismo degli stipendi pubblici, parapubblici e comunque “garantiti”. Sono tutti fuori mercato. La Botteri a 200 mila euro l’anno può essere facilmente sostituita da giovani plurilingue ben lieti di prenderne il posto, diciamo, per 30 mila: ma lì la concorrenza non viene fatta funzionare. E i caselli autostradali? Ora automatizzati, in cui non c’è nessuno, se non una voce e uno sportello per le monete? Mi hanno detto – non so se è vero – che alle Autostrade il lavoro costa troppo. Operatori umani, con gli straordinari per lavoro notturno, possono guadagnare 5 mila euro mensili. Ebbene: io conosco una m mezza dozzina di amici, disoccupati, che farebbero i turni di notte per 1500. Vedete che la concorrenza, in Italia, non c’è per tutti. Il libero mercato? Non fatemi ridere, ché ho le labbra screpolate, come diceva Walter Matthau.